Una sacra leggenda orientale tramandata per millenni narra la storia di Rama, guerriero valoroso, uomo giusto e settimo avatar (termine della lingua sanscrita che indica la personificazione terrena della divinità) di Visnù, uno degli dei della triade induista insieme a Brahma e Shiva. Rama era il discendente al trono del regno di Koshala, corrispondente grossomodo alla nostra odierna India, ma venne ingiustamente privato del proprio titolo ed esiliato dalla capitale Ayodhya insieme alla sua sposa, la bellissima e fedele Sita.
Dopo quattordici anni di esilio, mentre i due reali decaduti viaggiavano nei pressi della foresta Dandaka, la grazia e la bellezza di Sita giunsero per caso sotto lo sguardo del crudele Ravana, principe spietato di Lanka e sovrano dei temibili Rakshasa, entità sovraterrene mezzi uomini e mezzi demoni. Subito Ravana, con il favore dell'oscurità ed insidiandosi nel giaciglio di Rama, rapì Sita trascinandola con la forza nel proprio palazzo. La disperazione di Rama fu grande, e grande lo sconforto, ma il principe esiliato, orgoglioso e battagliero, decise senza pensarci due volte di andare in aiuto di Sita e di combattere Ravana ed il suo diabolico esercito. Consapevole di non poter affrontare da solo schiere di forti demoni, Rama ottenne l'alleanza dei Vanara, potente popolo di uomini-scimmia furbi e coraggiosi, i quali gli giurarono fedeltà. Così Rama costruì un ponte sospeso sul mare per collegare Koshala con Lanka, e una volta ultimato mosse battaglia a Ravana. La guerra che si scatenò fu epica e durò decenni. Rama, con il proprio infallibile arco ed affiancato dal fedele Vanara di nome Hanuma, ottenne gloriosi successi e subì pesanti sconfitte. Ma alla fine l'astuzia degli uomini vinse la brutalità dei demoni: Rama uccise Ravana con un colpo di freccia e salvò l'amata sposa Sita. Così il principe esiliato poté fare ritorno a Koshala vittorioso, seguito dal proprio esercito di Vanara e di nuovo legittimato a sedere sul trono precedentemente perduto. I Rakshasa vinti da Rama, dopo aver celebrato solennemente il rito funebre di Ravana, tributo al valoroso combattente e compagno di armi in molti scontri, giurarono fedeltà a Rama, convertendosi al potere della luce ed abbandonando per sempre le tenebre. Ancora oggi, all'entrata di ogni tempio induista e buddhista, l'ingresso viene presidiato e difeso da alti demoni dal volto terribile e dalle fattezze disumane, un tempo acerrimi nemici ma oggi fedeli alleati nella difesa del bene che seppe sconfiggere l'oscurità.

Questa bellissima leggenda non l'ho letta su una pagina o vista su un teleschermo. Ho potuto invece seguirla, passo dopo passo, a
Bangkok, nei dipinti antichi e perfettamente conservati sulle pareti del
Wat Phra Kaew, il
Tempio del Buddha di Smeraldo, principale luogo di culto religioso di tutta la Thailandia. Le decorazioni si trovano vivide e coloratissime lungo i muri perimetrali del tempio. I particolari sono finemente ricercati e curati. Consiglio comunque di farsi accompagnare lungo il percorso da una guida locale che possa spiegare, narrare ed interpretare tutti gli episodi dipinti: pagherete qualche denaro in più ma ne uscirete più soddisfatti e sapienti. Noi abbiamo potuto visitare il tempio accompagnati dalla nostra indimenticabile guida di nome Miky: aplombe impeccabile, calma imperturbabile, pochi sorrisi ma sinceri, gentilezza infinita, e tanta tanta competenza e conoscenza. In ogni luogo del tempio sacro, accanto alle statue dei demoni guardiani
Rakshasa, qua e la è possibile scorgere anche alcune statue di
Vanara, riconoscibili dagli inconfondibili piedi prensili da scimmia.

Un alto
stupa, termine indicante un santuario contenente le reliquie di Buddha, spicca tra le altre costruzioni in quello che risulta essere un complesso di sacralità ben più vasto dei luoghi di culto che siamo abituati a concepire nella nostra cultura. Numerosi sono gli edifici qui ospitati, tra i quali salta all'occhio in particolare una sala per la preghiera interamente costruita in marmo di
Carrara (così strano a vedersi in questo contesto) che si accosta allo
stupa in un meraviglioso e ben strano binomio architettonico: il materiale per la costruzione venne importato dall'Italia nell'epoca più fiorente della storia thailandese. Ma quello che più mi colpisce, in verità, è osservare un'alta torre conica completamente rivestita d'oro adibita alla conservazione del "Ramayana", il testo sacro religioso narrante la vita e le vicende di Rama. Un libro! Improvvisamente mi ritrovo a pensare alla nostra "Bibbia" e a quanto, nel passato, i libri fossero importanti per i segreti che contenevano e tramandavano nei secoli, considerando allo stesso tempo come oggi si attribuisca forse più valore a cose e concetti più labili e fugaci: è esistito un tempo invece in cui i pensieri migliori meritavano l'eternità. Penso anche a come tutte le religioni forse si assomiglino un poco. Anche nel cristianesimo al centro del culto è posta la figura dell'uomo venuto in nome di Dio: Cristo come Rama sono espressione forse di un culto fraterno. Ma quello thailandese è una filosofia più che una religione, un modo di vivere. Ce ne si può accorgere osservando la meditazione dei fedeli sotto il
Phra Kaew Morakot, la
Statua del Buddha di Smeraldo, il palladio della città, rappresentato come da tradizione con lunghi lobi a simboleggiare una vita di rinunce, con una fiamma in cima al capo (
Usnisa) ed un punto al centro della fronte (
Urna) a significare l'illuminazione raggiunta.

Accanto al luogo sacro ecco il luogo terreno: il
Phra Borom Maha Ratcha Wang, o più semplicemente il
Palazzo Reale, raffinato ed imperioso, è la residenza del re di Thailandia, il quale ancora oggi porta il nome del primo sovrano e protagonista della leggenda delle origini, Rama. Nella cultura thailandese ciò che è spirituale non è mai completamente separato da ciò che invece è materiale e mortale. Per il resto, tutto a
Bangkok parla la lingua della sacralità: dal
Wat Ratchanatdaram, il tempio dalle 37 guglie simboleggianti le 37 virtù da possedere per raggiungere l'illuminazione, al
Wat Sakhet, tempio posto su una bassa collinetta verde denominata
Phu Khao Thong, la
Montagna d'Oro, dall'alto della quale è possibile vedere il panorama completo di tutta la città. La storia di questo luogo narra di come re Rama III decise di costruire un enorme tempio scegliendo questo sito come il più adatto ad ospitare l'opera. Ma la costruzione, una volta ultimata, si rivelò sproporzionata e di dimensioni eccessive, cosicchè, a causa della morbidezza del suolo argilloso, collassò in breve tempo. Le rovine crearono una piccola collina artificiale sopra la quale, trascorso un secolo, venne costruito un nuovo tempio di dimensioni più contenute, che è anche quello che è possibile visitare attualmente. Ad ogni modo, questo è sicuramente il posto migliore per accorgersi di quanto sia grande
Bangkok, data la vista che offre su tutta la metropoli. Per raggiungere il tempio in cima alla collina è necessario percorrere una corta scalinata lungo la quale sono posizionati un gong ed alcune campane, donate da cittadini facoltosi in segno di voto e la cui funzione era quella di richiamare i monaci ai vari compiti spirituali durante la giornata. Entrare dentro un tempio buddhista, peraltro, è un'esperienza mistica anche per persone atee o di fede differente: stare inginocchiato scalzo (in Thailandia in ogni luogo è segno di rispetto entrare senza scarpe e a piedi nudi) davanti alla rappresentazione della divinità e circondato da tantissime persone di differenti estrazioni sociali, alcune poverissime, cala effettivamente in una dimensione tutta personale, spirituale, intima ed emozionante. Insomma, mette in contatto umilmente con la propria parte più profonda.

Il tempio più bello a
Bangkok, comunque, è sicuramente il
Wat Arun, il
Tempio dell'Alba, posto lungo le rive del
Chao Phraya, corso d'acqua cittadino dal quale si diramano infiniti
khlong, piccoli canali navigabili ed in grado di soddisfare il fabbisogno idrico dei vari quartieri della città. La particolare forma del
Wat Arun e la speciale illuminazione all'ora del tramonto lo rendono uno spettacolo unico ed imperdibile. Noi abbiamo potuto ammirarlo durante una crociera sul fiume, mentre mangiavamo cibo thailandese, prima di arrivare al moderno
Ponte Rama VIII, termine ultimo del nostro giro in barca. In mezzo all'oscurità della notte spiccava bellissimo ed imponente, con le figure di numerosi
Yaksha, le divinità protettrici, scolpite in pietra e disposte solennemente lungo le sue terrazze. Una vera delizia...non possiamo dire altrettanto del cibo consumato!

Insomma, tutto in Thailandia parla la lingua dello spirito, della leggenda di Rama e delle sue imprese: questo costituisce il fondamento della cultura indù e del modo di vivere di questi popoli. Dalla tradizione induista con l'avvento di Buddha si sviluppò la fede buddhista, diretta discendente di quella indù e culto maggiormente praticato in Thailandia. Una delle rare situazioni nelle quali le religioni convivono e condividono, senza combattersi ed annientarsi.
Sbarcati dalla crociera facciamo ritorno al nostro modesto ostello con gli occhi pieni di stupore per quanto abbiamo visto: la postazione di guida posta sul lato sinistro, in vigore in tutta la Thailandia, ci ha scoraggiato, al nostro arrivo, dal noleggiare un'auto, così ci affidiamo ai trasporti locali. A bordo di un tuk-tuk, nome onomatopeico del tipico taxi a tre ruote diffuso nei paesi asiatici (un solo consiglio: pattuite accuratamente in anticipo il prezzo e la meta della corsa visto che spesso i conducenti stringono accordi con i commercianti, per cui rischiate di trovarvi fermi davanti a negozi che non avete mai chiesto di visitare), in un folle viaggio a rotta di collo sfrecciando tra il traffico, attraversiamo Silom Road, sede della Bangkok più moderna e commerciale con gli alti palazzi e gli hotel di lusso, ci fermiamo nella caotica Yaowarat, la Chinatown primo agglomerato urbano della primitiva Bangkok (vi sconsiglio per esperienza di fermavi qui a mangiare nelle numerosissime bancarelle ambulanti che intasano le strade), giriamo intorno all'Anusawari Prachathipatai, il Monumento alla Democrazia, ed arriviamo infine in Khaosan Road, crocevia animatissimo della capitale, vero ombelico del Mondo e tempio sacro di viaggiatori, viandanti ed esploratori. Qui troverete in ogni momento un fermento perpetuo di persone attirate dalle numerose tavole calde e dai tantissimi negozi, ai quali di sera si aggiungono innumerevoli venditori ambulanti che per pochi Baht (THB o ฿, vale a dire la moneta locale) vi offriranno qualunque tipo di merce: la cosa più strana che ho visto vendere qui sono degli scorpioni cucinati per essere mangiati. Da far accapponare la pelle!
Viaggiare in Thailandia è come fare un viaggio dentro il viaggio. Fate attenzione solamente ad una cosa: nella cultura thai è considerata maleducazione negare un aiuto ad un viaggiatore sperduto ammettendo di non saper dare istruzioni. Così capita spesso che gli abitanti locali inventino letteralmente di sana pianta indicazioni fantasiose per luoghi che in realtà non conoscono. Perciò fate sempre attenzione ai consigli che vi vengono dati e cercate sempre di orientarvi in autonomia.
Thailandia: il significato letterale di questo nome corrisponde a "terra degli uomini liberi". Si dice che quello thailandese sia l'unico popolo nel Mondo a non essere mai stato sottomesso da governi stranieri. Chi mai potrebbe sospettare che sotto l'apparenza di questa gente semplice, modesta, pacifica, si nasconda una libertà orgogliosa, incontaminata, ostinata ed inviolabile? La Thailandia nacque secoli fa' dalla migrazione di un piccolo nucleo di etnia siamese dalla Cina. La prima capitale venne stabilita a Sukhotai, nelle regioni settentrionali. Circa cento anni più tardi, il principe thai Uthong spostò la capitale nella gloriosa città di Ayutthaya: si narra che questo fosse un luogo bellissimo, ricco e denso di innovazioni urbanistiche ed architettoniche tale da renderlo all'avanguardia nel continente per modernità ed ingegno. I luoghi sacri ed i templi costituivano il centro cittadino e conferivano un aspetto solenne e magnificente alla città, rendendola celebre per sacralità e splendore nel Mondo intero. Furono quelli gli anni in cui il popolo thailandese raggiunse un potere tale da sconfiggere il forte esercito Khmer e saccheggiare la capitale cambogiana Angkor. Il regno thai si espanse richiamando ricchezza dai paesi stranieri, persino dall'Europa, con numerosi scienziati, architetti e filosofi che contribuirono a far progredire le arti, la medicina e la tecnica thailandese. Il periodo fiorente continuò fino al XVIII secolo, epoca in cui l'esercito birmano invase ed espugnò la capitale Ayutthaya, devastandola e radendola al suolo. Si tramanda che per non far cadere nelle mani dei nemici le proprie ricchezze i thailandesi nascosero grandi quantità di oro e preziosi all'interno delle statue sacre nei templi della città, speranzosi che anche i crudeli birmani si sarebbero fermati di fronte all'inviolabilità della religione. Così non fu e, una volta scoperto il piano, gli invasori decapitarono tutte le statue di Ayutthaya trovandovi enormi quantità di ricchezze. Ancora oggi la maggior parte delle statue nei templi antichi della città appaiono decapitate. Ayutthaya venne data alle fiamme e gli unici edifici a sopravvivere furono i soli edifici in muratura, vale a dire i più ricchi ed importanti: i santuari religiosi. Tutte le abitazioni, dalle più umili alle più ricche, costruite in legno, vennero spazzate via senza lasciare traccia. Il governo thai sfuggì alla sottomissione ed alla distruzione stabilendo la nuova capitale a Bangkok, al tempo semplice villaggio di pescatori situato sulla riva del Chao Phraya. Nei decenni successivi progressivamente i thailandesi recuperarono i territori perduti ed alla fine del XIX secolo, epoca che vide la conquista da parte delle nazioni europee di tutti i popoli della zona, resistettero alla spinta coloniale mantenendosi ostinatamente liberi ed indipendenti, gli unici nell'area sudorientale.

L'antica città di
Ayutthaya ci appare all'improvviso come uno spettacolo magnificente e grandioso. Si presenta come un grande complesso di numerosi templi e siti antichi, tutti accomunati dallo stesso stile e costruiti con gli stessi materiali: una particolare roccia rossa che conferisce colore ad ogni luogo. Intorno alle rovine dell'antica gloriosa capitale si raccoglie la città moderna, animata dai rumori dei motori delle auto e dalle voci dei passanti. In mezzo a tutto ciò sta ancora un nucleo silenzioso ed assopito, risparmiato dal logorio dei secoli e giunto a noi da un'epoca lontanissima. Il sito più caratteristico della città antica è il
Wat Phra Sri Sanphet, con le tre alte e ben riconoscibili guglie corrispondenti ai tre
chedi (reliquari buddhisti) del tempio. Lo vediamo in lontananza stagliarsi contro l'orizzonte slanciato ed imponente, uno dei profili più caratteristici nell'immaginario comune di
Ayutthaya. Ci dirigiamo successivamente verso il vicino
Wat Mongkol Bophit dove, subito entrati, ci attende una statua di Buddha seduto, interamente d'oro, alta ad occhio e croce una quindicina di metri. Questa maestosità e grandezza delle rappresentazioni sacre non fa parte della nostra cultura, perciò trovarsi di fronte a questa scultura così imponente risulta quantomeno curioso e devo dire conferire anche molto l'idea del doveroso rispetto da attribuire alla divinità che sempre ci sovrasta. Usciamo dal tempio e ci dirigiamo verso il
Wat Chai Wattanaram, dedalo di corridoi, con le sue torri a punte arrotondate.

Arriviamo quindi al
Wat Mahathat, luogo ricco di significato e di magia. Prima di giungere all'altare, completamente all'aperto ed enorme, ci fermiamo in prossimità di un vecchio arbusto di
Ficus Benjamin, il quale incastona alla base ed all'interno delle proprie radici una testa di Buddha in pietra separata dal busto secoli fa' da invasori birmani alla ricerca di ricchezze: accolta nel grembo del tempo in un abbraccio affettuoso con la Natura, oggi testimonia un legame indissolubile della fede con l'eternità. Poco più in là, l'altare del tempio invece fornisce la testimonianza di quanto fosse importante, ieri come oggi, il culto religioso per il popolo thailandese: alto ed imponente, circondato da corridoi sterrati su cui ancora oggi cresce un'erba verdissima, decorato e bellissimo, sembra effettivamente proiettato a noi da un'epoca ormai perduta, e camminare sul suo suolo devo ammettere mette ancora oggi un po' di soggezione. Chissà quante celebrazioni furono compiute sulla sua superficie? Chissà quanti voti, quanti avvenimenti, quante preghiere? Avrei voluto rimanere per un tempo più lungo sull'ara del
Wat Mahatat a godere del suo silenzio, ma un ultimo luogo ci attende. A dorso di un minuscolo minivan arriviamo al più distante
Wat Yai Chai Mongkol, tempio che celebra la vittoria di un valoroso principe thailandese in un'antica battaglia a dorso di elefante contro il reggente birmano: al suo interno un bellissimo Buddha reclinato ed un tempio con un'alta scalinata veramente emozionante, anche se un po' faticosa da percorrere fino alla cima. L'impressione che da è quella di avvicinarsi passo dopo passo al Paradiso...
E' strano come a volte riusciamo a vedere negli animali qualcosa di sacro e trascendentale. Forse sono questi gli unici casi in cui siamo capaci di scorgere la loro reale natura. Forse intravediamo, solo per un istante, un piccolo frammento del disegno divino. Fatto sta che sacralità e regno animale spesso viaggiano a braccetto. L'elefante in Thailandia viene considerato come un animale sacro. Non in virtù di poteri o significati occulti che gli vengono attribuiti, ma perchè è stato parte integrante del processo di costruzione del paese. Con l'aiuto dell'elefante l'uomo ha potuto costruire città, trasportare beni e materiali, coprire lunghe distanze nei viaggi. Questa fedeltà ed abnegazione nel lavoro, anche in quello più pesante, è stata tradotta dai thailandesi in termini spirituali e religiosi, di venerazione. Erawan è il dio elefante della cultura indù. Viene rappresentato come un elefante bianco a tre teste incaricato di trasportare sul proprio dorso il dio Indra, signore della folgore e padrone del temporale. Erawan è il re della propria specie, prode guerriero e devoto servitore del bene, creatore delle nubi e delle piogge in quanto capace di vaporizzare nell'aria l'acqua che aspira con le lunghe proboscidi.

A nord di
Bangkok, attraversando la campagna e le foreste della Thailandia, sorpassando il celebre mercato galleggiante
Damnoen Saduak (in verità molto più interessante il villaggio di pescatori su palafitte che lo precede), si giunge all'
Erawan National Park, un grande parco nazionale vasto 550km², manifesto della Natura selvaggia ed indomita della terra thailandese. Ci arriviamo dopo una breve fermata ad osservare la produzione artigianale dello zucchero di cocco e dopo averne assaggiato il dolcissimo nettare.

I paesaggi che fornisce questo parco sono tipici e mettono facilmente a contatto con la Natura più pura. Vero tesoro del luogo sono le
Cascate di Erawan, disposte su sette livelli, autentica opera d'arte ambientale. Non trovo parole per descrivere queste cascate: solo vederle può suscitare delle sensazioni che raccontare penso non sia possibile. Fare un tuffo tra le sue acque gelate e piene di pesci, sotto la cascata pura, suscita l'impressione di qualcosa che si avvicina alla libertà, ma che possiede anche un elemento di mistero, inafferrabilità, certamente anche di bellezza. Lasciamo a malincuore le cascate senza aver avuto il tempo di salire tutti e sette i livelli che le compongono (il più celebre e fotografato è il secondo livello) e ci facciamo accompagnare al molo dove un'imbarcazione ci attende per risalire il
fiume
Kwai: sulle rive di questo leggendario corso d'acqua troveremo il luogo dove pernotteremo. Il fiume silenzioso completa la sensazione strana e piena conferita dalle cascate e dal parco, con la vista sulle sue alte sponde rocciose e sulla sua superficie scura. La notte cala e sembra di essere in mezzo alla più strana e pericolosa delle avventure. Un luogo davvero magico!
La Thailandia è la patria di una disciplina medica unica e particolare, situata a metà tra scienza e spiritualità. La pratica medica thailandese deriva strettamente dall'incrocio tra quella cinese e quella indiana. Occorrono quattro anni per diventare maestro medico in Thailandia, e la proclamazione al termine del percorso di studio avviene con solenne cerimonia e con la benedizione di Buddha. La medicina praticata in queste terre si avvale soprattutto di prodotti naturali, unguenti e oli lenitivi, cercando costantemente quel fine equilibrio tra corpo, spirito ed ambiente che costituisce il segreto fondamentale e primitivo della salute. Parte essenziale di questi percorsi terapeutici è il tradizionale massaggio thai. Questa disciplina si fonda sul principio secondo il quale il corpo umano sia solcato da centinaia di canali, denominati Sen, atti a contenere e distribuire un'energia vitale, chiamata Prana, la quale scorre possente al loro interno lungo tutto l'organismo. Il massaggio thai si pone come scopo quello di attivare i Sen tramite la pressione in punti precisi del corpo, di modo da favorire la circolazione del Prana nei punti sensibili ed attivare così l'energia vitale del corpo. Il risultato è un massaggio lento ma vigoroso, piacevole ed in grado, alla fine, di fornire una sensazione di estrema scioltezza e fluidità. I principi del massaggio thai vennero dettati dal luminare Shivago Kumar Baj, padre della medicina orientale, intorno al V secolo a.C. Ancora oggi l'esecuzione di questa pratica costituisce parte integrante della cultura e del sapere di questo meraviglioso popolo.

Riceviamo il nostro primo massaggio thai nell'isola di
Kho Lipe, riposandoci finalmente della lunga strada percorsa per arrivare sin qui. Siamo partiti da
Phuket, isola del
Mare delle Andamane prossima alla costa e collegata a questa da un unico ponte percorribile in auto e lungo 700m,
il
Sa Phan Sarasin, dopo esservi giunti in aereo da
Bangkok. Qui abbiamo goduto di un primo ma troppo breve relax sull'appartata spiaggia di
Kamala, nella parte musulmana dell'isola.
Phuket, nel vicino 2004, fu teatro di un disastro naturale senza pari, colpita dallo tsunami gigantesco che rase al suolo l'intera sua superficie provocando circa 230.000 vittime. Da allora tutto è stato ricostruito, anche se i segni della tragedia possono ancora notarsi all'interno del suo variegato paesaggio. Ad ogni modo,
Phuket ha saputo conservare intatte molte delle sue più pregiate tradizioni, ed una cosa assolutamente da non perdere se passate da qui è lo spettacolo offerto dalla
Muay Thai, o
Thai Boxe: a
Patong, il quartiere più mondano e caotico dell'isola, all'interno del
Bangla Boxing Stadium, si tengono quotidianamente incontri con combattenti thailandesi e stranieri.
Muay Thai letteralmente significa "lotta", ed è nota anche come "Arte delle 8 Armi" in quanto consente colpi sferrati con mani, gomiti, ginocchia, piedi. Gli incontri sono preceduti da una specie di danza che viene eseguita dai combattenti ai quattro angoli del ring, quasi a voler propiziare la buona sorte per lo scontro imminente. Effettivamente più che uno sport è una vera disciplina, e ciò è possibile notarlo soprattutto nei combattimenti tra i bambini che precedono sempre gli incontri importanti della serata. Assistere agli scontri però non è spettacolo per tutti: la lotta spesso è molto cruenta, senza esclusione di colpi, e sempre molto violenta. Quindi preparatevi.

Altra occasione importante, se ci si trova a
Phuket, è costituita dalla visita della vicina baia di
Phang Nga, nella quale è possibile ammirare lo spettacolo offerto da
Koh Ta Poo, detta anche
James Bond Island dal film del 1974 "L'uomo dalla Pistola d'Oro" con protagonista lo 007 Roger Moore e ambientato proprio in questa isoletta. Al centro della sua insenatura è da ammirare l'imponente faraglione che caratterizza tutte le immagini da cartolina catturate in questo luogo: uno dei posti più caratteristici e particolari, anche se abbastanza affollato. A mio parere da non perdere! A poca distanza, abbandonato il piccolo isolotto roccioso di
Koh Ta Poo, è possibile raggiungere un bellissimo villaggio di pescatori musulmani su palafitte chiamato
Koh Panyee, l'unico centro abitato nelle vicinanze, dove si può gustare un pranzo a base di pesce fresco molto gradevole, oppure consumare anche un abbondante
Pad Thai, piatto a base di spaghetti fritti e pollo racchiuso in una sottile frittata di uova. Un consiglio spassionato: evitate di ordinare le zuppe, e se proprio siete costretti a farlo specificate di desiderarle il meno piccante possibile. Nella cucina thai originale se una pietanza non è orticante allora è insipida e cattiva. Mio malgrado ho ordinato una zuppa calda mediamente piccante e dopo tre cucchiaiate avevo già assunto il colorito di un tizzone ardente...per non parlare del dopo! Infine, in zona sono da visitare anche le
Grotte di Tam Lod: piccole spelonche naturali che è possibile attraversare a bordo di canoe (a volte attraverso spazi angusti che richiedono di sdraiarsi sul fondo dell'imbarcazione) ed in grado di svelare al proprio interno piccole lagune davvero spettacolari. Facendo ritorno a
Phuket c'è poco altro da segnalare, solamente un tristissimo parco tematico nel quale gli animali (anche poco più che cuccioli) vengono fatti esibire in pacchiane evoluzioni, dove è possibile passeggiare a dorso di elefante, fare un pediluvio con i commercialissimi pesciolini dermatofagi, oppure compiere un giro in quad su piste tracciate nella macchia verde (con il risultato che ci siamo capottati fortunatamente senza conseguenze). Sinceramente non comprendo quale tipo di divertimento possano trovare le decine di persone che costantemente affollano trepidanti questo genere di luoghi, a dire il vero cupi e grotteschi. Da evitare!

Abbandonata
Phuket ci siamo quindi diretti verso sud sbarcando, dopo una breve tratta in battello, nelle
Phi Phi Islands. Questo piccolo arcipelago è davvero bellissimo ma, purtroppo, frequentato da un numero spropositato di turisti. Soggiornando sull'isola più grande,
Koh Phi Phi Don, l'unica abitata, abbiamo noleggiato una tradizionale
long-tail boat, la tipica imbarcazione a motore bassa ed allungata utilizzata dai pescatori locali, mezzo meno inquinante e più rispettoso dell'ambiente e del paesaggio rispetto ai mostruosi yacht noleggiati da tanti turisti per visitare i dintorni. Abbiamo così potuto scoprire piccoli angoli di paradiso addentrandoci anche nella vicina, più piccola, selvaggia, e disabitata isola di
Koh Phi Phi Leh: come, ad esempio,
Pi Leh Bay, a mio parere la laguna più bella della zona, dotata di acque verde smeraldo brillantissime ed alte scogliere boscose a chiuderne i confini; oppure come la
Nui Bay (baia appartenente a
Koh Phi Phi Don) che da lontano appare come la classica spiaggia di sabbia bianchissima chiusa sul fondo da un palmeto, dove un tempo ci si immagina sbarcassero i pirati dai propri galeoni; oppure ancora come
Ao Ling Beach (spiaggia appartenente anch'essa a
Kho Phi Phi Don), chiamata anche
Monkey Beach, la spiaggia delle scimmie, dove centinaia di macachi più furbi del previsto popolano la battigia in cerca di cibo, a pochi centimetri dai turisti e, credetemi, comportandosi davvero in modo imprevedibile (quindi non provate ad essere più furbi di loro e fate attenzione).

Ma soprattutto la celeberrima
Maya Bay, divenuta famosissima dopo l'ambientazione sul suo suolo del film del 2000 "The Beach" di Danny Boyle e con protagonista Leonardo DiCaprio. Oggi, questa che in realtà sarebbe davvero una spiaggia tra le più belle forse a livello mondiale è divenuta purtroppo meta di turismo di massa, ma soprattutto di turismo irresponsabile, con orde di visitatori che sbarcano direttamente sulla nivea battigia con decine di barche mostruose, lussuose, potenti ed estremamente inquinanti. Il risultato è la completa rovina del paesaggio e della Natura circostante, la quale altrimenti, con un poco più di attenzione, sarebbe veramente meravigliosa: un esempio lampante di come ciò che per noi appare straordinario per gli abitanti locali non costituisce altro che la normalità, circostanza che li porta quindi a non prendersene abbastanza cura. Noi abbiamo raggiunto la spiaggia a nuoto, senza approdare sulla battigia, nuotando attraverso la retrostante
Loh Samah Bay (tra l'altro anch'essa molto bella), arrampicandoci su un reticolo di funi sopra una scogliera e percorrendo poche decine di metri di sentiero. Il posto, per come viene vissuto, ci ha deluso un po' per l'affollamento e la trascuratezza, ma siamo stati ugualmente soddisfatti di averlo raggiunto, soprattutto, a modo nostro. Ritornati per la stessa via alla nostra imbarcazione ci rivolgiamo al rientro in hotel, ma non prima di aver lanciato uno sguardo veloce alle
Viking Cave, ampie grotte contenenti antichi murales
ritraenti quelle che sembrano navi vichinghe e direttamente comunicanti con il mare aperto. Facciamo tappa a
Phi Phi Town, il centro urbano dell'arcipelago, pronti a fare ritorno nel nostro resort.

Prossima meta e ultima destinazione del nostro viaggio è
Koh Lipe. Quest'isola fa parte dell'
Arcipelago di Adang-Rawi, nel sud del paese. L'isola è piccola e pacifica, con un'unica
Walking Road dove è possibile trovare qualche negozietto e pochi ristoranti. Il resto sono foresta e spiagge, la più lunga delle quali è
Pattaya Beach,
sulla quale si concentrano la maggior parte delle strutture alberghiere e dei piccoli pub che ad ogni ora vendono bibite fresche. Più appartata e caratteristica è invece la piccola
Sanom Beach alla quale si accede dopo un breve percorso su un ponticello di legno dal limite occidentale di
Pattaya, ma portatevi un buon paio di scarpe visto che il passaggio è dissestato e se ci andrete scalzi nessuno vi eviterà di prendervi un chiodo arrugginito nel piede. Più belle a mio parere le isole vicine:
Koh Adang, ricca di interessante flora e fauna;
Koh Hin Ngam, dove è possibile dare un'occhiata subacquea alla bellissima
Barriera Corallina che oggi appare comunque visibilmente danneggiata dallo tsunami del 2004 ed i cui sassi scuri che ne compongono la spiaggia petrosa si dice arrechino una violenta maledizione a chiunque li sottragga dalla loro sede;
Koh Yang, dove si possono vedere centinaia di granchietti muoversi sugli scogli; ma soprattutto
Koh Rawi, un vero paradiso tropicale, l'unica da non perdere davvero.

Rieccoci sul nostro lettino lungo la spiaggia di
Koh Lipe a goderci il nostro massaggio thai. Il giorno successivo ci attende un lungo ritorno verso casa. Prima di abbandonare la Thailandia un ultimo scorcio lo troviamo nel villaggio di
Pak Bara, dove si avvistano ad ogni ora pescherecci prendere il largo e nella quale una piazza modesta mette in bella mostra la statua di un vistoso pesce, simbolo della maggiore ricchezza economica del luogo, vale a dire la pesca.
Lungo la strada del ritorno abbiamo giusto il tempo di riflettere su quanto abbiamo potuto osservare ed apprendere. La Thailandia ha costituito per me un luogo differente nel quale confrontare le mie abitudini, le mie idee, le mie credenze, ed anche tutti i miei difetti e le mie debolezze:
1) Salutare congiungendo le mani davanti al viso può essere un gesto più intenso di una stretta di mano: con la seconda di solito si cerca di trasmettere il carattere di chi lo esegue, con il primo si desidera solo augurare buona giornata.
2) Il teatro tradizionale thailandese è quantomeno...strano.
3) La nostra cultura è troppo fossilizzata sull'idea del benessere legato al possesso. In Thailandia le persone sono più povere ma non esiste nessuno che metta in discussione l'onestà del re ben più ricco e benestante di chiunque, anche se c'è da dire che l'oltraggio alla corona è uno dei reati più severamente puniti.
4) L'acqua corrente potabile non è affatto una banalità.
5) Sorridere ad uno sconosciuto non costa davvero nulla.
6) Entrare a piedi scalzi in qualsiasi locale, sacro o domestico, è un gesto semplice ma di grande rispetto.
7) La Natura è bellissima.
8) La cucina italiana è davvero la migliore!

Congiungiamo le mani, un piccolo inchino ed un arrivederci al prossimo viaggio.
Sawadee Thailandia...