20 dicembre 2015

ISOLA DI PASQUA – Dove il Mistero Prende Ancora Vita

Immagino alcuni uomini a bordo di corte canoe fatte di paglia e legno mentre attraversano l'Oceano Pacifico. Li immagino percorrere centinaia di chilometri con la sola forza delle loro braccia, navigare giorno e notte senza sosta. Li immagino seminudi, vestiti con poco, a piedi scalzi. E mi immagino la loro carnagione bruna, lo sguardo affilato, il naso dritto e corto, la pelle coperta dai tatuaggi tradizionali delle tribù. Provo ad immaginare la fatica che hanno provato, forse persino la disperazione che ad un tratto hanno potuto avvertire. Tento di capire cosa li abbia tenuti in vita e cosa li abbia spinti a proseguire. Ma fatico ad immaginare tutto ciò. Questi uomini sono partiti dalla Polinesia ed hanno raggiunto le coste di quella che sarà poi conosciuta come l'Isola di Pasqua: un tragitto lungo 2.500km. Come abbiano potuto compiere una simile impresa agli albori dell'XI secolo d.C., senza mezzi tecnologici e senza disporre di carte nautiche, rimane tutt'oggi inspiegato.

Questo non è l'unico mistero che circonda la storia dell'Isola di Pasqua, tuttavia rimane uno degli aspetti di quest'isola ancora oggi più controversi e discussi. La teoria attualmente più accreditata fa risalire la sua popolazione ad un flusso migratorio proveniente dalle isole polinesiane. In effetti gli abitanti del luogo ancora oggi possiedono tratti somatici molto simili a quelli sudasiatici, senza spartire molto invece con i tratti tipici cileni, più indios e tipicamente sudamericani, pur appartenendo l'Isola di Pasqua proprio ai territori nazionali del Cile. Tale circostanza diventa ancora più curiosa se si pensa che quest'isola risulta più vicina all'arcipelago polinesiano di Pitcairn, distante poco più di 2.000km, rispetto alla costa cilena, lontana invece ben 3.200km. Ed è proprio il mistero ad attirarci sull'Isola di Pasqua, piccolo residuo di terra largo appena 24km disperso nell'oceano, uno dei luoghi più remoti al Mondo. Sbarcati all'Aeropuerto Internacional Mataveri dopo un volo interminabile, veniamo inglobati da una folla che accoglie i nuovi arrivi ponendo al collo collane di fiori. Uscendo dall'aeroporto con la nostra collana floreale mi chiedo come un'isola tanto piccola ed un terminale aviario così minuscolo possano avere una pista d'atterraggio enorme come quella che ho visto delinearsi dietro di me scendendo dalla scaletta dell'aereo. In realtà l'Aeroporto Mataveri venne costruito dalla NASA nel 1965 come scalo d'emergenza per velivoli in difficoltà in rotta lungo l'Oceano Pacifico, in seguito venne utilizzato persino per l'atterraggio di apparecchi aerospaziali americani. Solo successivamente la struttura venne concessa in gestione al governo cileno per farne uno scalo turistico. L'unica grande area urbana dell'Isola di Pasqua, il pueblo come viene designato in spagnolo il centro abitato, è costituita dalla cittadina di Hanga Roa, nome che in lingua polinesiana significa "grande baia": ospita circa 3.000 abitanti e l'87% dell'intera popolazione dell'isola, numero sorprendente se si pensa che ogni anno giungono qui circa 90.000 turisti. Una manciata di strade, casupole basse e semplici, l'Iglesia Catolica de Santa Cruz, la cui facciata riporta ancora simboli e segni della locale tradizione pagana, e pochi negozi raggruppati tutti nella sua via principale, Avenida Policarpo Toro.

La parte migliore di Hanga Roa però è probabilmente quella rivolta verso l'Oceano Pacifico dove, ai lati di un piccolo ristobar costruito su una terrazza sopra il mare e preso d'assalto dai turisti a causa del suo ottimo helado, si trovano Hanga O'ua, piccola caletta tranquilla dove potersi bagnare nell'oceano, e Playa Pea, baia più grande ma comunque di piccole dimensioni, principale ritrovo nonchè celebre tempio sacro per i numerosi surfisti che qui giungono da tutto il Mondo. La loro presenza in queste acque è costante fino a volte anche alle ore successive al tramonto. Del resto qui tutti praticano il surf, ragazzi, ragazze e persino bambini molto piccoli, e osservarli cavalcare le onde fa effettivamente un po' venir voglia di prendere una tavola per sfidare l'oceano, seppure nella realtà, ad essere sincero, faticherei a tenere l'equilibrio anche su un pedalò. Se ci prendete gusto e non riuscite a separarvi dalla vista affascinante di questi cowboy delle onde che cavalcano le acque, scegliete come punto privilegiato di osservazione il piccolo ristorante Haka Honu, proprio dietro Hanga O'ua, dove troverete, ve lo assicuro, il Ceviche più buono di tutta l'isola.

Accanto a Playa Pea sorge il piccolo porticciolo della città: un unico corto molo pieno di noleggi per attrezzature da sub e culminante in un minuscolo belvedere dove curiosi e ammiratori si raccolgono per vedere all'opera i surfisti. Al principio del molo sta Plaza Hotu Matu'a, con la statua di un Moai posta sopra ad un piedistallo. La leggenda narra che i primi colonizzatori dell'Isola di Pasqua discendessero dal "Grande Genitore" Hotu Matu'a, una sorta di semidio di origini polinesiane che fu il primo sovrano dell'isola. La storia, a metà tra mito e realtà, narra di come Hotu Matu'a fosse il principe erede al trono del regno mitologico polinesiano di Marae Renga: alla morte del re si scatenò una violenta battaglia tra Hotu Matu'a ed il fratello Ko Te Ira Ka Atea, il quale alla fine lo sconfisse e si impadronì del regno. Esiliato in patria allora, Hotu Matu'a fece un sogno in cui percorreva in volo l'oceano fino a raggiungere una piccola isola sperduta in mezzo alle acque. Il giorno successivo convocò sette tra i suoi seguaci più fedeli e li spedì in ricognizione alla ricerca dell'isola sognata: erano un agricoltore, un pescatore, un astronomo, uno scultore, un architetto, un guerriero, ed un medico ostetrico. Questi sette valorosi esploratori furono i sette fondatori del popolo dell'Isola di Pasqua, gli stessi navigatori che cercavo di immaginare a bordo di canoe mentre attraversavano l'oceano e che secondo le teorie avrebbero migrato dalla Polinesia fino all'Isola di Pasqua 900 anni fa'.

I sette esploratori trovarono infine la terra promessa da Hotu Matu'a e qui si stabilirono in attesa dell'arrivo del loro sovrano. Chiamarono l'isola Te Pito O'te Hanua, l'Ombelico del Mondo, ed il luogo del loro sbarco venne celebrato dai posteri con l'innalzamento di un grande Ahu, un altare, con sette Moai, sulla spiaggia di Anakena. Questa costituisce anche l'unico tratto costiero sabbioso dell'Isola di Pasqua: bellissima, con un palmeto verde su un lato ed una spiaggia pura affacciata su un mare cristallino sul lato opposto. Tutto ciò dominato sullo sfondo dall'Ahu con i Moai dei sette fondatori. Un luogo allo stesso tempo arricchito dalla solennità di una tradizione antica e dalla bellezza di un paradiso naturale. Abbiamo trascorso una giornata su questa spiaggia nonostante un vento abbastanza intenso: la vista verso l'oceano non stanca mai e pensare che oltre quell'orizzonte non si incontra un'altra terra per migliaia di chilometri fa sentire davvero come un puntino disperso in mezzo all'Universo.

Il bagno nell'Oceano Pacifico è piacevole per chi gradisse le acque gelate. All'interno del palmeto a lato della spiaggia si trovano anche piccoli baracchini dove è possibile mangiare Empanadas cilene o bersi un frullato di frutta fresca...solo nel weekend però, visto che il resto della settimana rimangono chiusi lasciando i turisti affamati e a bocca asciutta. Ed il personale che ci lavora a dire la verità lascia un po' a desiderare per quanto concerne simpatia e cordialità. Ad ogni modo Anakena è un luogo magico, mai troppo affollato ed immancabile per chiunque visiti l'Isola di Pasqua: è il luogo dove ogni cosa qui ebbe inizio. I suoi Moai sono tra i più famosi ma ovviamente non sono gli unici: ne esistono 638 in tutto, sparsi un po' ovunque, di differenti dimensioni ed ognuno con un aspetto ed un volto unico. Si tratta di monoliti di tufo vulcanico (tranne il Moai Hoa Haka Nana Ia custodito al British Museum di Londra che è in basalto), scavati in un blocco di roccia unico, scolpiti con espressioni identiche con fronte alta, bocca chiusa, mento alzato e lunghe orecchie, in un atteggiamento che ispira rispetto e solennità, con un busto essenziale e solo accennato esteso fino alla cintura: sculture con tali fattezze e caratteristiche esistono nel Mondo solo qui, sull'Isola di Pasqua. Venivano eretti e posizionati su altari rivestiti di grossi ciottoli, gli Ahu, ed il loro significato rimane tutt'oggi sconosciuto costituendo un mistero sul quale si sono cimentati centinaia di storici, esperti ed archeologi di tutto il pianeta. Ispirate dai racconti dei discendenti delle antiche tribù che oggi vivono sull'Isola di Pasqua, le teorie più valide conferiscono ai Moai un significato religioso e di culto: in queste sculture venivano riprodotti i tratti dei capi tribù defunti con il fine di farne permanere il Mana, cioè lo spirito, sul popolo e di propiziare in tal modo gli eventi futuri. Di conseguenza ogni Moai corrisponde ad una nuova generazione di capi, ogni villaggio possedeva il proprio Ahu, e le dimensioni dei Moai dovevano essere proporzionate al numero di persone da proteggere. Il luogo che contiene la maggior parte dei Moai è la cava di pietra dove venivano scolpiti, il Rano Raraku: l'Isola di Pasqua ospita infatti tre grandi montagne vulcaniche, il Rano Kau, il Maunga Tereveka che è la più alta dell'isola con 500m di altezza (maunga significherebbe proprio "grande monte"), ed appunto il Rano Raraku. Solo da quest'ultimo venivano estratti i Moai: ne contiene tuttora circa 400, la maggior parte dei quali incompiuti, compreso il più alto, ancora inglobato nella montagna e solo parzialmente definito, di ben 21m. Tutti i crateri di questi vulcani (rano in lingua locale) sono attualmente spenti ma continuano ad alimentare la teoria secondo la quale tutta l'Isola di Pasqua sia la parte emersa di un enorme sistema di vulcani sottomarini.

Percorrere i sentieri lungo la cantera del Rano Raraku, tra file di Moai incompiuti sparsi ovunque, fa avvertire ancora oggi la sacralità di questo luogo, considerato probabilmente come un santuario dalle popolazioni native, ed osservare il lavoro incompiuto degli operai sulla roccia della montagna pone ad una distanza incredibilmente ravvicinata con gli usi ed i costumi di questo popolo antico. I Moai venivano infatti sagomati direttamente nella roccia, quindi staccati da essa, innalzati in posizione eretta e traslati più a valle dove venivano rifiniti i particolari più grossolani. Infine erano trasportati alla loro destinazione dove venivano scolpiti i dettagli più fini. Riguardo a come venissero spostati non esiste tutt'oggi una versione unanime, ma la tradizione tramandata oggi dai discendenti diretti dei nativi racconta che i Moai raggiungevano il proprio Ahu camminando. Si è quindi pensato che, tramite un bilanciato gioco di funi fissate ai fianchi ed al collo della scultura messa in piedi, il Moai venisse fatto procedere facendo avanzare prima un lato e poi l'altro, come effettivamente se camminasse.

Raggiunta la destinazione i Moai più grandi venivano parzialmente interrati per evitarne il crollo, tecnica che costituisce una scoperta recente dell'archeologia ma che i discendenti nativi affermano di conoscere da secoli. Prima di allontanarci dal Rano Raraku decidiamo anche di percorrere il breve sentiero che conduce al suo cratere, interamente riempito di acqua e circondato da rocce rosse: una veduta che vale la pena di essere colta.

Per motivi sconosciuti, la cava venne ad un certo punto abbandonata in tutta fretta ed all'improvviso, motivo per cui i Moai in opera furono lasciati incompleti. La causa va forse ricercata nelle lotte interne tra tribù che sconvolsero l'ordine sociale ed il culto dell'Isola di Pasqua. Ai Moai, la religione legata al culto degli avi, succedette la venerazione del Tangata-manu, traducibile alla lettera con "uomo-uccello". A partire da quel momento, ogni anno le tribù furono chiamate a presentare il proprio Hopu-manu, il guerriero più prestante e valoroso, per la gara che avrebbe trovato nel vincitore il successivo Tangata-manu. La cerimonia si teneva nel villaggio di Orongo, il luogo sacro per il culto dell'uomo-uccello: qui il sacerdote consacrava i contendenti e dava il via alla gara. I partecipanti a questa disputa mortale dovevano discendere la scogliera in cima alla quale sorgeva Orongo, nuotare nell'oceano in mezzo agli squali per 1.400m fino all'isolotto di Motu Nui, qui trovare l'uovo deposto dall'uccello migratore Manutara, al secolo Stema Fuscata, quindi ripercorrere il tragitto all'inverso e riportare l'uovo intatto al sacerdote. Il primo che riusciva a compiere questa impresa veniva proclamato Tangata-manu, diveniva persona sacra, si ritirava in meditazione per il periodo di un anno, e conferiva il potere alla propria tribù.

Oggi si pensa che l'affermazione di questo culto fu il risultato di una specie di colpo di stato apportato dalle caste militare per assumere il controllo dell'isola. Fatto sta che molti Moai vennero abbattuti e per anni si celebrò il rito dell'uomo-uccello. Oggi le rovine del villaggio di Orongo sono visitabili ed aperte al pubblico. Questo luogo appare diverso rispetto a tutti gli altri siti storici presenti sull'isola: le abitazioni qui non hanno l'aspetto della classica casa-bote a forma di canoa rovesciata la cui struttura caratterizza i resti archeologici degli antichi centri abitati su tutta l'isola, ma appaiono invece come basse costruzioni cilindriche composte da rocce impilate, dotate di strettissime entrate che servivano ad isolarne l'interno e a scoraggiare ladri o aggressori, che erano infatti costretti ad entrarvi accovacciati. Orongo in effetti è successivo per tempo a tutti gli altri siti storici presenti sull'isola, essendo stato costruito solo nel XVII secolo d.C. con l'avvento del Tangata-manu.

Il luogo è sicuramente tra i più originali dell'Isola di Pasqua, tuttavia la continua esposizione agli agenti atmosferici cui è sottoposto rende difficile la sua tutela tanto che nei prossimi decenni si prevede un lento ed inesorabile deterioramento dei suoi reperti: sorge sulla cima di un'alta scogliera a picco sull'oceano, contiene, oltre a case perfettamente conservate, alcuni altari ed una parete ricca di petroglifi raffiguranti i simboli del Tangata-manu e del dio Make-make, la divinità principale del culto dell'uomo-uccello. Tutto davvero affascinante e completato dal cratere del Rano Kau che si apre lungo il lato del villaggio opposto alla scogliera.

Questo vulcano spento conserva una ricchezza unica: è l'unica area dell'Isola di Pasqua a conservare nel suo cratere tracce di flora originale in virtù della sua costante esposizione al Sole ed ai venti, nonché, soprattutto, della sua scarsa accessibilità. Sull'isola infatti originariamente vivevano circa 50 specie vegetali e 60 specie di uccelli, tutte quasi estinte...tranne qui: l'unico tempio di biodiversità nel raggio di migliaia di chilometri! Originariamente si pensa che l'Isola di Pasqua fosse ricca di vegetazione, verde e rigogliosa: fu probabilmente a causa del culto dei Moai, per la costruzione ed il trasporto dei quali servivano enormi quantità di legname, che l'isola venne progressivamente disboscata. Curiosa circostanza: l'isola non presentava in origine nessuna specie di mammifero e solo con l'avvento dei colonizzatori vennero importati bovini, suini e ratti. Per raggiungere Orongo ed il Rano Kau abbiamo percorso a piedi un sentiero in salita attraverso una bassa collina ed un piccolo bosco. L'ascesa si è rivelata più impegnativa del previsto ma la vista del cratere del vulcano e quella sul villaggio ci hanno grandemente ripagati della fatica. Sulla via del ritorno la stanchezza ed un vento fortissimo ci hanno costretto a chiedere un passaggio in autostop: così incontriamo dei gentili cileni che ci scortano sulla loro Jeep fino a valle, dove recuperiamo le nostre biciclette prese a noleggio e facciamo ritorno ad Hanga Roa. Un consiglio importante: per accedere ad Orongo ed al Rano Raraku occorre pagare un biglietto di ingresso di 30.000 Pesos Cileni (CL$). Il pass è acquistabile solo in un ufficio autorizzato all'aeroporto oppure al CONAF posto alla base del Rano Kau: il consiglio è quello di procurarlo appena scesi dall'aereo. L'intera superficie dell'isola è considerata parco protetto e vi assicuro che non vi lasceranno entrare in questi luoghi senza aver pagato il biglietto, che poi rimarrà valido per tutta la durata del vostro soggiorno.

Sulla via del ritorno verso la città, siti interessanti sono rappresentati da Ana Kai Tangata, una piccola grotta aperta sull'oceano dove si trovano disegni rupestri originali (il popolo nativo dell'Isola di Pasqua elaborò infatti una scrittura propria, il Rongorongo, oggi solo parzialmente decodificata), e più avanti l'Ahu Riata, piccolo altare con un unico Moai posto appena fuori Hanga Roa. Infine, degna di grande attenzione è Hanga Piko, una delle baie più pittoresche e belle dell'Isola di Pasqua. Per chi volesse mangiare, trovandosi nella zona, consigliamo invece la piccola locanda a conduzione familiare Mara Pika: due tavoli ed un locale che a nostro parere nelle ore lontane dai pasti viene abitato dai gestori come residenza. Comunque cibo buono e prezzi onestissimi.

Poi, nel nostro viaggio irrompe Moi! Lo incontriamo sul marciapiede intento ad illustrare ad alcuni passanti, su una mappa esposta fuori dalla sua agenzia, gli itinerari offerti dalla sua attività di guida locale: petto nudo, pantaloni corti a dir poco consumati, barba incolta, pancia da alcolizzato, bastone di legno massiccio intagliato, collana di denti di cavallo e soprattutto copricapo di piume alto direi almeno 60cm. Non so cosa ci abbia fatto fidare di lui, fatto sta che accettiamo la sua offerta e ci diamo appuntamento per la mattinata successiva. Lo troviamo l'indomani addormentato dentro un furgoncino parcheggiato davanti all'agenzia le cui porte sono chiuse e mostrano la bandiera dell'Isola di Pasqua raffigurante il Rei Miro, l'antico pettorale di legno a forma di canoa indossato dai guerrieri nativi. Ci saluta nascosto dietro scuri occhiali da sole e si rimette a dormire: capiamo che non è ancora il momento e andiamo a sederci lungo il porto. Passati 40 minuti ci ritroviamo con quelli che saranno i nostri due compagni di escursione, una coppia di coniugi argentini di mezza età, nel luogo pattuito ad attendere la partenza: Moi scende dal pulmino visibilmente scosso. La notte precedente si è tenuto in città uno spettacolo di danza tradizionale, sia maschile sia femminile, chiamata Sau Sau: anche noi vi abbiamo assistito divertendoci molto e trovando lo spettacolo molto interessante, a tratti anche provocante e sensuale (gli uomini vestivano abiti tradizionali molto succinti). Moi ci dice di aver partecipato in qualità di cantante e capiamo che la serata per lui è proseguita all'insegna del divertimento. Intuiamo subito che tipo sia quando ci racconta di essere un discendente di un capotribù, circostanza che gli consente di vestire il suo svolazzante copricapo dal quale non si separa mai. Mette in mostra una profonda e a mio avviso sincera ostilità verso il governo cileno che dipinge come despotico ed intollerante verso le tradizioni dei nativi. Ci mostra anche un documento di identità cileno sul quale si è rifiutato di mettere la firma sostituendola con disegni stilizzati di omini che si tengono per mano. Ripresosi dal trauma del risveglio ci accompagna dapprima ad Aka Anga, dove sorgeva un villaggio antico presso le rovine attuali del quale coglie l'occasione di mostrarci una piccola grotta, spiegandoci che queste cavità rocciose erano usate come luoghi rituali dai popoli indigeni...Poi prosegue raccontandoci le sue conquiste amorose concluse con una chitarra ed una bottiglia di vino proprio dentro caverne come quella. Quindi, ci dirigiamo verso il Rano Raraku dove, dopo una breve assenza, si ripresenta vestito di un pareo giallo, con ginocchiere di foglie secche, a petto nudo e con il solito copricapo piumato. Infine ci accompagna presso l'Ahu Tongariki, l'altare più grande dell'Isola di Pasqua con ben 15 Moai, luogo imperdibile per ogni visitatore.

Durante il tragitto ci racconta come l'Isola di Pasqua fosse stata avvistata per la prima volta dal pirata Edward Davis nel 1687. Il primo sbarco avvenne però solo 35 anni più tardi, nel 1722, ad opera del navigatore olandese Jakob Roggeveem: era il giorno di Pasqua, circostanza che donò il nome attuale all'isola. La prima rivendicazione di possesso fu invece spagnola nei decenni successivi: ma la posizione dell'isola (battezzata temporaneamente Isla San Carlos) era troppo remota e la Corona Spagnola perse interesse sul luogo. Furono quindi due mercanti, il francese Jean Baptiste Dutroux-Bornier e l'inglese John Brander, ad impossessarsi dell'Isola di Pasqua facendone un enorme pascolo per il proprio bestiame, stabilendosi sull'isola e confinando il popolo nativo in una piccola riserva delimitata. Alla morte di Dutroux-Bornier, Brander detenne la totalità dei territori, ma una rivolta degli indigeni condusse al suo assassinio e l'isola venne liberata. Nel 1888 l'Isola di Pasqua fu annessa ai territori del Cile, ma poco più tardi venne affittata alla Corona Inglese per farne dei pascoli per pecore e capre: ancora oggi, lungo la strada che porta ad Anakena, è visibile il vecchio ovile britannico abbandonato. Furono proprio gli inglesi a chiamare l'isola Rapa Nui, appellativo di provenienza polinesiana che significa "grande isola". Solo nell'era moderna il governo cileno, probabilmente accortosi del suo potenziale turistico, ne ha rivendicato completamente la potestà, e solo alla fine degli anni '60 del secolo scorso all'Isola di Pasqua furono concesse elezioni democratiche. Fa davvero impressione pensare come un turbine storico di tali dimensioni sia passato da un posto tanto piccolo e sperduto. Di fatto la popolazione nativa ha subito nel corso dei secoli il susseguirsi di tutti questi colonizzatori ed i discendenti di quel popolo oggi portano ancora dentro un rancore mai estinto verso le violenze e le costrizioni imposte ai loro avi. E così appare a noi anche Moi, al di là del suo aspetto bislacco e del suo comportamento eccentrico. L'unico uomo nella storia dell'Isola di Pasqua ad aver avuto a cuore il destino del popolo indigeno fu Sebastian Englert, missionario cappuccino tedesco giunto qui nel 1935, fondatore della prima scuola, di ricoveri sanitari, e primo valorizzatore della cultura originaria del popolo di Rapa Nui, oggi raccolta nel Museo Antropologico de Hanga Roa da lui fondato. La nostra escursione si conclude ad Anakena (dove torneremo in auto noleggiata il giorno successivo): qui Moi decide di offrirci un modesto pasto nei baracchini lungo il palmeto...peccato che il ristoratore non abbia mai ricevuto nessun pagamento dal nostro caro Moi. Facciamo ritorno ad Hanga Roa un po' in apprensione per la nostra guida che a tratti si addormenta al volante.

Decidiamo di spendere l'ultimo giorno sull'Isola di Pasqua noleggiando un'automobile. Scopriamo infatti che con patente italiana non ci è concesso noleggiare uno scooter...ma ci è tuttavia consentito prendere a nolo un quad: francamente una logica legislativa assurda! Vogliamo raggiungere la spiaggia di Anakena per goderci un po' di mare. Lungo la strada cogliamo l'occasione per visitare l'Ahu Akiwi, caratterizzato dalla peculiarità di essere perfettamente allineato con il Sole durante gli equinozi. Al tramonto ci dirigiamo invece all'Ahu Tahai, grande sito sacro dove si trova l'unico Moai "vedente" dell'Isola di Pasqua.

In origine infatti tutte le statue antiche dell'isola erano adornate con una sclera di corallo bianco ed una pupilla di ossidiana nera. Inoltre tutti i Moai possedevano un copricapo di tufo rosso, il Pukao, interpretato come una sorta di cappello o come l'acconciatura raccolta degli uomini, la Kie'a, che si usava ricoprire di terra rossa. Questi copricapi venivano scolpiti in una cantera separata presso Puna Pau, dove ancora oggi si trova una cava di tufo rosso abbandonata all'improvviso come accadde anche presso il Rano Raraku. Sullo sfondo della bassa collina di questa cava si può osservare il profilo del Maunga Tereveka.

In prossimità dell'Ahu Tahai si raccoglie al tramonto una folla vociante in attesa: da qui si dice si possa ammirare il tramonto più bello di tutta l'isola. Anche noi ci sediamo lungo la scogliera per assistere allo spettacolo: quella del Sole che cala oltre il limite dell'Oceano Pacifico sarà l'ultima calda immagine che porteremo con noi al rientro in Italia.

Il tempo di un ultimo Pisco Sour, liquore tipico cileno a base di succo di limone ed acquavite, nel bar del nostro resort ed è già tempo di fare ritorno verso casa. Ricordate: se dovesse capitarvi di viaggiare ovunque in Cile, fate attenzione a non perdere la Tarjeta Migratoria, una specie di scontrino che vi viene rilasciato alla dogana al momento del vostro ingresso nel paese. Dovrete esibirlo nuovamente alla dogana in uscita, e se lo smarrite allora sono problemi. 
Mistero, magia, tradizione: tutto ciò è l'Isola di Pasqua, il luogo in cui i segreti sono ben custoditi dalla storia.