Questa è la storia di un abile scalpellino. Anziano e silenzioso, curvo sulla pietra, modella pazientemente la materia per dare forma ad immagini straordinarie. Colpo dopo colpo, frammento dopo frammento, dalla massa informe emergono sagome e profili. Martello e scalpello scavano lentamente la pietra, ed in un soffio di polvere rocciosa si compie una magia da capolavoro. Il vecchio scalpellino osserva la propria creazione nascente. Strofina le mani impolverate sul consunto grembiule di cuoio ed accarezzandosi i lunghi baffi spioventi socchiude gli occhi per soffermarsi su alcuni particolari: uno spigolo affilato, un'angolatura pungente, una curva danzante. Ha lavorato una vita alla sua creazione ed ora sta per osservarne il risultato. Il suo laboratorio è la montagna; i suoi piedi, calzati in enormi zoccoli di legno, poggiano su un morbido tappeto di bosco; il suo tavolo da lavoro sono vallate aperte ed altopiani soleggiati. Da secoli la sua mano non modella una statua. E' uno Scultore di Paesaggi e l'opera a cui sta attribuendo tanta bellezza si chiama Slovenia.
Con 20.273km² di superficie territoriale e poco più di 2 milioni di abitanti, la Slovenia è un paese di piccole dimensioni. Ma come nella migliore tradizione dei proverbi popolari che collocano il vino prelibato nelle botti più minute, non è difficile imbattersi in preziose gemme anche viaggiando all'interno degli stretti confini sloveni. Paesaggi magnifici, vallate incantevoli e montagne maestose alimentano la nobile fama che avvolge questo paese esteso sornione tra le vette delle Alpi Giulie e delle Alpi Dinariche, fino ad un minuscolo tratto di costa affacciata sul Mare Adriatico. Ed è questa reputazione di pregiato serbatoio verde ad attirarci nella nostra curiosità di viaggiatori. Non impieghiamo più di 5 ore a raggiungere il confine italo-sloveno e dopo una breve sosta per il pranzo presso Spinea, ancora su suolo italiano nei pressi di Mestre, eccoci proiettati verso la nostra prima destinazione, due viaggiatori esperti (anche se non lo si è mai troppo) e due piccole esploratrice lanciate verso la scoperta del Mondo, due anni e 6 anni di età, una vera associazione a delinquere. Superati i caselli della dogana, un'ultima quarantina di minuti sulle comode autostrade slovene ci conducono tranquillamente a Postumia (Postojna in lingua slovena). Ci siamo appena lasciati alle spalle i primi circa 480km del nostro viaggio, macinati senza soste particolari avendo provveduto ad acquistare in anticipo prima della partenza la E-Vinjeta necessaria a circolare lungo le autostrade slovene: si tratta di un contrassegno elettronico, disponibile all'acquisto anche tramite diversi canali digitali, che permette di utilizzare la rete autostradale in Slovenia per periodi limitati, nel nostro caso un mese ad un costo complessivo di 37€. Postumia è una località di circa 15.600 abitanti situata poco più di 500m s.l.m., caratteristica che la rende una delle città più alte di tutta la Slovenia. Nota in origine con il nome tedesco di Adelsberg, a partire dal 1921, a seguito dell'annessione di questi territori all'Italia dopo la conclusione della I Guerra Mondiale, la località cambiò il proprio appellativo a favore del nome italiano Postumia che ancora oggi detiene. Inizialmente piccolo centro abitato, Postumia iniziò a prosperare e ad ingrandirsi solo dopo la realizzazione della linea ferroviaria che collegò Trieste a Vienna, infrastruttura che consentì anche maggiori flussi turistici in quest'area. La città accoglie il nostro avvivo in modo comodo ed agevole: il campo base che abbiamo eletto per la nostra visita è l'Eco Hotel Center: di piccole dimensioni, personale gentile, camere pulite e confortevoli, colazione discreta. Tra l'altro, questo albergo sembra avere avuto nei secoli trascorsi un passato nobile e solenne dal momento che qui sembrano aver soggiornato in un tempo non troppo antico sovrani e notabili di vario genere: tali vestigia sono ancora oggi testimoniate dalla sala delle colazioni, in precedenza sala da ballo, impreziosita da solide colonne in ghisa e da un elegante parquet in legno. Nonostante la stanchezza ed il pomeriggio inoltrato, la vicinanza del nostro albergo al centro cittadino ci consente, subito dopo aver sistemato i bagagli nella stanza, una breve passeggiata per le strade di Postumia. Percorriamo poche centinaia di metri lungo Ljubljanska Cesta, ampio vialone trafficato ma dotato di ampi marciapiedi ai lati, sfilando di fronte alla Rojstna Hiša Luke Čeča, la casa natale di Luka Čeč, personaggio che fu tra gli interpreti principali della storia di Postumia e dei suoi dintorni: in questo anonimo edificio, piuttosto dismesso e trascurato, nacque nel 1785 colui che è considerato l'effettivo scopritore delle Postojnska Jama.
In brevissimo tempo arriviamo in Titov Trg, il cuore della città. E' questa una piccola piazza chiusa sullo sfondo da bassi edifici e sui lati da due alti palazzi, sulla sinistra la sagoma un po' triste e grigia dell'Hotel Kras, a destra gli edifici di alcuni esercizi commerciali tra i quali anche una banca. Poco più indietro, la vista è mitigata dall'elegante sagoma dell'Inštitut za Raziskovanje Krasa, il principale istituto di ricerca sloveno sul carsismo, fondato nel 1947: a caratterizzarne la facciata, una bella doppia scalinata in pietra e poco a lato, lungo la parete, una scultura in metallo raffigurante il Proteus Anguinus, uno strano animale, una specie di lucertola la cui figura incontreremo ancora nei giorni successivi. Quest'ultimo è infatti uno dei simboli più forti della città. Al centro di Titov Trg troneggia infine una scultura in granito raffigurante la tastiera di un pianoforte, la cui onda sinuosa occupa lo spazio centrale della piazza ed offre costantemente un'occasione di gioco per i bambini di passaggio, abili nel scalarla e nel lasciarsi scivolare lungo la sua superficie liscia. Osservando meglio quest'opera, si nota che alcune placche metalliche poste a raffigurare i tasti dello strumento musicale riportano incise alcune delle date più importanti riguardanti la città, tra le quali anche quella della realizzazione della piazza stessa che risale al 2009.
Nelle giornate della nostra visita a Postumia, al margine della piazza rivolto verso la strada carrabile è allestito un palcoscenico sopra il quale nel corso delle serate si tengono esibizioni musicali nell'ambito di un festival sonoro estivo: sarà occasione per Amelia e Lidia di esibire le proprie abilità danzerecce. Oltrepassata Titov Trg, una corta scalinata ci trasporta su un minuscolo spiazzo rialzato sopra il quale sorge la Župnijska Cerkev Svetega Štefana, la chiesa principale di Postumia: di dimensioni piuttosto contenute, è lunga 33m e larga appena 17m, l'attuale costruzione in stile barocco venne ultimata nel 1777 e consacrata nel 1798 da Ignazio Gaetano de Buset, vescovo di Trieste. Oltre alla facciata priva di particolari decorazioni e presidiata ai lati da due torri identiche dotate ciascuna di orologi su tre dei quattro lati, rimane impresso nella memoria un busto posto dinnanzi all'ingresso della chiesa, poco spostato a lato, raffigurante il volto di papa Giovanni Paolo II, il quale visitò la città nel 1996.
Lo spiazzo sopraelevato sopra il quale svetta la chiesa scende lentamente attraverso Vilharjeva Cesta in Trg Padlih Borcev, piazzale più ampio sullo sfondo del quale sorge l'edificio di una scuola elementare intitolata a Miroslav Viljar, il cui busto troneggia davanti alla facciata della costruzione: politico sloveno nativo proprio di Postumia, costui venne imprigionato nel 1863 dalle autorità austriache per aver pubblicato contenuti giornalistici di tenore nazionalistico su una testata da lui stesso fondata con il nome di Naprej. Durante la prigionia che durò solo 6 settimane, iniziò a comporre anche poesie e testi politici. La piazza su cui sorge la scuola è però intitolata ai caduti sloveni nei conflitti bellici, ed a ricordare tale attribuzione sorge in un angolo del piazzale lo Spomenik Padlim Borcem, una statua raffigurante un combattente partigiano nell'atto di imbracciare il proprio fucile: realizzata in bronzo nel 1952, porta la firma dello scultore sloveno Frančišek Smerdu. Il patrimonio di Trg Padlih Borcev è completato dalla sagoma del Mestna Knjižnica Bena Zupančiča, la biblioteca cittadina. Tale edificio custodisce in realtà più di quanto ci si possa attendere, un'importante e dolorosa eredità storica che si integra perfettamente con il carattere detenuto dall'intera piazza: la prima pietra di questa costruzione venne posata niente meno che da Benito Mussolini nel 1938 e dopo la sua ultimazione qui venne ospitata per anni la sede del partito fascista locale. Solo dal 1967 tra le sue pareti venne collocata la biblioteca, intitolata alla memoria dello scrittore sloveno Beno Zupančič. Oggi questo prezioso edificio non riveste importanza solo in qualità di custode della conoscenza stampata su carta, ma anche come elemento storico a memoria dell'occupazione nazifascista che si prolungò in Slovenia a partire dal 1941 fino al termine della II Guerra Mondiale: in tale periodo il territorio nazionale venne spartito tra Germania, Ungheria e Italia, la quale mantenne il controllo della propria zona fino all'8 settembre 1943, data dell'armistizio di resa italiana agli Alleati, perdendo in seguito i territori a favore della Germania nazista. Fu in questo modo che anche qui, come nel resto del continente europeo, calò in questi anni una nerissima cortina di censura, oppressione e violenza. Una parentesi oscura preceduta dall'appartenenza slovena al Regno di Jugoslavia retto dalla dinastia Karađorđevic e seguito dalla confluenza nel 1947 all'interno della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia fondato sulla resistenza slavo-comunista di Josip Broz, nome di battaglia Tito. A fare eccezione a tale regola sta proprio Postumia, già inglobata nel Regno d'Italia insieme alla vicina regione della Valle dell'Isonzo ed all'Istria Slovena prima dell'occupazione nazifascista ed a partire dal termine della I Guerra Mondiale. Ci soffermiamo sulla piazza non tanto per ammirarne le forme degli edifici quanto per approfittare del piccolissimo parco giochi posizionato ad una sua estremità: qui Lidia e Amelia trovano un po' di svago arrampicandosi su percorsi di corde ed aste disposti in sequenza. Abbandoniamo quindi Trg Padlih Borcev e percorrendo la brevissima Jamska Cesta eccoci di nuovo ritornati in Titov Trg. E' giunta l'ora di cena e ci mettiamo in cerca di un ristorante presso il quale avere il primo assaggio di cucina slovena. Dopo aver passeggiato vanamente per le vie limitrofe alla piazza, eleggiamo il Restravracija Proteus: scelta poco felice dal momento che qui si cucina solo pasta e nemmeno a regola d'arte. Molto meglio il vicino bar presso cui vengono serviti gelati di proporzioni a dire il vero fin troppo abbondanti, ma niente male per quanto riguarda il gusto. Prima di fare ritorno in albergo ci fermiamo anche presso il Mestni Park, una piccola area verde dotata di diversi giochi per bambini dove tra scivoli, percorsi di equilibrio, altalene e strane sculture di legno raffiguranti gnomi e animali del bosco trascorriamo gli ultimi istanti di questa prima giornata di viaggio. Il sonno non tarda a coglierci una volta rientrati nella nostra camera d'albergo, nonostante il rumore del traffico fuori dalle finestre insistesse testardamente nel tentativo di tenerci svegli.
Nonostante le sue esigue dimensioni, Postumia è celebre in Europa e nel Mondo per uno dei siti che la circondano a cortissimo raggio e che la rende una delle mete turistiche più battute di tutta la Slovenia. Così, il primo giorno dopo il nostro arrivo in città lo dedichiamo subito alla visita di questo straordinario luogo. Le Postojnska Jama, vale a dire le Grotte di Postumia, sono un sistema di cavità sotterranee esteso per circa 24km. A formarle fu la paziente, lenta ed incessante azione erosiva dell'acqua fluviale, la quale nell'arco di millenni modellò la roccia calcarea scavandone lo spessore fino a generare un incredibile mondo sotterraneo, una realtà parallela, segreta e nascosta, come una pellicola in negativo contrapposta alla superficie terrestre inondata dalla luce del Sole. Questa inarrestabile azione di erosione, impercettibile ma sempre viva ed attiva, ancora oggi, dopo millenni, lavora la roccia creando forme e percorsi: qui lo Scultore di Paesaggi ha creato qualcosa di speciale, uno scenario surreale che sembra proiettare il visitatore su un pianeta alieno.
Sono queste le grotte turistiche più grandi del Mondo, le più estese del Carso, le più visitate d'Europa con all'incirca 39 milioni di visitatori in poco più di 200 anni di apertura al pubblico: le Postojnska Jama sono infatti visitabili dal 1819. Inizialmente transitabili su percorsi impervi e difficoltosi, illuminati solo a lume di fiaccola, ben presto si cercò di renderne la percorrenza più agevole e meno rischiosa. Lo sviluppo prevalentemente sul piano orizzontale del complesso condusse all'intuizione di realizzare una linea ferroviaria sotterranea che potesse accompagnare i visitatori nelle escursioni attraverso le grotte in maniera comoda e sicura: il primo tratto di binari, per un'esigua estensione di 1,5km, venne tuttavia posato solo nel 1872, più di 50 anni dopo l'apertura del sito al pubblico. A dirigere questi lavori iniziali protrattisi complessivamente per 3 mesi fu Gregor Oblak, mentre a servire la primissima tratta ferroviaria sotterranea furono messi due carrelli denominati Faeton: in tale fase non era ancora disponibile l'energia elettrica ed i carrelli, riempiti con quattro visitatori alla volta, venivano spinti a braccia sui binari da forzuti inservienti. Solo dal 1923, sotto spinta italiana, la linea ferroviaria venne estesa ed aggiornata con una motrice a benzina modello Montana 803, impiegata usualmente in ambito minerario: con tale evoluzione, ora era possibile trasportare attraverso le caverne fino a 20 visitatori per ogni convoglio. Pochi anni più tardi, con il numero di visitatori in costante crescita e la fama delle Grotte di Postumia in continua ascesa, una nuova motrice modello Montana S10, capace di trainare 24 piccoli vagoncini dotati ciascuno di sei sedute, poteva accompagnare nella visita delle grotte fino a 150 persone alla volta: utilizzata fino al 1957, questa motrice fu affiancata già nel 1926 da una terza motrice a benzina acquistata a Milano, la CEMSA 20G. Ancora oggi le Grotte di Postumia sono l'unico complesso speleologico al Mondo a possedere al proprio interno una linea ferroviaria sotterranea, infrastruttura che fin dagli albori favorì non poco la notorietà ed il successo di questi luoghi. Ma al di là della celebrità raggiunta, la storia delle Postojnska Jama precede il suo fiorente periodo turistico. Infatti, le vicende legate alla loro scoperta hanno quasi dell'incredibile. Tutto ebbe inizio nel 1818, epoca in cui furono intrapresi alcuni lavori all'interno della porzione di grotte allora già conosciuta, uno spazio sotterraneo di estensione piuttosto contenuta direttamente in comunicazione con la superficie e facilmente accessibile. Questi spazi erano già noti all'uomo fin dall'età preistorica, quando i nostri antenati vi trovarono riparo e vi stabilirono alcuni insediamenti. A parte ciò, solo a partire dal XIII secolo vennero intraprese vere spedizione esplorative all'interno di queste grotte, come testimoniano alcune antiche incisioni presenti ancora oggi sulla pietra all'ingresso del complesso e riportanti la data del 1213: a questo anno viene effettivamente fatta risalire la scoperta ufficiale delle Grotte di Postumia. I primi resoconti scientifici di questi ambienti risalgono invece al 1689, quando fu Janez Vajkard Valvasor a descriverle addirittura come le più grandi e più mostruose grotte presenti al Mondo; più avanti, nel 1784 sarà invece Josef Anton Nagel a tentare di tracciarne una mappa su mandato dell'imperatore austriaco Francesco II d'Asburgo-Lorena. Nonostante questi sforzi, la parte conosciuta delle Grotte di Postumia rappresentava ancora agli inizi del XIX secolo una briciola di quanto sarebbe poi emerso di lì a poco: l'ambiente offerto dalle grotte era sicuramente ostile, i pochi mezzi tecnologici a disposizione non ne aiutavano l'esplorazione e chi intendeva addentrarsi nelle sue profondità doveva farlo al buio, su superfici precarie, senza appigli e senza alcuna certezza. Non propriamente un lavoro adatto a deboli di cuore. Arriviamo quindi all'aprile 1818 con la convinzione che le Grotte di Postumia siano tutte lì, poco oltre l'ingresso, raccolte intorno a pochi ambienti, eppure non scevre da bellezza e maestosità, proprio come le aveva descritte Valvasor 130 anni prima. Tanto che lo stesso imperatore Francesco II d'Asburg-Lorena programmò quello stesso anno una visita delle grotte insieme alla consorte Carolina Augusta di Baviera. Subito vennero intrapresi tutti i preparativi per accogliere i sovrani, illuminando a dovere gli ambienti sotterranei ed addobbandoli di modo da renderli più apprezzabili per la mondana nobiltà di corte. Vennero così impiegati nell'opera diversi operai provenienti dai villaggi circostanti. Tra di essi ve ne era uno di nome Luka Čeč, di professione lampista, la cui mansione era semplicemente quella di illuminare le grotte posizionando fiaccole e torce. Doveva evidentemente essere un tipo bizzarro ed infatti, a lavoro in corso, sparì nel nulla senza lasciare traccia: le grotte erano buie e gli operai che stavano lavorando insieme a lui cominciarono a cercarlo chiamandolo a gran voce, senza però capire dove si fosse cacciato. Dopo minuti interminabili, ecco spuntare dall'alto di una ripida parete rocciosa un fievole bagliore di luce, qualche rumore di passi sulla roccia ed infine una voce: "Qui c'è un Mondo nuovo, qui c'è il Paradiso!". Era la voce di Luka Čeč. Intento a lavorare sulla parete per posizionarvi punti di luce, sfruttando alcuni appigli si era spinto fino al culmine della parete stessa, vi aveva trovato uno stretto pertugio nascosto dal buio, quindi vi si era introdotto e dall'altra parte ecco scoperte le Grotte di Postumia in tutto il loro infinito splendore. Fu questo rocambolesco e fortuito episodio a segnare il vero inizio dell'esplorazione e della conseguente scoperta di questo meraviglioso ambiente sotterraneo. Nei decenni successivi si percorreranno e si comprenderanno progressivamente tutti i livelli e gli spazi delle grotte fino alla conoscenza che ne abbiamo oggi, anche se attualmente questo mondo sotterraneo risulta ancora comunque oggetto di studio. L'impresa della rivelazione di questo vasto patrimonio naturalistico non portò però purtroppo alcuna fortuna a Luka Čeč: di umili origini, non gli venne attribuito alcun merito nella scoperta che per decenni fu illegittimamente assegnata al nobile tesoriere distrettuale Josip Jeršinovic von Löwengreif. A nulla valse la richiesta di intervento rivolta da Čeč all'imperatore in persona: l'appello venne inesorabilmente ignorato. Solo nel 1854, con la pubblicazione da parte di Adolf Schmidl di un'opera letteraria riguardante gli ambienti sotterranei sloveni, verrà riconosciuto a Luka Čeč un ruolo nella scoperta delle Postojnska Jama. Questo periodo di oblio lungo decenni non aiutò certo l'esistenza del povero lampista, del quale oggi si hanno poche notizie certe: a parte l'estrazione sociale piuttosto modesta, di lui non rimangono notizie storiche di rilievo nè immagini fotografiche. Si sa però con certezza che dopo l'apertura al pubblico delle Grotte di Postumia ottenne un impiego come guida nelle grotte stesse e proseguì il proprio solitario lavoro di esplorazione arrivando persino a scoprire una nuova specie animale autoctona: si tratta del Leptoridus Hochenwartii, un coleottero cavernicolo obbligato, incapace di sopravvivere esposto alla luce solare, caratterizzato da un busto molto sottile, dalla totale depigmentazione della superficie corporea, dall'assenza delle ali e degli occhi, e da un paio di antenne posizionate sul capo in grado di percepire il grado di umidità ambientale. Nonostante ciò, Čeč non riuscirà mai ad ottenere in vita il giusto riconoscimento per questa preziosa quanto intrepida opera di scoperta. Morirà nel 1836 per una malattia infettiva, ancora in umili condizioni.
Abbandoniamo il nostro albergo dopo una sostanziosa colazione e ci dirigiamo verso le Grotte di Postumia: il sito è la portata principale della nostra seconda giornata di viaggio. La distanza da coprire a bordo della nostra automobile è molto esigua, appena 1,5km: superiamo il centro abitato di Postumia ed in pochi minuti abbandoniamo già l'automobile nell'ampio parcheggio disponibile (a pagamento) nei pressi del complesso. Una corta passeggiata ci conduce da qui verso il punto d'ingresso delle grotte affiancando subito il fiume Pivka: è proprio questo corto corso fluviale carsico a formare, con la sua azione erosiva sulla roccia calcarea, le cavità sotterranee delle Postojnska Jama, scorrendo per 26km in superficie e proseguendo poi il proprio decorso nel sottosuolo per i successivi 5km fino a raggiungere Lubiana, nei cui pressi prosegue alimentando il fiume Ljubljanica. Infine termina il proprio percorso più a sud sfociando nelle acque del Mar Nero, peculiare eccezione se si pensa alla maggiore vicinanza del Mare Adriatico ai territori attraversati dal fiume. Questo fa della regione circostante Postumia una sorta di spartitraffico fluviale presso il quale iniziano a divergere la via verso i mari ad ovest da quella diretta verso i mari orientali.
Lasciatoci alle spalle il parcheggio, il percorso di avvicinamento alle grotte prosegue attraversando proprio il Pivka sopra corte passerelle di legno. Da qui il fiume appare fermo ed indifferente, nulla lascerebbe intuire la tenace ed inarrestabile opera erosiva di cui è capace. Superato questo punto, una scalinata ci proietta più in alto verso l'ingresso al sito. A metà del percorso, alcune guide informano già i visitatori delle varie formule di acquisto che possono prevedere la singola visita delle grotte oppure la combinazione con l'accesso ad altri punti di interesse posizionati nelle vicinanze. Giunti in cima alla scalinata, ecco aprirsi davanti a noi tutta la grandezza del comprensorio. Già, perchè il complesso delle Grotte di Postumia non include solamente le grotte stesse, ma anche diverse altre attività commerciali tra le quali tavole calde, caffetterie, negozi e soprattutto un albergo, l'Hotel Jama, tutte raccolte intorno ad un viale pedonale chiamato Jamska Cesta. Tale disposizione è frutto del grande sviluppo turistico a cui il sito è andato incontro nel corso dei decenni e che a dire la verità lo rende un po' meno autentico, forse anche meno godibile. La folla non è quella tipica di un centro storico di una qualsiasi città d'arte italiana il giorno di Ferragosto, ma comunque rende la visita di questo luogo meno intima, anche se più comoda per chi viaggia con bambini: qui infatti non è difficile procurarsi un pasto, ai lati della via c'è anche una piccola area giochi con qualche giostrina. Ad un'estremità della Jamska Cesta, proprio accanto all'edificio dell'albergo, si apre la biglietteria per l'accesso alle grotte. Acquistiamo i nostri biglietti includendo nell'ingresso anche l'opzione per la visita di altri due siti attigui di cui si parlerà più avanti: il costo dei biglietti ci risulta pari a 49€ per gli adulti e 3€ per i bambini fino ai 5 anni di età (Amelia pur avendo già compiuto 6 anni è stata inserita in questa tariffa per intercessione, non richiesta, dell'impiegato al botteghino). Senza indugiare oltre ci dirigiamo verso il punto di accesso alle grotte: le visite sono organizzate per fascia oraria ma siamo arrivati abbastanza di buon'ora e la ressa non è ancora sopraggiunta. La incontreremo all'uscita dalle grotte una volta terminata la nostra visita. Ritornati sulla Jamska Cesta, la percorriamo fino alla sua conclusione, la quale coincide con una breve scalinata che culmina in una terrazza, una sorta di piazzale sopra il quale si apre l'ingresso alle grotte. Qui, accanto ad un anonimo negozio di souvenir, si raccolgono le persone in attesa di fare il proprio ingresso negli ambienti sotterranei.
Superati i tornelli e guidati da alcuni inservienti, i visitatori vengono divisi a seconda della lingua parlata e raggruppati presso punti di raccolta contrassegnati da aste su cui sono montate le bandierine corrispondenti: ogni visita infatti viene condotta nella lingua madre dei partecipanti. Dopo qualche istante di attesa trascorsa all'imbocco della fenditura nella roccia che segna il punto di accesso al sottosuolo, una sorta di feritoia aperta nel massiccio petroso che cala su un lato verso il fiume sottostante, i gruppi vengono con ordine chiamati ad entrare: l'imponente punto d'ingresso, chiuso da una pesante grata metallica a segnare il confine tra luce ed oscurità, risale nella sua realizzazione al 1894, epoca in cui le Postojnska Jama conobbero un ulteriore impulso nello sviluppo turistico grazie all'opera di divulgazione condotta dall'italiano Luigi Vittorio Bertarelli, illustre esploratore del Carso. Compiuto l'accesso, il passo fino alla stazione di partenza del trenino turistico è brevissimo: questa altri non è che una stretta pensilina sulla quale si affacciano in attesa i piccoli convogli che accompagnano i visitatori nella prima porzione dell'esplorazione delle Grotte di Postumia. Oggi la tratta ferroviaria si sviluppa su un percorso circolare coprendo una distanza di 4km fino alla stazione di arrivo; da qui i visitatori, scaricati su una pensilina identica a quella dalla quale sono partiti, proseguono a piedi muovendosi all'interno delle grotte su una distanza di circa 1,5km per giungere infine a riprendere il trenino presso il punto dal quale era partita la camminata e venire così nuovamente trasportati alla stazione ferroviaria di partenza. Dopo esserci adeguatamente coperti con maglioni e giacche dal momento che la temperatura nel sottosuolo si aggira intorno ai 10°C, saliamo quindi a bordo dei piccoli vagoncini gialli che possono ospitare due passeggeri per fila. Oggi tutte le motrici che servono il convoglio sono completamente elettriche dopo che dal 1956 si iniziò ad investire su macchine di questo tipo arrivando ad acquisirne negli anni ben dodici, le ultime due delle quali vennero acquisite nel 1988: con il trascorrere del tempo infatti, i visitatori che giungevano ad esplorare le Grotte di Postumia tollerarono sempre meno il rumore assordante ed i fumi di combustione generati dal funzionamento delle precedenti motrici a carburante. Partita la corsa, il trenino si invola sui binari a velocità sostenuta, attraversando grotte e percorrendo gallerie. L'impressione è quella di essere su una giostra, una specie di ottovolante, in alcuni tratti sembra quasi di sfiorare con la testa il soffitto di pietra, tanto angusti sembrano i passaggi. Nel complesso il viaggio è divertente, un'esperienza particolare ed unica nel suo genere. Uno degli ambienti più sorprendenti e memorabili che si attraversa a bordo del trenino è la Plesna Dvorana, altrimenti detta Sala da Ballo, decorata da magnifici lampade in vetro di Murano, la più grande delle quali pendente dalla volta di pietra del soffitto, retaggio sopraffino del periodo di governo italiano su Postumia: è uno degli ambienti più caratteristici dell'intero complesso delle Grotte di Postumia, uno dei suoi simboli, affascinante ed elegante. Pur attraversando questa sala ad alta velocità, sia all'andata sia al ritorno, non è difficile coglierne i tratti particolari e con la fantasia andare a ricevimenti mondani e balli aristocratici. Quella legata all'illuminazione elettrica è tra l'altro un'altra delle storie di successo che caratterizzano questi luoghi straordinari: il 15 ottobre 1883 le prime tre luci elettriche vennero portate all'interno delle Postojnska Jama, proprio dentro la Sala da Ballo, in occasione della visita imperiale di Francesco Giuseppe I d'Asburgo-Lorena. Fino ad allora era stato possibile illuminare le Grotte di Postumia solamente con torce e fiaccole. Siamo in un'epoca in cui molte grandi città europee non disponevano ancora di questo tipo di tecnologia, la grande città slovena di Maribor l'aveva ricevuta poco prima, mentre nella capitale Lubiana arriverà solo 15 anni più tardi. All'anno successivo, vale a dire al 1884, risale l'attivazione del primo impianto di illuminazione elettrica permanente delle grotte; nel 1901, quando a Londra la rete elettrica risultava alquanto rudimentale, le Postojnska Jama possedevano già un allestimento all'avanguardia, rinnovato ed ammodernato dopo il termine della I Guerra Mondiale. Oggi il complesso dispone di ben 483 luci elettriche. Il tragitto a bordo del trenino è piacevole ma breve ed in pochi minuti si raggiunge la stazione di arrivo. Da qui la visita prosegue a piedi accompagnati da una guida che, subito dopo esserci lasciati alle spalle la ferrovia, inizia descrivere le grotte e la loro lunghissima storia.
La pietra calcarea che compone questi ambienti risale a 70 milioni di anni fa', mentre l'azione erosiva operata sulla roccia dalle acque del fiume Pivka si stima che iniziò circa 3 milioni di anni fa'. Le forme e gli spazi creati da tale lavoro di continua ed incessante erosione sono davvero incredibili: alcuni ambienti appaiono enormi come hangar aeroportuali, altri invece stretti come angusti camini, tutti arricchiti da profili e sagome petrose uniche nel loro aspetto, senza possibilità di trovarne due identiche. Numerose sono le stalattiti e le stalagmiti che pendono dai soffitti o che svettano dal pavimento: alcune di esse impiegano decenni a formarsi grazie ai depositi calcarei che goccia a goccia l'acqua filtrante dalla pietra deposita cadendo sempre sullo stesso punto. A volte, dopo secoli di separazione, capita che una stalattite arrivi a toccare una stalagmite unendosi ad essa a formare una colonna: pensare a queste incommensurabili distanze temporali ed alla costante lentezza di questi processi naturali non può che far percepire all'essere umano tutta la sua piccolezza di fronte all'eterna maestosità della Natura. Purtroppo anche questo inestimabile patrimonio storico espresso dal pianeta che abitiamo è minacciato dalla presenza, troppo spesso invasiva e nociva, dell'essere umano: ne sono testimonianza involontaria le stalattiti e le stalagmiti che costellano gli spazi delle Grotte di Postumia, composte prevalentemente di carbonato di calcio dove si mostrano di colore bianco, di manganese dove appaiono nere, di ferro dove invece sono colorate di rosso, mentre dove la loro superficie risulta di tonalità verde è l'influsso umano a determinarla. Bastano piccole variazioni di luce ed umidità ad alterare il sottile equilibrio presente sulla superficie di queste formazioni calcaree, senza dimenticare tutti i residui e le sostanze portate dall'uomo all'interno delle grotte, anche solo con le suole delle scarpe. In effetti, se devo essere sincero e rifacendomi all'esperienza personale, qui rispetto ad altri luoghi simili le regole vengono fatte osservare con meno rigore, seppure siano debitamente enunciate dalla guida all'inizio di ogni visita: non è raro vedere qualche visitatore toccare volutamente qualcuna delle stalagmiti prossime al sentiero, a volte capita di scorgere il lampo di qualche flash fotografico ed addirittura si intravedono facilmente sul fondo di vasche calcaree ricolme d'acqua numerose monetine lanciate da turisti dotati davvero di poco riguardo.
La guida prosegue nella sua spiegazione: siamo ai piedi di una collina rocciosa chiamata Velika Gora, una voluminosa massa rocciosa situata in stretta prossimità rispetto alla stazione di arrivo del trenino: il complesso delle Grotte Di Postuma si sviluppa infatti su tre livelli distinti, dei quali il più basso è occupato dal fiume mentre il percorso turistico si colloca interamente sul livello intermedio, situato ad una profondità compresa tra 80m e 110m nel sottosuolo. Proprio dal cedimento di una porzione del livello superiore, evento avvenuto probabilmente millenni fa', e dal susseguente deposito di una massa di pietre del volume di 168.000m³, si è venuta a creare la Velika Gora. Da qui comincia la passeggiata sotterranea: il primo tratto si rivela in salita ed affiancato da vicino da alcune stalagmiti che si protendono verso il sentiero. Per proseguire occorre valicare la Velika Gora ma l'impresa non risulta particolarmente faticosa. La salita culmina in una sala più ampia e dalla volta alta, risultato del crollo che ha coinvolto parte del livello superiore del complesso. In questo tragitto si incontra l'ingombrante sagoma del Nabotičnik, il Grattiacielo, una stalagmite alta ben 16m e datata 150.000 anni fa', considerata la più antica presente lungo l'itinerario turistico delle Grotte di Postumia. Più avanti, superata la Velika Gora, si raggiunge una sorta di terrazza che concede lo sguardo più un basso sul sentiero che da qui comincia a scendere serpeggiando. Compiuta la discesa la pista incrocia il Ruski Most, il Ponte Russo, uno stretto e breve passaggio sospeso che collega due pareti rocciose: il suo nome si deve al fatto che venne realizzato nel 1916 dai prigionieri russi catturati nel corso della I Guerra Mondiale e costretti ai lavori forzati. Procedendo oltre, si susseguono una serie di sale differenti, di dimensioni più contenute, ciascuna impreziosita da incredibili sculture di pietra: nella Bela Dvorana il colore dominante è il bianco che ricoprire tutte le superfici, rendendo la roccia simile a panna, oppure a neve; nella Rdeča Dvorana sono invece le tonalità di rosso a dominare; la Špagetna Dvorana è caratterizzata da circa 1.200 stalattiti pendenti dal soffitto, talmente sottili da sembrare spaghetti, da cui il nome della sala stessa. Nonostante si semplifichi spesso affermando che in generale stalattiti e stalagmiti crescano all'incirca di 1mm ogni 10 anni, tale velocità di crescita non rappresenta una costante, esistendo formazioni calcaree che incrementano la loro altezza di alcuni millimetri in pochi anni oppure di pochi millimetri in centinaia di anni. Diversi fattori quali la quantità di acqua filtrante dalla roccia, la velocità di gocciolamento e l'umidità dell'ambiente possono influire in questo delicato meccanismo naturale. Nel caso della Špagetna Dvorana è l'esiguo flusso di acqua attraverso il suolo a creare formazioni calcaree tanto esili e molto lente a crescere, guadagnando pochi millimetri nell'arco di un secolo.
Dove invece l'acqua riesce a filtrare più abbondante attraverso la roccia ecco formarsi blocchi calcarei più massicci: è il caso del Briljant, il Brillante, una stalagmite alta 5m collocata poco oltre la Špagetna Dvorana. Il suo nome deriva dal suo colore bianco splendente, dovuto al sedimento di calcite pura che ne ricopre la superficie. A fare compagnia al Briljant, posta proprio accanto ad essa, sorge la Gotski Staber, la Colonna Gotica, visibilmente più alta della sua vicina, dall'aspetto lineare e dal colore più sabbioso. Entrambe queste stalagmiti rappresentano il simbolo più emblematico delle Grotte di Postumia, tanto da comparire in forma stilizzata anche nel logo ufficiale del sito. Lungo il tragitto a piedi, attraversando le varie sale disposte lungo il percorso, si giunge ad un certo punto in un ambiente più aperto al centro del quale è posizionata una teca di vetro rialzata sopra un piedistallo e riempita d'acqua. Al suo interno si può osservare la superstar delle Grotte di Postumia: il Proteus Anguinus. Si tratta di un anfibio dalla pelle rosata e dal corpo anguilliforme, la cui scoperta venne compiuta nel 1768 dal biologo austriaco Josephus Nicholaus Laurenti. Rappresenta l'unico vertebrato troglobio (ossia che vive e si riproduce esclusivamente in ambiente sotterraneo) presente sul continente europeo e contrariamente alla maggior parte degli anfibi vive esclusivamente in acqua. E' completamente cieco e dotato di occhi molto piccoli posizionati sotto un sottile strato di cute, quindi quasi invisibili, ma questo non gli impedisce di essere anche il più grande predatore sotterraneo tra quelli conosciuti: si nutre di piccoli crostacei ed in caso di estrema necessità anche delle proprie larve, seppure in virtù di un metabolismo estremamente lento possa digiunare per periodi lunghissimi, anche fino a 12 anni. Sorprendentemente può vivere fino ad un secolo. Di lunghezza variabile tra 20cm e 30cm, il Proteus Anguinus è endemico in Slovenia ed il suo habitat comprende una zona molto limitata corrispondente alle Alpi Dinariche, dalla Slovenia fino alla Bosnia-Eregovina settentrionale: una distanza lineare di appena 560km circa. Nel tempo è stato oggetto di studio per le sue straordinarie capacità di adattamento ad un habitat estremo come quello sotterraneo. In virtù della sua forma ed anche grazie alle due paia di branchie sporgenti in ciuffi rossastri ai lati del muso, in passato questo bizzarro animale fu paragonato ad un cucciolo di drago, contribuendo a renderlo un simbolo di queste regioni ed in particolare di Postumia. In effetti, andando con la memoria al giorno precedente, non ci è difficile ricordare la sua sinuosa sagoma immortalata in proporzioni ingrandite lungo la facciata di un edificio in Titov Trg, nel centro della città. Più in generale, non è per nulla raro imbattersi nel Proteus Anguinus passeggiando per le vie di Postumia, incontrandone il nome nelle insegne di ristoranti e locali, la forma in sculture e decorazioni, le sembianze in oggetti di ogni sorta all'interno dei negozi. La guida ci spiega che gli esemplari ospitati nella teca posta lungo il sentiero turistico delle grotte vi rimangono rinchiusi per un periodo piuttosto limitato, all'incirca due mesi, per poi essere lasciati liberi all'interno delle Postojnska Jama. Con un sospiro di sollievo per la notizia appena appresa, ci rimettiamo in cammino.
La passeggiata sotterranea sta per volgere al termine, l'ultimo tratto si compie attraversando gallerie di collegamento meno appariscenti che ogni tanto si diramano in percorsi alternativi verso tunnel secondari chiusi da grate di metallo: la guida ci spiega che oltre alla visita turistica classica del complesso sotterraneo, è possibile anche avventurarsi all'interno delle Grotte di Postumia in spedizioni più adrenaliniche, su piste molto meno agevoli, a profondità maggiori e su distanze più lunghe che richiedendo anche fino a 10 ore per essere compiute. Queste esperienze, sicuramente più autentiche ma non adatte a tutti, presentano un grado di difficoltà elevato anche se sempre assistite da guide speleologiche, e persino la guida che ci accompagna nella nostra visita, con un mezzo sorriso imbarazzato, nonostante la lunga esperienza con questo genere di ambienti, è stata costretta ad ammettere di non avere certo nostalgia di questi percorsi dopo averli provati una volta. Un'ultima galleria conclude il percorso prima di giungere al capolinea. La particolarità di quest'ultimo passaggio è quella di essere affiancato da un voluminoso cumulo di pietrisco, apparentemente roccia franata, in realtà materiale di scarto dai lavori di scavo condotti qui nel periodo di realizzazione del percorso turistico sotterraneo: la galleria che segue è infatti artificiale e realizzata dall'uomo. Infatti, la pista che stiamo percorrendo non è sempre stata disposta, come lo è oggi, su un tracciato circolare: solo negli anni '60 del XX secolo si decise di tramutare il tragitto del percorso turistico, fino ad allora lineare, in un percorso ad anello, e per fare ciò fu necessario, tra le altre cose, scavare 422m di galleria artificiale nello spessore della roccia. I lavori, eseguiti in due scaglioni nel 1964 e nel 1967, mirarono a creare un tracciato più facilmente fruibile da chiunque desiderasse visitare il complesso. Il percorso attuale è il risultato di ulteriori aggiustamenti compiuti nel 1969 e più avanti nel 1979, mentre gli ultimi lavori di manutenzioni sui binari della ferrovia risalgono appena al 2015. L'ultima galleria ci proietta nella sala finale di questo percorso: si tratta della Koncertna Dvorana, la Sala dei Concerti, di dimensioni enormi, con un'altissima volta ed un immenso spazio centrale aperto. Il nome di questo ambiente è dovuto alle pregevoli doti acustiche che lo caratterizzano: qui in passato si sono infatti tenuti importanti eventi musicali internazionali, dei quali forse il più celebre fu l'esibizione di Pietro Mascagni che qui nel 1928 diresse la "Cavalleria Rusticana" accompagnato dall'orchestra del Teatro della Scala di Milano. La straordinaria finezza acustica delle Grotte di Postumia era in effetti nota anche al ragionier Ugo Fantozzi, il personaggio tragicomico della commedia italiana interpretato da Paolo Villaggio, il quale nel film del 1988 "Fantozzi Va in Pensione" visita questo sito in compagnia dell'inseparabile Filini, testando l'eco delle grotte e ricevendo di rimando una risposta...alquanto discutibile. Il set cinematografico di questa pellicola in effetti non è però mai arrivato in Slovenia e le riprese delle scene suddette sono state effettuate invece all'interno delle Grotte di Pastena nel Lazio, indebitamente associate nel film al nome di Postumia forse per velleità esotiche. Ancora oggi comunque le Postojnska Jama sono teatro di eventi internazionali, basti pensare che qui si svolsero i sorteggi dei gironi per la fase finale dei Campionati Europei di Pallacanestro del 2013, ospitato proprio in Slovenia: fu la prima volta che un evento di questo tipo venne svolto sotto la superficie terrestre. Lo stesso anno, in occasione dell'800° anniversario della scoperta del complesso, venne coniata una moneta commemorativa da 2€ con incisa l'effige delle Postojnska Jama, prodotta con una tiratura di un milione di pezzi. Ma le stravaganze delle Grotte di Postumia non finiscono qui. In un angolo della Koncertna Dvorana si apre l'ingresso di un luogo alquanto inusuale da trovare sottoterra: qui infatti, all'interno di un negozio di souvenir, si colloca un ufficio postale dal quale è possibile spedire cartoline verso i luoghi della superficie. L'attuale edificio venne inaugurato nel 1927 ma fu preceduto già dal 1899 da un altro ufficio postale attivo presso la Sala da Ballo, oggi smantellato. All'epoca, la corsa del trenino fermava temporaneamente presso questo punto proprio per consentire ai visitatori di acquistare e spedire cartoline dal sottosuolo: nel 1900 ne vennero inviate ben 7.000; quattro anni più tardi, in occasione del lunedì di Pentecoste, si riuscì ad inviarne persino 13.800 nell'arco di sole tre ore. Tale successo portò ad un progressivo sviluppo dell'attività che dal 1924 si arricchì di alcune panchine protette da ombrelli per evitare che i visitatori seduti venissero bagnati dalle gocce d'acqua filtranti dal soffitto di roccia. Oggi l'ufficio postale ha perso parte del proprio fascino antico, fortino analogico in un'epoca moderna che conosce solo messaggi senza consistenza scambiati tramite il sistema telefonico o la rete informatica. Ed è così che attualmente l'edificio della posta assomiglia più ad una specie di emporio, uno strumento per acquistare e non più un'occasione per fermarsi a pensare a chi cammina decine di metri sopra la testa di chi si trova a frequentarlo. Qui termina la passeggiata attraverso le Grotte di Postumia: non ci siamo accorti di aver passeggiato per circa un'ora e la bellezza degli ambienti attraversati ha contribuito certo a non far sentire la fatica della camminata. Del resto il sentiero risulta molto semplice, facilmente percorribile da chiunque, anche con bambini al seguito, ed in effetti anche la piccola Lidia è riuscita a portare a termine la visita accomodata dentro al proprio marsupio, mentre Amelia ha concluso autonomamente il percorso senza battere ciglio. Oltre la Koncertna Dvorana si ritorna alla pensilina della stazione di arrivo del trenino. Pochi minuti di attesa e si risale a bordo per fare ritorno al punto di partenza.
Il viaggio di ritorno in trenino è tanto piacevole quanto lo è stato quello di andata. Proprio prima che il convoglio termini la propria corsa i binari affiancano sulla sinistra un dirupo sul fondo del quale si scorgono nel buio le acque tranquille del fiume Pivka, sopra la cui superficie in un punto si intravede a collegarne le sponde la struttura di una passerella di legno dai tratti scalcinati, forse usata in passato, forse tuttora in uso. E' questa l'unica finestra disposta lungo il percorso turistico a concedere la vista sul decorso sotterraneo del fiume lungo il livello inferiore delle caverne, ospitato all'interno di una cavità lunga 5km chiamata Pivka Jama, l'Abisso della Pivka, che in prossimità dell'arrivo del trenino alla stazione di partenza concede un minuscolo frammento della sua estensione. Nonostante le esigue dimensioni dello scorcio rispetto alla sua estensione complessiva, ammirare dal trenino questa voragine suscita una certa suggestione, percependone la selvaggia natura e quasi una sorta di ostilità pacifica. Terminata la nostra visita delle Grotte di Postumia, riguadagniamo l'uscita ritornando alla luce del Sole sulla stessa terrazza dalla quale eravamo entrati. Il tempo di spogliarci di maglioni e giacche e ci mettiamo in cerca del pranzo. La scelta ricade su una delle numerose tavole calde che popolano la Jamska Cesta: il pasto di svolge con pizza e Burek, pietanza slovena ma di origini turche composta da pasta sfoglia cotta al forno e ripiena di formaggio morbido. Retaggio dell'antica influenza culturale ottomana sulla regione, diffuso anche in altri paesi balcanici, ne esistono differenti varietà alcune delle quali a base di carne. Pasto veloce, impegno limitato. Approfittiamo di alcune sdraio messe a disposizione dei passanti all'ombra degli alberi che affiancano la via, ma con due bambine al seguito fermarsi ad oziare anche solo per un istante è missione impossibile. L'occasione per rimetterci in movimento ci è fornita dal Vivarij, il cui ingresso avevamo compreso nel biglietto multiplo acquistato ad inizio mattinata. Si tratta di uno spazio espositivo posizionato lungo la Jamska Cesta e poco prima della scalinata che conduce al piazzale di accesso alle grotte. La mostra biospeleologica che vi è ospitata concede l'osservazione di alcune delle specie animali che abitano l'ambiente delle Grotte di Postumia, un po' tristemente rinchiuse in piccole teche di vetro la cui illuminazione viene azionata al bisogno spingendo un pulsante posizionato sul basamento della teca stessa. Tutte le specie esposte richiedono infatti di vivere in un ambiente buio. Accanto ad ogni teca, un cartellone esplicativo enuncia le caratteristiche di ciascun animale. Il percorso circolare è davvero breve ed al termine della visita, a mio modesto parere, merita più elogi l'ambientazione della mostra, una piccola grotta dalla bassa volta impreziosita dalla forma di diverse formazioni calcaree e chiamata Rovu Novih Podpisov (ovvero Galleria delle Firme Nuove), piuttosto che la mostra in sè il cui oggetto sono animali che meriterebbero sicuramente un destino differente, tra di essi alcuni insetti, piccoli crostacei ipogei ed ovviamente l'immancabile Proteus Anguinus. Le Grotte di Postumia sono effettivamente un bacino straordinario di vita: negli anni al suo interno sono state individuate ben 84 specie animali, 36 terrestri e 48 acquatiche. Questo dato descrive una delle biodiversità sotterranee più ricche al Mondo. Dalla data di apertura al pubblico del complesso, questa preziosissima popolazione animale, abituata ad ambienti bui e silenziosi, intercalata in un equilibrio sottilissimo e fragile, ha inevitabilmente sofferto l'invadente presenza dell'essere umano, ritirandosi gradualmente in spazi sotterranei non frequentati dall'uomo. Una cessione di territori che va completamente contro diritto e che dovrebbe farci riflettere su come a volte non sappiamo renderci conto di quanto sia importante fermarci prima di valicare certi confini.
Il pomeriggio della seconda giornata di viaggio lo dedichiamo alla visita della terza attrazione compresa nel biglietto acquistato in mattinata presso le Postojnska Jama. Ci lasciamo alle spalle il complesso delle grotte e ci rimettiamo in viaggio a bordo della nostra automobile. Percorriamo senza fatica la strada sinuosa che si allontana dall'abitato di Postumia costeggiando colline boscose. Siamo nella regione slovena della Notranjsko Kraška (in italiano Carniola Interna), di cui proprio Postumia è capoluogo e cittadina più importante. In appena una decina di chilometri raggiungiamo senza difficoltà il piccolo insediamento di Predjama: pochi edifici raggruppati intorno ad un'unica strada, una manciata di abitanti e soprattutto un parcheggio a pagamento dalle tariffe davvero troppo salate.
Questa minuscola località, sviluppata su una superficie di appena 13km², detiene però una grande celebrità capace di valicare i confini nazionali grazie ad un gioiello storico ed architettonico incastonato nel massiccio rupestre che chiude l'estremità settentrionale del villaggio: in questa posizione infatti sorge il Predjamski Grad. Si tratta di una fortezza di dimensioni modeste ma adagiata all'interno di una fenditura nella pietra del rilievo carsico che svetta per 123m sopra ed intorno ad essa, caratteristica che gli valse nel corso della storia la reputazione di rifugio inespugnabile: è attualmente la fortificazione più grande del Mondo eretta all'interno di una caverna, utilizzata più di una volta come set cinematografico per produzioni internazionali di grande richiamo. Osservandone il profilo da lontano, il suo aspetto appare particolare ed inconfondibile, sembra effettivamente che il castello sia una naturale continuazione del colle roccioso, una sua appendice raffinata e rifinita. Come se uno Scultore di Paesaggi avesse deciso di lavorare con martello e scalpello su una porzione della montagna senza separare la propria opera dal blocco d'origine della materia prima.
La storia del Predjamski Grad è incredibilmente ricca di aneddoti sorprendenti e colpi di scena, che neanche a volersela inventare si saprebbe fare meglio. La primitiva costruzione del castello la si fa risalire al XIII secolo: a commissionare l'opera, realizzata secondo i dettami stilistici dell'architettura gotica, fu il patriarcato di Aquileia. Al 1274 risale la prima menzione della fortezza in documenti storici ufficiali. Fin dalla sua nascita, l'idea era quella di realizzare un edifico che potesse offrire riparo sicuro da ogni minaccia, ma allo stesso tempo anche confortevole e gradevole nell'ambientazione: per soddisfare tali esigenze venne all'uopo sfruttato un arco roccioso naturale concesso dalle colline della regione. In seguito, nel corso del XV secolo, il Predjamski Grad passò tra le proprietà del nobile casato tedesco dei Lueg: ancora oggi la fortezza è nota con il nome italianizzato di Castel Lueghi. In effetti il marchio impresso dai Lueg su questo luogo è stato sicuramente il più significativo, nonostante dopo di loro il castello passò ripetutamente di mano ad altri diversi illustri proprietari: furono gli Oberburg per primi a rilevare sul finire del XV secolo ciò che rimaneva dell'edificio lasciato dai Lueg, un cumulo di macerie e poco altro, mentre si deve alla nobile stirpe austriaca dei Purgstall l'iniziativa condotta nel corso del primo decennio del XVI secolo inerente i lavori di ricostruzione della struttura. Nel 1511 tuttavia un terremoto distrusse nuovamente la fortezza: nuove opere di riedificazione vennero comunque intraprese nei decenni successivi e portarono nel 1570 il castello ad assumere la definitiva livrea in stile rinascimentale con i volumi disposti su cinque piani, aspetto che ancora oggi possiamo ammirare nelle sue attuali fattezze. Più avanti il Predjamski Grad diventerà proprietà del baronato carinziano dei Cobenzl e nel corso della seconda metà del XVI secolo verrà affittato persino dall'arciduca Carlo II Francesco d'Asburgo, fratello minore dell'imperatore Massimiliano II d'Asburgo. In epoca più recente, nel 1810, il castello fu ereditato dal conte Michele Coronini Cronberg e poco più di 35 anni più tardi, nel 1846, fu venduto alla famiglia aristocratica austriaca Windischgrätz che ne detenne la proprietà fino al termine della II Guerra Mondiale, epoca in cui il maniero venne confiscato e nazionalizzato dalle autorità jugoslave per essere poi aperto al pubblico in qualità di museo. Ma tra tutti i numerosi risvolti di questa lunga catena di passaggi di proprietà, spicca un solo nome, indissolubilmente collegato a quello del Predjamski Grad: Erasmo von Lueg. La storia di questo bandito gentiluomo, audace e spietato ma soprattutto scaltrissimo, è passata alle cronache come vicenda leggendaria, quasi fosse un mito degno di un personaggio alla pari con Robin Hood o Arsenio Lupin, una favola da raccontare ai bambini appassionati di avventure intrepide e sagaci imprese, anche se in questo caso l'epilogo non si può dire possieda un lieto fine. Costui era infatti il figlio di Nokolaj von Lueg, governatore imperiale di Trieste. Le passioni turbolente del giovane Erasmo lo portarono ben presto a guadagnarsi fama di inguaribile delinquente, dato che nonostante il nobile lignaggio egli era solito avventurarsi insieme alla sua banda in scorrerie, saccheggi e chi più ne ha più ne metta, divenendo un nome tristemente noto nella regione del capoluogo triestino. Al termine di ogni impresa era proprio il Predjamski Grad a dare protezione ad Erasmo von Lueg ed ai suoi predoni: qui egli accumulava il suo bottino e godeva delle sue ricchezze. Siamo nella seconda metà del XV secolo, epoca in cui la Notranjsko Kraška come l'intera Slovenia era inglobata nei confini del Sacro Romano Impero ed erano gli Asburgo ad imporre su queste terre il proprio incontrovertibile volere. Tale periodo storico si protrasse dal 1335, anno in cui le regioni slovene vennero assegnate dall'imperatore Ludovico IV von Wittelsbach al duca d'Austria Ottone IV d'Asburgo, fino al 1918, anno invece del termine della I Guerra Mondiale e del conseguente disfacimento del Sacro Romano Impero. Non è difficile immaginare che Erasmo von Lueg avesse qualche problema nel riconoscere l'autorità e nel rispettare le leggi, così portava a compimento i suoi crimini di nascosto, all'insaputa dell'imperatore, più probabilmente l'imperatore Federico III d'Asburgo conosceva l'indole ribelle del giovane rampollo Lueg e ne tollerava le intemperanze, fintantochè non avessero provocato qualcosa di grave ed irreparabile. A conferma di questa amichevole tolleranza, Erasmo von Lueg venne nominato barone dall'imperatore nel 1478. Ma capitò infine che le cose prendessero una piega diversa. Era il 1483 quando Erasmo von Lueg uccise Heinrich XI von Poppenheim, figura molto legata a quella dell'imperatore in qualità di suo consigliere: il movente pare risiedesse nel fatto che Poppenheim si fosse reso colpevole di aver infangato, nel corso di una discussione alla quale assistette anche Erasmo, la memoria di Andreas Baumkircher, barone di Schlaining, catturato e decapitato su ordine dell'imperatore nel 1471 per aver fomentato una rivolta anti-asburgica nei territori della regione austriaca della Stiria. Baumkircher era unito da profonda amicizia ad Erasmo, il carattere fumantino del brigante gentiluomo fece il resto: nel corso di un duello ferì a morte Poppenheim; l'imperatore Federico III d'Asburgo diede immediatamente ordine di cattura nei confronti del nobile fuorilegge e sguinzagliò i suoi soldati capitanati da Gaspar Ravbar, governatore di Trieste; dopo essere stato catturato ed imprigionato a Lubiana, Erasmo riuscì a fuggire e si rifugiò infine nell'unico luogo in cui sapeva non sarebbe potuto essere raggiunto, il Predjamski Grad. Nel frattempo aveva cercato sostegno alleandosi con l'ungherese Mattia Corvino, storico avversario di Federico III d'Asburgo.
L'assedio di Castel Lueghi da parte delle truppe imperiali si protrasse per mesi e mesi senza riuscire a sfondare le difese della fortezza: protetto dalla roccia rupestre, il nascondiglio di Erasmo sembrava davvero inespugnabile. L'unico modo efficace di vincere la resistenza era con la sete e la fame, ma sorprendentemente, nonostante nessuno potesse uscire dalla fortezza proprio come a nessuno era permesso di entrare, dopo mesi di assedio gli abitanti del castello non sembravano dare segni di sofferenza per scarsità di cibo e acqua. Circostanza che cominciò ad alimentare supposizioni fantasiose nelle menti ingenue dei soldati appostati davanti al castello: si cominciò a vociferare che la magia assistesse il nobile fuorilegge oppure che fossero aiuti demoniaci a fornire agli assediati abbondanza di cibi appetitosi e fiumi di vino. Ovviamente la spiegazione era molto più semplice: la parete di pietra che proteggeva il retro del Predjamski Grad dagli invasori preservava i suoi abitanti anche dall'inedia, dal momento che attraverso la montagna si dipanava un sistema di gallerie capace di trasportare all'esterno chi occupava il castello, lungo il versante opposto della collina fino al fiume Vipava, lontano dal luogo dell'assedio ed all'insaputa degli assedianti. Così, completamente indisturbati, i servitori di Erasmo potevano uscire regolarmente dalla fortezza per fare scorte di ogni bene necessario, mantenendo gli abitanti floridi ed in forze mentre all'esterno i soldati pativano l'inevitabile fatica della vita in accampamento militare. L'ironia di Erasmo lo portò addirittura a compiere gesti eclatanti che contribuirono ad alimentare le voci sovrannaturali che correvano senza controllo tra le truppe imperiali, come quando diede ordine di gettare dall'alto della torre del castello sulle teste dei soldati accampati più sotto ceste di alimenti freschi. Un dono generoso destinato a chi era convinto che presto Erasmo ed i suoi seguaci sarebbero morti di fame. Passò secondo la narrazione popolare un anno ed un giorno e Ravbar non era ancora riuscito a stanare Erasmo von Lueg dal suo nascondiglio. Serviva un piano alternativo. L'occasione prese le sembianze di un servitore poco fedele ad Erasmo, figura triste e bieca che riuscì nell'impresa di spegnere l'indomabile spiritò del brigante gentiluomo: il traditore svelò a Ravbar l'unico punto della fortezza dotato di pareti meno resistenti, penetrabili dall'artiglieria, la stanza delle latrine. Così, guidati dal servitore rinnegato che pose al momento opportuno un segnale, forse un lume oppure una bandiera colorata, sopra l'obiettivo da raggiungere, con un chirurgico colpo di cannone Ravbar riuscì finalmente a colpire l'avversario: Erasmo trovò la morte poco elegantemente seduto sulla latrina, epilogo stravagante e tragicomico degno di una storia leggendaria. A testimonianza di queste straordinarie vicende rimane oggi il castello, bellissimo e perfettamente conservato nella sua forma dopo che nel 1990 venne fatto oggetto di opere di restauro. E' un'attrazione assolutamente imperdibile per chiunque si trovi a visitare questa parte di Slovenia: dopo aver posteggiato l'automobile nel prezzolatissimo parcheggio posto ai piedi del villaggio ed aver percorso la breve salita che conduce all'ingresso del centro abitato di Predjama, anche noi ci apprestiamo a visitare questo luogo magico. La prima cosa che incontriamo nell'avvicinarci al castello è la Cerkev Žalostne Matere Božje, la Chiesa di Santa Maria dei Sette Dolori: esempio di architettura tardogotica risalente al XV secolo, fa il paio con un alto tiglio che svetta proprio accanto ad essa, piantato nel punto preciso in cui si tramanda sia stato sepolto il corpo esanime di Erasmo von Lueg per volere forse di una dama sua innamorata. Accanto alla cappella si innalza in effetti proprio il fusto di un tiglio, chiamato Erazmova Lipa proprio a memoria della sepoltura che presidia. Proseguiamo il cammino su una stretta strada fiancheggiata da alcune caffetterie e ristoranti, percorriamo l'ultimo tratto su un camminamento aperto come una terrazza sopra la valle sottostante: poco sotto il sentiero si intravedono alcune gradinate lignee ed una sorta di piccola tribuna coperta posizionata davanti ad uno spiazzo erboso, forse utilizzata per le rievocazioni medievali che qui si tengono ogni anno nel corso del mese di luglio.
Dopo brevissima distanza arriviamo all'ingresso del Predjamski Grad, costituito da un piccolo portale disposto su uno stretto passaggio, un ponticello di legno sospeso sopra un esile crepaccio aperto nello spessore della collina, necessaria separazione difensiva tra chi stava fuori dal castello e chi invece lo abitava. Appena fuori dall'edificio oggi sta la biglietteria che superiamo senza colpo ferire dopo aver esibito i biglietti acquistati in mattinata presso le Grotte di Postumia. Compresa nell'offerta c'è anche la possibilità di avere nel corso della visita un'audioguida, proposta che però decidiamo di declinare: sarebbe difficile ascoltare l'esposizione dell'audioguida ed allo stesso tempo assicurarsi che le bambine non capitombolino giù da qualcuna delle numerose scalinate che collegano le sale della fortezza. Siamo finalmente all'interno del castello. Il primo ambiente ad accoglierci è uno spazio vuoto ampiamente sviluppato in altezza, anima della torretta posta a prima difesa del presidio. Lo sfondo di questo primo spazio è chiuso dalla roccia nuda della collina che fin da subito mostra la sua simbiosi con l'architettura artificiale del castello. A destra di questo spazio la visita prosegue sopra strette scalinate che conducono su diversi piani in stanze ampie e luminose, alcune impreziosite da mobili d'epoca e dipinti, uno dei quali con protagonista proprio Erasmo von Lueg ritratto in posa seduta ad un tavolo, circondato da due cani di grossa taglia, in una mano una spada con la punta rivolta a terra. L'ascesa termina al culmine dalla torretta difensiva dove al centro di una piccola stanza è collocato un bivacco formato da un rugginoso pentolone che fa pensare subito a come questo ambiente fosse probabilmente abitato dai soldati di guarnigione, circostanza confermata dalla presenza lungo tutto il perimetro della sala di feritoie aperte verso il basso utilizzate per il lancio di oggetti pesanti o olio bollente verso gli assalitori intenzionati a forzare l'ingresso. In effetti ci troviamo proprio sopra il portale di accesso al castello, ben visibile più in basso attraverso alcune delle feritoie posizionate lungo le pareti. La visita si addentra quindi nelle viscere del castello e dopo aver superato un corridoio sul quale si aprono alcune latrine, probabilmente utilizzate da guardie e servitori, si raggiunge un'altra piccola sala in un angolo della quale è situato uno scarno tavolo al quale è seduto un manichino vestito con la livrea di una sorta di giudice. Lungo la parete opposta della stanza, un'apertura conduce in uno spazio grezzo e buio, privo di finestre, dentro il quale quale da una balconata si osservano più in basso gli ambienti delle prigioni, popolate da un manichino incappucciato e vestito di nero e da un suo simile denudato ed appeso per le braccia a delle catene. Sul fondo di questa sala sono esposti alcuni attrezzi di tortura tra cui un tavolo da stiramento. Siamo ovviamente nella parte del castello dove venivano giudicati e torturati i prigionieri, spesso uccisi per direttissima facendoli precipitare in un buio e stretto precipizio profondo 63m il cui accesso si scorge oggi di fronte al manichino del giudice, chiuso da un piccolo portale di legno consumato le cui fenditure concedono un fuggevole sguardo su questo oscuro e terribile abisso. Salendo ai livelli superiori ci si spinge negli ambienti vissuti dalla nobiltà: la sala da pranzo arredata da mobilio antico con attigua una cucina dotata di grande focolare ancora annerito dalla fuliggine, la sala da letto impreziosita da un pregevole baldacchino, la cappella privata ospitante una scultura con tema la Pietà di Cristo e datata 1420. Continuando a salire su scalinate piuttosto impegnative (soprattutto con bimbi in braccio) si arriva ad una piccola terrazza riparata e scavata nella pietra in grado di offrire una piacevole veduta sul panorama che circonda il castello. E poi ancora la sala in cui venivano ricevuti gli ospiti nella quale spicca un modesto scranno ligneo sormontato da un drappo prezioso, l'armeria in cui sono esposte diversi armi, armature ed attrezzi da combattimento medievali. In quest'ultima è persino possibile testare il peso di uno grosso spadone lasciato ad uso e consumo dei visitatori, appeso ad una colonna di legno, assicurato fortunatamente ad irremovibili sostegni di metallo con l'elsa rivolta verso l'alto. Da dimenticare invece il lugubre chiosco di souvenir presso il quale si trovano in vendita anche armi bianche di piccola taglia, collocato per motivi imperscrutabili sul fondo della stanza: scelta davvero incomprensibile e che sicuramente non contribuisce ad avvalorare questo l'ambiente.
La visita si conclude lungo il livello più alto con la stanza della vedetta, piccola ed angusta, nella quale si distingue la presenza di una piccola campana posta a bassissima altezza e che serviva in passato a dare l'allarme in caso di pericolo: ancora oggi è consentito ai visitatori di suonarla al passaggio ed il suo suono ripetuto non può che costituire l'obbligato accompagnamento sonoro di ogni visita al Predjamski Grad. Sul versante opposto di questo livello invece una passerella di legno conduce nelle profondità del massiccio roccioso della collina, in un'ampia sala scavata nella pietra talmente prossima al castello da costituirne uno degli ambienti. Qui infatti si intravedono ancora qua e là resti di vita vissuta lasciati dagli antichi abitanti del castello: resti di bivacchi, residui di pareti lavorate, ripiani levigati nella roccia. Percorrendo la scalinata scavata nella pietra viva, si raggiunge la cima della grotta sopra la quale troneggia un pozzo per la raccolta delle scorte idriche. Spingendo lo sguardo più in alto si notano alcuni canali metallici sospesi lungo la volta, deputati alla raccolta dell'acqua piovana filtrante attraverso la roccia e capaci di dirigerla proprio verso il pozzo centrale di accumulo: un sistema di conservazione dell'acqua che ha davvero dell'incredibile se si pensa a dove e quando sia stato realizzato. Oltre il pozzo, più in profondità, il percorso attraverso la caverna proseguirebbe se il passaggio non fosse chiuso da una grata di ferro. Il sistema di grotte carsiche che si sviluppa intorno al Predjamski Grad, gli stessi passaggi utilizzati da Erasmo von Lueg per procurarsi rifornimenti, si estendono per un'estensione complessiva di 14km disposti su quattro livelli, costituendo il secondo sistema sotterraneo della regione in ordine di vastità dopo le Grotte di Postumia. Alcune di esse sono ancora visitabili, altre sono state chiuse a partire dal XVII secolo per impedire a predoni e ladri di utilizzarle per penetrare furtivamente all'interno del castello con lo scopo di depredarne gli oggetti preziosi. Ma l'importanza storica di questo sistema carsico retrostante il Predjamski Grad prescinde dalla figura di Erasmo von Lueg, dal momento che rilievi archeologici hanno collocato la presenza dell'essere umano in questi luoghi già dall'epoca preistorica. Terminata la visita, abbandoniamo il castello e ritorniamo all'aria aperta. Decidiamo di concederci un momento di riposo assaporando dei gelati presso una delle caffetterie poste a breve distanza dal castello per potere godere un'ultima volta della sua bellezza, aumentata esponenzialmente dal riverbero delle rocambolesche peripezie compiute dagli illustri personaggi che lo abitarono in passato.
Nonostante la distanza pari a più di 100km da Postumia, non possiamo rinunciare a visitare un altro importantissimo luogo della storia non solo slovena ma anche italiana. Ci mettiamo in viaggio di buon mattino con la nostra automobile, ci lasciamo alle spalle Postumia ed imbocchiamo l'autostrada dirigendoci verso ovest. I primi 50km scorrono dritti e veloci, senza intoppi e senza grosso impegno. Arrivati nei pressi di Nova Gorica abbandoniamo però la rete autostradale a favore di strade che prima costeggiano la cittadina di confine e poco oltre procedono su vie più strette, a carreggiata unica e due corsie, che ben presto iniziano a costeggiare l'Isonzo (Soča in lingua slovena). Lungo complessivamente 136km e dotato di un bacino complessivo di 3.200km, questo celebre fiume origina da una fenditura carsica della roccia del monte Travnik, ad un'altitudine di 1.100m s.l.m., in prossimità del confine austro-sloveno. Ad arrestare la corsa del fiume è il Mare Adriatico, nel quale l'Isonzo si getta nei pressi della cittadina friulana di Staranzano. Percorrendo il Carso, scavata dall'erosione operata sulla roccia calcarea dal ghiacciaio isontino presente fin dalla preistoria e progressivamente estintosi sotto l'influsso delle correnti d'aria calda provenienti dal mare, la verdeggiante Dolina Soče (Valle dell'Isonzo) si sviluppa lungo quasi tutto il tragitto fluviale, distribuito per 2/3 su territorio sloveno e per la rimanente porzione su quello italiano, per aprirsi infine nei pressi di Gorizia in un vasto spazio pianeggiante. Da qui nel 489 d.C. ebbe inizio la prima invasione ostrogota in Italia. Sempre qui nel 394 d.C. si tenne un vero e proprio scontro tra culture, quando le truppe cristiane dell'Impero Romano d'Oriente guidate dall'imperatore Teodosio I si scontrarono con la milizia pagana dell'Impero Romano d'Occidente capeggiata dall'imperatore Flavio Eugenio: la disputa si concluse a favore di Teodosio I, secondo i cronisti anche grazie all'intervento divino che sollevò un forte vento capace di proteggerne l'esercito deviando le frecce del nemico. L'Isonzo, anche in virtù degli eventi storici che lo videro scenario, è oggi ammantato di un'aura quasi spirituale e mistica che spesso lo rende protagonista di racconti e leggende. Una di esse narra di come tre fiumi sloveni, la Drava, la Sava ed appunto l'Isonzo, scommisero su chi tra loro fosse arrivato per primo al mare. Prima della partenza della gara, Dio si raccomandò con loro di di mantenersi onesti e corretti con gli avversari, quindi donò alla Drava un piccone, alla Sava un'ascia, all'Isonzo delle scarpe ferrate. La partenza venne stabilita all'alba, ma mentre i rivali ancora dormivano, la Drava iniziò anzitempo la propria corsa tenace e silenziosa, rompendo con il piccone le rocce che le sbarravano la via. La Sava, scossa dal trambusto delle picconate, si svegliò e si accorse che uno degli avversari aveva macinato già buona parte della strada e con grande fragore si riscosse, raccolse le proprie acque e partì a spron battuto verso la meta, falciando con l'ascia larici e pini. All'alba si ridestò finalmente anche l'Isonzo: vedendosi ingannato dai disonesti rivali, si infuriò a tal punto da scalciare con le proprie scarpe chiodate sulla pesante roccia, scavandosi in breve una via alternativa che gli consentì di accorciare la distanza, vincendo così la disputa. Soddisfatto dell'onestà dell'Isonzo, Dio lo aiutò nell'impresa e lo gratificò benedicendo la sua vittoria, mentre la Drava e la Sava, per la fretta, non trovarono mai la via per il mare, sbagliando direzione e gettandosi infine in un fiume più grande. Entrambi questi fiumi in effetti confluiscono nel corso del Danubio in territorio serbo. Secondo la leggenda, sarebbe questa l'origine della valle creata dall'Isonzo. Quella che stiamo percorrendo nel nostro viaggio è in particolare è la Zgornja Dolina Soče, l'Ata Valle dell'Isonzo, vale a dire la porzione compresa tra la foce a sud e la confluenza del fiume Koritnica nell'Isonzo, presso la cittadina di Plezzo, a nord. L'estensione complessiva di questa parte di valle copre circa 100km. La striscia piatta e verde dello Smaragdna Reka (letteralmente "fiume di smeraldo"), così viene chiamato dagli sloveni il Soča, accompagna affiancandola la strada asfaltata che con movimento sinuoso si inoltra all'interno di paesaggi boschivi: la marcia diventa più lenta ma anche più gradevole alla vista. Superando il piccolo centro abitato di Canale d'Isonzo, la via valica il fiume e continua sulla sua sponda opposta. Avvicinandoci alla destinazione, a tratti la strada si allontana leggermente dall'Isonzo di cui si perde momentaneamente la vista: in questi passaggi a caratterizzare il paesaggio sono piccoli pianori ravvivati qua e là dai colori vivaci di alcune arnie montate su rimorchi, impilate l'una sull'altra nella pratica tipica dell'apicoltura nomade. In questi scorci è bello intravedere da lontano la febbrile attività di nugoli di api intente a volare intorno alle arnie senza badare minimamente al nostro passaggio. Siamo nella regione slovena della Goriška, un blocco di roccia grezza sopra il quale lo Scultore di Paesaggi ha modellato forme di pietra ed acqua per collocarci sagome architettoniche come piccoli presepi sopra sfondi incantati. Superati gli ultimi svincoli e trascorsa più di un'ora e mezza dalla nostra partenza, eccoci arrivati a Caporetto (Kobarid in sloveno). Popolata da appena circa 4.000 persone, il nome di questa località slovena situata a ridosso del confine sloveno deriverebbe dalla parola italiana capra, essendo in passato la pastorizia una delle attività produttive maggiormente svolta dai suoi abitanti. Costituisce il più occidentale degli insediamenti sloveni e a discapito delle piccole dimensioni in termini di popolazione è in realtà composto da un insieme di 33 distinti piccoli villaggi sparsi su una superficie di 197km²: di questi il più popoloso è quello che dona il nome all'intera località in virtù dei suoi 1.100 residenti, mentre il più piccolo non arriva a contarne una settantina. Il territorio su cui sorge Caporetto fu occupato da tribù slave fin dal VI secolo d.C., ma ufficialmente le origini del primo nucleo cittadino si fanno risalire all'epoca medievale. Per diversi secoli in questi luoghi cristiani e pagani convissero piò a meno pacificamente, tanto che fino al XIV secolo qui accanto alla fede cattolica si affiancava il culto di un albero sacro ed di una fonte miracolosa chiamata Mrzi Studenec, i quali secondo una narrazione a metà tra realtà e mito si collocavano proprio sul luogo dell'attuale Caporetto, dove ancora oggi vi si troverebbero i resti. Tali origini ancestrali e mistiche conferiscono fin dalle origini alla località un forte carattere spirituale che ancora oggi, a secoli di distanza, Caporetto conserva. Ad ogni modo, il governo dei territori fin dal XII secolo faceva capo ai patriarchi di Aquileia, i quali ad un certo punto dovettero evidentemente esaurire la loro dote di tolleranza e progettarono di abolire il culto pagano che da tempi ancestrali caratterizzava questi luoghi. Secondo gli annali era il 16 agosto 1331 quando, in una vera e propria spedizione di stampo crociato, venne inviata in quest'area dal Friuli una spedizione militare incaricata di sradicare l'albero sacro, prosciugare la fonte miracolosa ed imporre infine l'esclusività della fede cristiana con l'uso della violenza. A partire dal XV secolo la popolazione di Caporetto resistette all'annessione veneziana mostrando invece il proprio favore all'autorità asburgica: eccettuato un breve periodo di sottomissione napoleonica tra il 1809 ed il 1813, fino al 1918 la località sarà territorio austriaco. Posizionata ai piedi delle Alpi Giulie ed all'interno dell'alta Valle dell'Isonzo, Caporetto è però celebre per uno specifico evento storico che assunse connotati drammatici, per non dire tragici, soprattutto per il popolo italiano: qui nell'autunno del 1917, nel contesto della I Guerra Mondiale, ebbe luogo una cruenta battaglia tra le truppe italiane e quelle austro-tedesche che esitò in un'imponente disfatta dell'esercito nostrano, in seguito talmente significativa da acquisire nei decenni successivi accezione proverbiale. Fu uno degli scontri bellici più imponenti mai avvenuti su territorio sloveno, il più importante tenutosi a livello continentale europeo su terreno montano. Questa disastrosa sconfitta subita dalla compagine italiana spostò il fronte di combattimento dalle sponde dell'Isonzo, dove la guerra di trincea si era posizionata fin dal 1915, fino al fiume Piave, ben 105km più a sud. Una perdita di terreno esorbitante per la compagine italiana che si dimostrò in questo modo completamente impreparata ad affrontare una guerra di tipo difensivo. Non ci fu mai nel passato nè più si verificherà in futuro una disfatta militare peggiore nel corso della nostra storia. A favorire la clamorosa sconfitta concorsero diversi fattori: primo fra tutti l'improvvisa deflagrazione della Rivoluzione d'Ottobre in Russia, con il conseguente disimpegno russo dal fronte orientale che favorì l'impegno di nuove e più ingenti truppe tedesche ed austriache lungo il fronte italiano. Ciò permise all'esercito invasore di praticare un frequente ricambio dei soldati impiegati sulla linea di combattimento, mantenendoli in servizio per turni di appena due giorni. Il secondo fattore fu la netta diversità tra gli approcci bellici italiano ed austro-tedesco, il primo votato ad assalti massicci e spregiudicati sostenuti dall'artiglieria pesante nel tentativo di guadagnare posizioni, il secondo invece più cauto ed elastico, organizzato in rapide sortite condotte da esigui manipoli di soldati alternate a contenute e calcolate ritirate atte a consolidare le posizioni occupate oltre che ad attirare allo scoperto l'incauto nemico. La strategia austro-tedesca, elaborata dagli ufficiali Otto von Below e Konrad Kraft von Dellmensingen, si rivelò ovviamente più efficace di quella italiana. Come se non bastasse, si aggiunse a favorire l'avanzata degli invasori anche il meteo, dal momento che nei giorni decisivi per le sorti del combattimento una fitta nebbia calò sul campo di battaglia rendendo pressochè impossibile per i reparti di artiglieria italiani schierati in altura l'effettuazione della copertura di fuoco di cui la fanteria necessitava, lasciandola di fatto sguarnita a subire la drammatica azione di sfondamento dei nemici. La sconfitta di Caporetto provocò un violentissimo scossone che fece crollare tutta l'impalcatura dirigenziale del paese: si dimise il governo guidato da Paolo Boselli, in carica da appena un anno e quattro mesi, sostituito da un nuovo esecutivo guidato da Vittorio Emanuele Orlando; il generale Luigi Cadorna, fino a quel momento al comando delle operazione militari, abbandonò l'incarico a favore di Armando Diaz. Poco dopo, tra il 1918 ed il 1919, venne anche istituita un'inchiesta militare ufficiale, presieduta dal generale Carlo Caneva, atta ad accertare le responsabilità della disfatta: si concluse con il riconoscimento di pesanti colpe a carico di numerosi alti ufficiali italiani e ad uscirne indenni non furono molti, tra di essi Pietro Badoglio, all'epoca comandante del XVII Corpo d'Armata e più avanti protagonista dell'armistizio di resa italiana durante la II Guerra Mondiale. Ad ogni modo, l'esercito italiano dopo la sconfitta di Caporetto riuscì faticosamente a riorganizzarsi presso il fiume Piave, dove imbastì nuovamente in modo efficace la resistenza all'avanzata austro-tedesca. La ritirata comportò però un alto prezzo in termini di vite umane: furono più di 10.000 i soldati morti e 30.000 i militari feriti durante l'incursione, 250.00 quelli fatti prigionieri. A ciò si aggiunse circa un milione di civili italiani sfollati a causa dell'avanzata austro-tedesca, solo circa 270.000 troveranno la salvezza: i territori conquistati vennero sistematicamente saccheggiati dagli invasori, i quali requisirono anche 3.000 pezzi di artiglieria e 22 campi d'aviazione. Numeri che non hanno bisogno di commenti nell'inquadrare la tragicità di questi eventi. La pesante perdita di territori condusse però alcuni civili ad imbracciare le armi per resistere all'occupazione nemica, portando a compimento azioni di sabotaggio oltre che furti di armi e munizioni: qui nascono i primi moti di resistenza partigiana della storia italiana. Tradizione partigiana che proseguirà a Caporetto anche durante la II Guerra Mondiale, quando dal 10 settembre 1943, pochi giorni dopo l'armistizio di resa italiana e la conseguente occupazione nazisti dei territori nazionali, per 52 giorni qui venne posto il centro della cosiddetta Repubblica di Caporetto, la prima enclave partigiana della storia italiana: formazioni partigiane slovene e italiane, a cui si associarono alcuni reparti sbandati dell'esercito, si unirono in questo territorio per far fronte all'avanzata nazista, controllando i confini dell'area intorno a Caporetto, eleggendo autorità politiche proprie e provvedendo al funzionamento di ospedali, scuole e all'esercizio della giustizia. La popolazione di questo stato nello stato ammontava a ben 55.000 persone. Le lotte partigiane a Caporetto in verità erano iniziate ben prima dell'istituzione dell'omonima repubblica: dal 1927 al 1941 la popolazione di questi villaggi mise in atto infatti un'efficace forma di resistenza contro l'organizzazione fascista veneta e giulia chiamata TIGR. Caporetto fu insomma teatro di violente battaglie e coraggiose resistenza, scenario di eventi drammatici che ne segnarono la storia e ne popolano oggi la memoria. La testimonianza più importante di questo passato è l'Italijanska Kostnica nad Kobaridom, il Sacrario Militare Italiano di Caporetto.
Si tratta di un monumento memoriale dedicato ai caduti italiani sul fronte dell'Isonzo nel corso della I Guerra Mondiale, situato ai margini dell'abitato di Caporetto: è l'unico sito di questo genere ad essere situato fuori dai confini italiani, gli altri sono infatti dislocati su suolo nazionale presso le località friulane di Redipuglia e Oslavia. Sebbene il sacrario si trovi oggigiorno in territorio sloveno, la sua cura e gestione fa comunque capo allo stato italiano: va infatti ricordato a tale proposito che dal 1947, in conseguenza del termine della II Guerra Mondiale, l'area di Caporetto, fino ad allora compresa tra i confini italiani, rientrò come tutta la Slovenia tra i territori jugoslavi, con conseguente progressiva riduzione della presenza di italiani nella zona.
L'Italijanska Kostnica nad Kobaridom fu ultimato nel 1938, epoca in cui Caporetto batteva ancora bandiera italiana, ed a costruirlo furono l'architetto Giovanni Greppi, già autore di altri sacrari friulani, insieme allo scultore Giannino Castiglioni: ad inaugurare l'opera una volta portata a compimento, il 18 settembre dello stesso anno, fu l'allora capo dello stato italiano Benito Mussolini. Per realizzarlo vennero prelevate le spoglie dei soldati italiani caduti sull'Isonzo da diversi cimiteri militari della regione circostante e grazie a questo lavoro di raccolta e conservazione oggi il sacrario ospita i resti di 7.014 soldati italiani, dei quali 1.748 ignoti. Sono solo una piccola parte del numero totale di uomini che persero la vita sul fronte italiano nei combattimenti della I Guerra Mondiale, stimato in circa 650.000 soldati italiani e 400.000 militari austro-tedeschi. L'Italijanska Kostnica nad Kobaridom è sicuramente il sito commemorativo più importante a celebrazione di questa strage bellica, situato proprio in prossimità del luogo che fu il teatro principale degli eventi che la videro concretizzarsi. E' disposto a forma piramidale con base ottagonale ed è disposto su tre livelli concentrici lungo il cui perimetro sono disposte le lapidi realizzate in serpentino ed incorniciate da archi di pietra, contrassegnate dal nome scolpito dei soldati e sormontate dalla parola "PRESENTE" in riferimento alla chiamata alle armi verso la quale tutti questi uomini hanno dato coraggiosamente risposta. I tre livelli sono collegati da ampie scalinate lungo la principale delle quali, sul fronte, campeggia inciso in una lastra di pietra il motto "Onore a voi che qui cadeste valorosamente combattendo".
Ampi camminamenti inondati dalla luce del Sole consentono di camminare attraverso il lunghissimo elenco di nomi e gradi militari dei soldati che qui trovano sepoltura, giovani vite strappate troppo precocemente a questo Mondo. In sei tombe raggruppate ai lati della scalinata principale giace il gruppo di militi ignoti. Alcune lapidi tombali poste di lato all'ossario commemorano invece i soldati periti durante un cruento attacco tedesco condotto a Plezzo il 24 ottobre 1917 con l'impiego di oltre 2.000 bombe caricate con acido cianidrico, un gas asfissiante, durante l'ultima delle dodici battaglie isontine, quella che condurrà alla tragica disfatta italiana: 1.800 uomini dell'87° Reggimento Fanteria trovarono la morte sul campo in questo modo atroce. Queste pietre tombali vennero traslate a Caporetto proprio da Plezzo, situata 15km più a nord, nel 1981. Il silenzio copre come un velo la nuda pietra delle decine di lapidi tombali, contribuendo a conferire a questo luogo uno spirito vivo e consistente, meritevole di rispetto e commozione: camminare attraverso l'Italijanska Kostnica nad Kobaridom è una prova particolare, il contatto più diretto con l'intimo e profondo dolore che a Caporetto riveste senza eccezione ogni luogo ed angolo.
Al culmine del sacrario svetta la Cerkev Svetega Antona, una piccola cappella consacrata a Sant'Antonio e datata 1696, precedente di secoli rispetto alla realizzazione del monumento commemorativo che quindi venne costruito intorno a questo piccolo e scarno edificio. La cappella con il suo campanile appuntito e la facciata segnata da un'alta croce in controrilievo è chiusa all'interno di un recinto di archi di pietra che ne delimita il perimetro erboso.
Dall'alto possiamo ammirare il panorama sulla regione circostante: a destra il piccolo centro abitato di Caporetto, sulla sinistra la Valle dell'Isonzo in tutto il suo ammirevole e carico di significato splendore. Degno di menzione è anche il piccolo spazio museale posizionato a breve distanza dal sacrario, ai margini della macchia boschiva: espone reperti originali della I Guerra Mondiale appartenenti ad una collezione privata, costo dell'ingresso 5€. Raggiungiamo il sacrario a bordo della nostra automobile: il caldo cocente ci scoraggia, con due bambine al seguito, dal compiere a piedi il tragitto in salita di circa 850m che dal centro della cittadina di Caporetto conduce sulla cima della collina Gradič, sulla cui sommità sorge proprio il monumento: la via composta da pochi tornanti è scandita dalle quattordici stazioni della via crucis, raffigurate in belle sculture di pietra poste a lato della via.
Punto di partenza obbligato per iniziare l'ascesa verso l'Italijanska Kostnica nad Kobaridom è Trg Svobode, la piazza principale di Caporetto, dalla quale si diparte direttamente il sentiero che si arrampica sul Gradič. Il fulcro della piazza è la Župnijska Cerkev Device Marije Vnebovzete, la Chiesa dell'Assunzione di Maria, il più importante luogo di culto religioso della cittadina. La struttura attuale dell'edificio, semplice ma impreziosita dalla sagoma di un bel campanile con tetto a tre bulbi, risale ad un periodo successivo alla II Guerra Mondiale, essendo stata la struttura originaria distrutta nel corso del conflitto bellico per essere poi ricostruita. All'esterno, ai piedi del campanile, giace una piccola campana di bronzo, forse retaggio della primitiva costruzione. L'ingresso principale al tempio, nascosto alla vista della strada, si affaccia sulla parte più riparata della piazza. All'interno, l'altare principale in marmo rosso è opera dello scultore italiano Antonio Lazzarini che lo realizzò nel 1716. Le vetrate presenti lungo le pareti laterali vennero allestite nel 1995. Degno di nota anche il voluminoso lampadario di vetro che pende dalla volta davanti al presbiterio.
Ritornando all'aperto su Trg Svobode, un ultimo sguardo alla piazza fa scorgere lungo il lato opposto rispetto alla chiesa il profilo dolce e flessuoso dello Spomenik Simona Gregorčiča, una statua raffigurante la sagoma di Simon Gregorčič vestita di un lungo saio, realizzata nel 1959 dallo scultore Jakob Savinšek. Vissuto tra la seconda metà del XIX secolo e la prima metà del XX secolo, originario del villaggio di Vrsno situato ad 8km di distanza da Caporetto e figlio di un fattore del luogo, Simon Gregorčič fu uno dei letterati e poeti più importanti di questa regione. Cresciuto pascolando il gregge di pecore di cui la famiglia era proprietaria, era dotato di una spiccata intelligenza ma a causa di ristrettezze economiche la formazione scolastica gli fu negata e fu costretto ad abbandonare gli studi in giovanissima età. Più avanti, entrò in seminario e venne ordinato sacerdote, rivestendo il ruolo di vicario presso Caporetto nel 1868: qui contribuì alla fondazione di una biblioteca pubblica, una delle prime in quest'area della Slovenia. Votato all'arte letteraria, cominciò presto a comporre poesie liriche impregnate del contrasto tra la vita sacerdotale e l'esistenza laica, orientate verso ideali politici progressisti e nazionalisti. La sua produzione si diffuse ampiamente tra lettori di ogni ceto ed estrazione sociale, garantendogli una fama che gli valse il soprannome di "Goriški Slavček", letteralmente "l'usignolo goriziano". Una delle sue poesie più celebri è quella intitolata "Soči", un'ode al fiume Isonzo composta nel 1879.
- ALL'ISONZO -
Ma su te, misero, ahimè, s'addensa
un tremendo uragano, una bufera immensa,
dal caldo meridione infuriando verrà
e strage alla pianura ferace recherà
che la tua corrente disseta.
E quel giorno, ahimè, lontano non è!
Su te il ciel sereno s'inarcherà,
ma intorno grandine di piombo cadrà
e sangue a fiotti e di lacrime un torrente
e lampi e tuoni - oh che battaglia ardente!
Qui all'urto delle spade affilate,
le tue acque di rosso saranno colorate:
il nostro sangue a te scorrerà,
quello nemico ti intorbiderà!
Rammenta, chiaro Isonzo, allora
ciò che il cuore ardente implora:
quanto di acqua in serbo avrà
nei suoi nembi il tuo cielo,
quanto nelle tue montagne sarà
d'acque e nelle pianure fiorite
riversale allora finchè tutte saran uscite
e tu cresci, sollevati con la corrente tremenda!
Non ridurti entri i limiti delle sponde,
balza dagli argini tuoi furibondo
e lo stranier della nostra terra avido
nel fondo dei tuoi gorghi travolgi impavido!
Al nome di Simon Gregorčič a Caporetto è legato un altro luogo di grande importanza: si tratta del Kobariški Muzej, situato in una via intitolata proprio al poeta sloveno, Gregorčičeva Ulica, a breve distanza da Trg Svobode. Questo spazio museale gode di una fama illustrissima a livello internazionale, avendo negli anni ricevuto diversi prestigiosi riconoscimenti tra i quali nel 1993 anche il Premio Museo del Consiglio Europeo, assegnato ogni anno a partire dal 1977 ai luoghi espositivi dotati di meriti straordinari nella diffusione della cultura continentale. Fama che devo ammettere, una volta portata a termine la visita, essere più che meritata: il Kobariški Muzej è senza dubbio uno dei siti imperdibili per chiunque visiti Caporetto. Il tema dell'esposizione è quello della guerra di trincea svoltasi nella regione circostante durante la I Guerra Mondiale, con particolare attenzione all'ultima delle dodici battaglie isontine che tra il 24 ottobre 1917 ed il 7 novembre dello stesso anno vide contrapposti l'esercito italiano, più numeroso e meglio equipaggiato, alle truppe austro-tedesche, più esigue ma meglio organizzate. L'epilogo fu la rovinosa ritirata italiana, talmente inattesa da essere conosciuta nelle regioni slovene che la videro concretizzarsi anche con l'epiteto Čudež pri Kobaridu, in allusione al fatto che a Caporetto avvenne un vero e proprio miracolo. Il museo è ospitato all'interno di un edificio storico, la Mašerova Hiša, una villa signorile risalente al 1739 abitata dapprima dalle famiglie Peteani ed Obrez, in seguito dalla famiglia Mašer da cui il nome attuale. La costruzione venne gravemente danneggiata da un terremoto che colpì Caporetto nel 1976, ma venne negli anni successivi ricostruita e riqualificata a museo, aperto al pubblico ed inaugurato nel 1990. I numerosi reperti qui custoditi sono dislocati in dodici sale distribuite su tre piani. All'esterno, la facciata è presidiata da un rugginoso cannone d'artiglieria montato su ruote, posto proprio a lato dell'ingresso.
Subito dopo aver varcato la soglia, ad accogliere il visitatore è un ampio androne sul fondo del quale è posizionata la biglietteria. Lungo la parete di destra sono adagiati a terra alcuni resti di granate, differenti per dimensioni e forme. Sopra di esse alla parete sono affisse antiche fotografie ritraenti i volti in primo piano di soldati italiani, austriaci e tedeschi: sguardi, espressioni, divise militari, alcuni di essi appaiono sorridenti altri invece mostrano un cipiglio serio e concentrato sotto baffi voluminosi, qualcuno porta più di qualche primavera sulle spalle, qualcuno sembra essere poco più di un bambino. Lungo la parete opposta invece sono sistemate numerose lapidi tombali a forma di croci sulle quali sono incisi nella pietra i nomi dei soldati caduti, seppelliti a coppie in un'estremo ultimo abbraccio da commilitoni, un abbraccio che non bada a nazionalità o schieramenti, solidale e finalmente pacifico. Le stanze laterali del piano terra ospitano un'esposizione temporanea, ad accesso libero e gratuito, dedicata a vari aspetti della vita in trincea: le linee di approvvigionamento del fronte, il trasporto dell'artiglieria e delle munizioni, l'importanza di cani ed altri animali nel lavoro a sostegno dei soldati. Le notizie sono riportate su pannelli informativi ben congegnati e conditi qua e là da alcuni oggetti originali tratti dai campi di battaglia: baionette, filo spinato, proiettili. Una menzione particolare per il capitolo riguardante le donne impiegate sul fronte di combattimento: fondamentale fu l'apporto all'approvvigionamento delle truppe portato dalle cosiddette Portatrici Carniche, donne civili più o meno giovani che percorrevano decine di chilometri a piedi, caricate sulla schiena anche di 40kg di scorte, su percorsi che prevedevano anche 1.000m di dislivello, per portare infine rifornimenti direttamente alle trincee, correndo indicibili pericoli e mettendo a rischio la propria stessa vita. Si distinguevano per una fascia rossa legata al braccio; il misero compenso che ricevevano, appena poche Lire, escludeva ogni possibile interesse di guadagno, piuttosto era la volontà di essere utili e di non rimanere ai margini a spingerle ad ingaggiarsi in tali imprese. Sorprendentemente, vista la costante esposizione in prossimità del fronte di combattimento, solo tre delle 1.453 portatrici impegnate nel corso di tutto il conflitto bellico sul fronte isontino furono ferite, una sola venne uccisa, Maria Plozner Mentil, decorata postuma con la medaglia d'oro al valore militare e ricordata nell'intestazione della caserma militare di Paluzza, in Friuli, che risulta attualmente l'unica struttura di questo tipo in Italia intitolata al nome di una donna. Per accedere alle esposizioni dei due piani superiori occorre pagare un biglietto d'ingresso: il costo è di 8€ per gli adulti, i bambini sopra i 6 anni di età pagano invece 4€ mentre per i più piccoli l'ingresso è gratuito. Ad accogliere i visitatori al primo piano è un grande ritratto fotografico di Ernest Hemingway: lo scrittore americano in giovane età si arruolò come volontario nei corpi militari di spedizione destinati al fronte europeo; riformato per un difetto alla vista, fu inizialmente impiegato nelle unità di soccorso sanitario, arrivando in Italia nel 1918 per farsi trasferire sul fronte di combattimento isontino come ausiliario di trincea, con il compito di distribuire generi di conforto ai soldati, incarico che svolse percorrendo le trincee in sella ad una bicicletta. La volontà del giovane Hemingway era quella di testimoniare da vicino la vita dei soldati impegnati nelle azioni di guerra, a tale scopo iniziò persino a collaborare con una piccola testata giornalistica italiana. Verrà colpito gravemente ad una gamba la notte dell'8 luglio 1918 dallo scoppio di una granata austriaca: Hemingway era in quel momento impegnato a trasportare sulle spalle verso l'infermeria un soldato italiano ferito, il quale involontariamente fece scudo con il proprio corpo proteggendo l'americano dall'esplosione dell'ordigno, di fatto risparmiandogli la vita. A seguito di ciò, fu curato per tre mesi in un ospedale militare a Milano dove intrecciò peraltro una storia d'amore con l'infermiera statunitense Agnes von Kurowsky, la quale però non ricambierà appieno il suo sentimento. Decorato con la medaglia d'argento al valore militare, Hemingway ritornerà infine in patria nel gennaio 1919. La vicenda vissuta dallo scrittore statunitense sul fronte isontino, dove rimase appena un mese, ispirerà il romanzo "Addio alle Armi", pubblicato nel 1929. Le sale al primo piano del Kobariški Muzej espongono un grande numero di oggetti provenienti dalla quotidianità italiana, austriaca e tedesca della I Guerra Mondiale: medaglie al merito, armi, piccozze per lo scavo delle trincee, una vecchia radio per le comunicazioni militari, elmetti, borracce, strumenti per la chirurgia di campo, una tagliola arrugginita e numerosissime fotografie. Da citare anche una teca che espone le divise degli ufficiali militari dei diversi schieramenti: quella italiana grigia e cupa, quella bavarese invece di un acceso blu brillante. In una delle sale è adagiato a terra un plastico che riproduce in rilievo la linea del fronte di combattimento sull'Isonzo. Accanto ad esso alcune fotografie raccapriccianti di soldati brutalmente mutilati dalla guerra: attenzione ai bambini se ne avete al seguito. All'interno della stessa sala si trova esposto anche quello che è stato il reperto che più ha colpito la mia curiosità: si tratta di una pesante porta di legno, proveniente da una prigione di guerra austriaca, asportata dai propri cardini, la cui superficie è costellata di scritte, firme e disegni, direttamente tracciati dai prigionieri con l'inchiostro sulla superficie lignea. E' semplicemente impressionante leggere i messaggi tracciati con eleganti calligrafie più di cento anni fa' dai soldati Giuseppe Mascarini o Noè Pezza, classe 1893, nomi senza volto che assumono però personalità nelle scritte lasciate in eredità ai posteri. In queste parole sono riposte tutte le angosce e le speranze di giovani uomini i cui occhi hanno assistito ad eventi che sicuramente non avrebbero mai desiderato vedere. Il secondo piano del museo invece ospita diverse teche di vetro che espongono differenti modelli di armi: pistole, fucili, granate, pugnali, baionette, oltre ad una curiosa maschera antigas realizzata in asbesto, materiale oggi classificato come cancerogeno se inalato. Dal soffitto sopra le teche pendono alcuni vessilli e bandiere delle varie compagini contrapposte sul fronte dell'Isonzo: tra le altre spiccano l'aquila bicefala simbolo dell'esercito imperiale austriaco ed il tricolore italiano con al centro lo stemma del casato Savoia. In una nicchia di una sala laterale è ricostruito l'ambiente vissuto al fronte da un soldato semplice: un tavolo, una sedia su cui è seduto un manichino vestito da una divisa militare, una finestrella aperta su un paesaggio innevato. Il manichino è disposto in posa nell'intento di scrivere con un pennino su un foglio di carta, alla luce di una lampada che da sola rischiara tenuemente la stanza buia. Una voce registrata enuncia in varie lingue la lettera che il soldato sta scrivendo al proprio padre, rassicurandolo sulle proprie condizioni e raccontando in modo tanto fiducioso quanto vago la vita al fronte. Un'ultima sezione, posta sul fondo delle sale espositive, narra la storia di Caporetto dopo il termine della I Guerra Mondiale, dall'occupazione nazifascista al periodo jugoslavo, attraverso alcuni pannelli scritti ed alcune teche di vetro contenenti divise ed armi provenienti dalle varie epoche. Termina qui la nostra visita del Kobariški Muzej, un museo davvero ben allestito, interessante e vivido nella memoria che è estremamente efficace nell'alimentare. Una piacevolissima sorpresa nella nostra visita giornaliera a Caporetto.
Il tempo residuo rimastoci prima di concludere la giornata lo dedichiamo per visitare il Napoleonov Most, il Ponte di Napoleone, un breve e stretto passaggio sospeso sopra le acque del fiume Isonzo nel punto in cui il corso fluviale attraversa una forra dalle ripide e strette pareti calcaree. Costruito nel 1750, il ponte è così chiamata in quanto poco dopo la sua costruzione offrì il passaggio alle truppe guidate da Napoleone Bonaparte che avevano appena sottomesso la regione. In realtà in questo punto esisteva un passaggio sospeso già prima del XVIII secolo, realizzato probabilmente in legno, ma venne completamente distrutto dai veneziani intorno all'anno 1616. Anche il ponte settecentesco fu fatto saltare in aria dall'esercito austriaco in ritirata il 24 maggio 1915, il giorno seguente alla dichiarazione d'inizio della I Guerra Mondiale che ingaggiò le truppe imperiali contro quelle italiane. Saranno proprio gli italiani successivamente a ripristinare un passaggio temporaneo sul fiume prima in legno ed in seguito in ferro. L'attuale struttura di pietra ad arcata unica, lunga appena 20m e larga 8m, risale al 1918. Durante la II Guerra Mondiale i partigiani della Repubblica di Caporetto presidiarono la zona anche controllando il passaggio attraverso il Napoleonov Most: due lapidi commemorative poste lungo la parete rocciosa a lato del ponte celebrano la memoria di questa strenua ed indomita resistenza. Dopo il termine della I Guerra Mondiale e fino al 1963 l'area fu protagonista di alcuni progetti che prevedevano la costruzione di una centrale idroelettrica attraverso l'allagamento della forra all'interno della quale sorge il ponte: il progetto fu definitivamente abbandonato dopo il disastro della diga sul Vajont. Arriviamo a visitare il sito a bordo della nostra automobile, nonostante la sua vicinanza al centro abitato che consentirebbe di raggiungerlo facilmente anche a piedi: la giornata, tanto torrida quanto impegnativa, sta per volgere al termine e le bambine sono stanche, a dire il vero lo siamo anche noi adulti. Il Napoleonov Most ci appare incorniciato da un piacevole scenario roccioso. Sotto il ponte scorrono le acque verde smeraldo dell'Isonzo e nel loro silenzioso fluire sembrano trasportare tutti gli eventi e gli episodi che caratterizzano la ricca storia di questi meravigliosi luoghi. Un'ultima menzione per il ristorante Restavracija Kotlar, situato in Trg Svobode: ottimi risotti ed ottimi piatti a base di pesce, personale gentile ed ambiente tranquillo. Qui abbiamo assaggiato anche il nostro primo piatto tipico sloveno: il Kobariški Štruklji è un dolce a base di pasta di frumento riempita con un ripieno di noci e pan grattato a formare una specie di raviolo dolce, cotto in acqua bollente. Davvero molto gustoso! Scopriremo che ne esistono di varie versioni, anche salate, in differenti località slovene, ma chi dice Štruklji dice prima di tutto Caporetto. Ripeteremo il contatto ravvicinato con la cucina slovena la sera stessa presso il Bistrot Štorja di Postumia (consigliatissimo!): assaggeremo il Krškopoljec, piatto a base di carne dell'unica varietà di maiale autoctono sloveno, cucinato per 15 ore a basse temperature, quindi fritto. Ovviamente accompagniamo il tutto con gli immancabili Štruklji, questa volta al formaggio.
Per chiunque si trovi a percorrere le strade che conducono a Caporetto, è d'obbligo la fermata a Canale d'Isonzo (in sloveno Kanal ob Soči). Questo piccolo villaggio di poco più di 1.100 abitanti, oggi entità territoriale indipendente dopo il distacco dall'amministrazione di Nova Gorica nel 1995, è situato circa 30km a sud rispetto a Caporetto, adagiato a 246m s.l.m. sulle sponde del fiume Isonzo che come un nastro verde taglia in due il centro abitato. E' qui che la strada regionale Glavna Cesta 103 che collega Nova Gorica a Tolmino, costeggiando il confine italo-sloveno, transita da una sponda all'altra del fiume valicandone l'alveo. Il passaggio è reso disponibile dal Kanalski Most, un pittoresco e suggestivo ponte di appena 15m di lunghezza, sospeso 17m sopra le acque dell'Isonzo: proprio la vicinanza al corso fluviale che qui scorre in un basso e stretto canale delimitato da pareti rocciose conferisce il nome alla località.
Piccolo nelle dimensioni, il Kanalski Most detiene fama smisurata rispetto alle sue proporzioni in virtù di un valore paesaggistico conferito dal contesto che lo circonda, oltre al contributo di tradizione e folclore che ne anima lo spirito: dai suoi bordi annualmente si tiene una gara amatoriale di tuffi nell'Isonzo che vede impegnati i più intrepidi personaggi locali. Tale fascino non passò inosservato nemmeno al giovane Hemingway che cita il luogo nelle pagine del suo "Addio alle Armi". L'attuale struttura del ponte venne realizzata nel 1920 ma un passaggio in questo punto esisteva già da un'epoca ben più antica: forse furono addirittura i romani a realizzarne il primo esemplare; sicuramente una passerella in legno esisteva qui fin dal XVI secolo, come confermano testimonianze scritte del 1580. Questa grezza infrastruttura lignea fu smantellata e ricostruita più volte nel corso dei secoli successivi; agli inizi del XIX secolo le truppe francesi guidate da Napoleone Bonaparte la distrussero due volte nell'arco di una decade, prima nel 1805 quando procedevano avanzando verso l'Austria, poi nel 1813 mentre si ritiravano dai territori precedentemente conquistati. Per intercessione del parroco locale Valentin Stanič la passerella sarà ricostruita una volta ancora nel 1816: il curato contribuì alla progettazione dell'infrastruttura e si incaricò di scrivere una lettera all'imperatore austriaco Francesco I d'Asburgo-Lorena nella quale chiedeva al sovrano di sovvenzionare la costruzione di un nuovo ponte in pietra. Stanič tentò di procurare lavoro e denaro ai propri parrocchiani, che in quegli anni non dovevano passarsela granchè bene, con queste parole inserite nella missiva spedita all'imperatore: "Siamo alle corte, dateci pane! Sennò, buon Dio, sarà lesta la morte!". Centrò senza dubbio l'obiettivo: il curato sarà in seguito elevato a canonico della cattedrale di Gorizia ed il ponte in pietra verrà ultimato già nel 1816. Dei due archi che caratterizzano il ponte attuale, quello minore conserva ancora parte della struttura patrocinata da Stanič, essendo l'opera sopravvissuta nei decenni fino alla I Guerra Mondiale, più precisamente al 25 maggio 1915, data in cui l'arco maggiore del ponte venne demolito con l'esplosivo dall'esercito austriaco. Di Valentin Stanič, oltre alla preziosa opera spesa a favore di questi territori, resta oggi all'interno del villaggio anche un busto di metallo montato su una colonna di pietra, lo Spomenik Valentina Staniča, opera dello scultore Janez Pirnat del 1957. Nativo proprio di Canale d'Isonzo (più precisamente della poco distante frazione di Bodres), questo tenace religioso fu uno dei precursori dell'alpinismo europeo, arrivando a scalare diverse vette austriache, slovene e italiane, per molte delle quali misurò per la prima volta l'altitudine, tra di esse nel 1808 anche il monte Triglav.
Il busto che lo ritrae sorge lungo il fianco della Župnijska Cerkev Marijinega Vnebovzetja, la Chiesa di Santa Maria Assunta, il principale luogo di culto religioso locale. Affacciata proprio sul Kanalski Most e sull'Isonzo, venne realizzata in stile gotico nel 1431 sulla struttura di una più modesta cappella del XIII secolo, per essere in seguito riqualificata in forma barocca nel 1632 dopo essere stata danneggiata da un incendio provocato da un fulmine. L'edificio appare oggi curiosamente defilato dal volume centrale dello spazio urbano che la circonda e ciò deriva dal fatto che in passato intorno alla chiesa era allestito un camposanto, il quale nel 1782 venne spostato in altro luogo per fare spazio alla cittadina moderna. La struttura, a navata unica e lunga 30m, è dotata di un campanile alto 35m e posizionato a lato della facciata. All'interno, le vetrate che abbelliscono l'abside risalgono al 1899 e furono ristrutturate nel 1991; l'altare maggiore in marmo è opera di scultori goriziani che lo realizzarono nel 1760; la pala d'altare ritrae l'Assunzione di Santa Maria e fu creata dal pittore Otmar Črnilogar nel 1960; il presbiterio è dotato di una volta a stella che risulta essere una delle più antiche di questo genere presenti in Slovenia. Lungo io soffitto della navata principale invece non si può non notare il grande affresco raffigurante la scena dell'Assunzione di Santa Maria, opera realizzata nel 1931. La chiesa, insieme al monumento a Valentin Stanič ad essa attiguo, sorgono sullo spazio di Trg Svobode, la piazza principale della cittadina, in realtà più che una piazza uno stretto viale carrabile i cui contorni sono definiti da edifici, da un parcheggio e dall'alto fusto di un'ampia conifera. Sul retro della chiesa, proprio accanto all'abside, si affaccia sulla piazza un piccolo ristorante il cui ingresso è presidiato dalla Neptunov Vodnjak, una fontana in pietra raffigurante il dio Nettuno con tanto di corona e tridente dorati: opera del 1815 probabilmente da attribuire al goriziano Nicolò Picassi, ristrutturata nel 1876, inizialmente questa scultura era posizionata lungo il lato opposto della piazza ma venne spostata nella sede attuale nel 1937. Dalla data della sua installazione i cittadini di Canale d'Isonzo la chiamano con il soprannome amichevole di Matija. A commissionarne la creazione fu il casato dei conti Coronini Cronberg, signori locali che dominarono questa località nel corso del XIX secolo. A precederli fu la nobile famiglia di origine toscana dei Rabatta tra il 1623 ed il 1794, ed ancora prima, a partire dal 1504, a farla da padrone furono i feudatari imperiali del casato Ungrispach. La residenza di questi nobili esponenti della nobiltà locale era costituita da un piccolo castello eretto nei pressi del centro abitato che in epoca medievale doveva essere fortificato e cinto da mura. La cittadina e la regione circostante furono infatti interessate da incursioni turche nel corso del XV secolo e poco più avanti, tra il XVI secolo ed il XVII secolo, dalla disputa territoriale tra l'Austria e la Repubblica di Venezia, con i veneti che riuscirono per due volte a conquistare la cittadina. All'interno del castello sembra abbia soggiornato nel 1797 anche Napoleone Bonaparte e leggenda vuole che qui sia morto il suo proverbiale cavallo bianco, seppellito nelle vicinanze con tutti gli onori militari. Le fortificazioni vennero in seguito smantellate ed il castello fu gravemente danneggiato dai bombardamenti della I Guerra Mondiale, oggi non ne rimane traccia. Nonostante ciò, Canale d'Isonzo, a discapito delle sue piccole dimensioni, ha ancora molto da offrire, ed una rapida sosta, magari per un fugace spuntino, vale sicuramente il tempo speso.
La terza meta imperdibile della regione slovena della Goriška e della Zgornja Dolina Soče è Tolmino. Cittadina di circa 11.600m abitanti collocata all'interno delle Alpi Giulie, alla congiunzione del fiume Tolminka con l'Isonzo, questa località sfoggia origini lontanissime ed una storia poliedrica. Abitata fin dalla preistoria, venne in seguito occupata prima da popoli illirici e poi dai romani. Dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente (V secolo d.C.) ed una breve parentesi di dominio ostrogoto, divenne possedimento bizantino a seguito dei processi di espansione condotti da Giustiniano I, imperatore dell'Impero Romano d'Oriente. A partire dal 568 d.C., con la discesa dei longobardi sulle regioni settentrionali dell'Italia, divenne territorio del Ducato del Friuli, governato dai longobardi stessi. Più avanti saranno i franchi a rivendicarne la proprietà e dal 1077 l'area su cui sorge l'attuale Tolmino verrà rilevata dai patriarchi di Aquileia: già dal 1071 buona parte dell'attuale Slovenia nordoccidentale era sottoposta al controllo dell'autorità aquileiese, la quale concesse in feudo questi territori al nobile casato tedesco dei Babenberg, di fatto iniziando in questo modo quello che sarà il lunghissimo legame tra la Slovenia e lo stato austro-tedesco. Al periodo aquileiese appartiene la creazione dell'istituto dei Consorti di Tolmino, un concilio di famiglie aristocratiche locali alleate nel legiferare ed amministrare la regione circostante l'omonima cittadina. Dal 1420 l'area di Tolmino passò tra i possedimenti veneziani e nel 1516 tra quelli asburgici: sarà proprio quest'ultimo casato ad abolire l'istituzione dei Consorti di Tolmino nel 1607. Gli Asburgo nel corso dei decenni successivi diedero questo territorio in feudo a diversi nobili esponenti, primi fra i quali furono Maria Dornberg ed il figlio Caspar Veit von Dornberg. Furono questi nel 1633 ad assegnare Tolmino ad un nuovo beneficiario, Maximilian Breuner, ma già verso la metà del XVII secolo ad imporsi sulla cittadina, come sui territori circostanti, sarà il casato dei Coronini Cronberg, tra i maggiori esponenti della nobiltà goriziana. Con l'ascesa napoleonica, Tolmino conobbe una breve parentesi di governo francese, ma già nel 1815, con il riconoscimento di città autonoma, ritornò in possesso degli Asburgo per rimanerci fino al termine della I Guerra Mondiale. La vicenda storica forse più emblematica del passato di Tolmino è però costituita dalla rivolta contadina del 1713, tanto importante da estendersi dal goriziano fino all'Istria settentrionale. L'antefatto narra di scarsi raccolti agricoli causati da avverse condizioni atmosferiche e da gravi malattie che decimarono il bestiame in quelle annate, quelle tra il 1711 ed il 1714. La scintilla che fece esplodere la polveriera fu rappresentata dalle pesanti tasse che vennero imposte dalla signoria dei Coronini Cronberg su alcuni beni considerati di prima necessità, come il vino e la carne. Il volgo diede avvio proprio a Tolmino ad estese proteste che non dovettero lasciare adito a fraintendimenti, dal momento che la reazione dei Coronini Cronberg fu immediata e velenosa nella nomina di Jakob Bandelj alla carica di capo esattore dei tributi. L'inflessibile avidità di quest'ultimo montò ulteriormente la rabbia dei contadini, indispettiti dagli odiosi balzelli che il funzionario applicava ai dazi per arricchire il proprio patrimonio. A capitanare la rivolta si eresse tale Ivan Miklavčič, agricoltore del luogo con un passato da soldato, il quale alla guida del popolo affamato cacciò malamente dal villaggio il parroco Anton Bandelj, fratello del detestato esattore, il quale dal pulpito della chiesa non mancava regolarmente di richiamare i fedeli ai propri doveri contributivi. La ritorsione non si fece attendere: alcuni contadini innocenti giunti a Gorizia per acquistare grano e sale vennero arrestati, imprigionati e messi in ceppi. La notizia viaggiò alla velocità della luce tanto che i contadini di Tolmino non tardarono ad organizzare una folta colonna e a marciare sul capoluogo, presidiando armati di forconi il castello locale ed assaltando la casa di Jakob Bandelj che si trovava proprio a Gorizia. I contadini vennero liberati ed i rivoltosi tornarono alle proprie case. Nei giorni successivi nuove rivolte contadine si registrarono anche in altre località, tra le quali Caporetto e Canale d'Isonzo: migliaia di persone scesero nelle piazze urlando la loro richiesta di abolizione dei tributi. Una tale e così diffusa disubbidienza all'autorità politica non poteva passare impunita e fu così che nel maggio del 1713 le rivolte vennero represse nel sangue: per ordine dell'imperatore Carlo VI d'Asburgo, l'esercito austriaco venne inviato nei villaggi sopprimendo con la violenza i rivoltosi e arrestando 150 fomentatori che trascorreranno in cella i successivi tre anni. Undici tra i capi della ribellione furono catturati nonostante i tentativi di fuga: nel 1714 verranno decapitati nella piazza di Gorizia. Tra di essi Ivan Miklavčič, amputato delle mani prima di essere portato al patibolo.
Testimone di questo passato dai contorni a volte cruenti, sorge sull'altura chiamata Kozlov Rob (412m s.l.m.), poco distante dall'abitato di Tolmino, il Tolminski Grad: fu questo il più importante castello presente nella regione in epoca medievale. Venne eretto probabilmente già intorno al V secolo d.C. sopra un più antico insediamento costituito da poche casupole ed una piccola chiesa; la prima menzione ufficiale della fortezza in documenti storici risale al 1188. La funzione del castello era quella di presidiare importanti svincoli stradali e commerciali, in particolare tra il XII secolo ed il XVII secolo, essendo la località marca di confine con la regione friulana. La fortezza comprendeva quattro torri difensive, una prigione e ben due pozzi. Purtroppo oggi di tale struttura non rimane granchè, solamente le rovine, dopo che per ben due volte venne colpita da un violento terremoto: nel 1348, lo stesso anno in cui l'Europa era flagellata da una tragica epidemia di peste, e nel 1511, quest'ultimo oltre a provocare circa 10.000 vittime produsse anche un maremoto lungo le coste friulane. Il castello venne completamente e definitivamente abbandonato nel 1651, dopo che i signori locali, i Coronini Cronberg, fecero costruire una nuova residenza nei pressi dell'abitato di Tolmino. Questa circostanza non coincise però con l'esaurimento dell'importanza del Tolminski Grad: Tolmino fu infatti il punto di partenza principale dell'offensiva austriaca che nel 1917, in aperta I Guerra Mondiale, condusse allo sfondamento della linea di difesa italiana. In tale periodo, il Tolminski Grad fu uno dei presidi militari austriaci nella zona. Solo dopo i due conflitti bellici mondiali, negli anni '90 del XX secolo, il castello sarà restaurato ed acquisirà nuovamente titolo di sito monumentale e funzione di apprezzato punto panoramico. L'attrazione principale custodita da Tolmino ha però fattezze completamente differenti. Per raggiungerla, dal centro della cittadina imbocchiamo la Gregorčičeva Ulica e superiamo la Župnijska Cerkev Marijinega Vnebovzetja, la chiesa principale: eretta in stile rinascimentale nel 1682 su una precedente struttura gotica, venne riqualificata in stile barocco su progetto dell'architetto Franc Vovk nel 1786, anno in cui venne dotata anche dell'altare maggiore in marmo trasportato da un decaduto convento di Clarisse situato presso Gorizia. Venne restaurata nel 2000 a seguito dei danni riportati dal terremoto che colpì la regione, con epicentro nei pressi di Plezzo, nel 1998. A circa 2,5km dalla chiesa, abbandonata l'area urbana di Tolmino e procedendo verso nord lungo strade secondarie più strette, si raggiungono le Tolminska Korita, le Gole di Tolmino. Si tratta di un canale roccioso creato con meccanismo carsico dal passaggio del fiume Tolminka: situato ad un'altitudine di 180m s.l.m., il sito costituisce il punto più basso e meridionale del Triglavski Narodni Park.
Il tragitto per raggiungerle da Tolmino non presenta particolari difficoltà, l'unico ostacolo è costituito dal parcheggio per le automobili, davvero molto piccolo e con pochi posti disponibili: per questo, qualche chilometro prima di raggiungere il parcheggio situato di fronte all'ingresso, è stato previsto un ulteriore parcheggio servito da una navetta gratuita che in pochi istanti conduce al punto di accesso alle gole. Siamo però fortunati: superato il parcheggio più periferico, tentiamo la fortuna in quello più prossimo ed indoviniamo la scelta. Abbandoniamo l'automobile ed oltrepassiamo il piccolo ristorante collocato di fronte al parcheggio: davanti alla soglia notiamo lo spettacolo bizzarro di un gruppo di giovani metallari, vestiti neri e capigliature voluminose, intenti ad acquistare cibo e bevande. Scopriremo solo in seguito che a Tolmino si svolge annualmente in estate il Tolminator Festival, una rassegna musicale internazionale rigorosamente metal distribuita su più giorni ed animata da diversi musicisti. Il piccolo gabbiotto della biglietteria delle Tolminska Korita si trova a pochi passi dal parcheggio: la gentile impiegata ci fornisce una mappa e ci consegna i biglietti d'ingresso. Il costo è di 10€ per gli adulti, 5€ per i bambini sopra i 6 anni d'età e 1€ per i bambini più piccoli. Abbiamo consultato il meteo prima di dirigerci verso il sito: danno pioggia ma la simpatica impiegata alla biglietteria, dopo aver controllato le proprie fonti, ci rassicura con poche parole ed un sorriso tranquillo. Con qualche apprensione ci incamminiamo superando la biglietteria ed accedendo al sentiero. Il cielo è grigio e denso di nuvole minacciose ma nonostante le due bambine al seguito decidiamo di non lasciarci condizionare dal timore e scegliamo l'ottimismo. Il primo breve tratto di sentiero procede in lieve discesa su gradoni, senza troppe difficoltà. In capo a poche decine di metri raggiungiamo il fondo della gola al centro della quale scorre il fiume Tolminka: originato da una sorgente carsica 10km più a nord, questo piccolo corso d'acqua avanza formando le gole in cui ci troviamo e poco più avanti incrocia l'abitato di Tolmino per infine gettarsi circa 3km più a sud nel fiume Isonzo di cui costituisce uno dei principali affluenti.
Le Tolminska Korita sono solo una piccola porzione della valle formata dal decorso del Tolminka, quella aperta alle visite turistiche, ma lo scenario che offrono è davvero prezioso: i toni di marrone della pietra si mischiano con le varietà di verde della vegetazione; la superficie liscia dell'acqua disegna curve e livelli, punteggiata qua e là da volumi rocciosi come grossi gusci d'uovo. Questa valle venne descritta in letteratura per la prima volta solo nel 1954 dal geografo sloveno Anton Melik. I sentieri turistici vennero invece tracciati tra il 1953 ed il 1958, ed a compiere l'opera fu il Turistično Društvo Tolmin, un'associazione turistica locale che in seguito ne fu anche principale custode e gestore. Nel punto in cui il percorso plana dall'alto sopra il fondo della gola, il Tolminka confluisce con il fiume Zadlaščica, appena una decina di chilometri di decorso, proveniente da est: è questo l'unico esempio sloveno di confluenza fluviale nel contesto di una gola. Proseguendo lungo il percorso, la pista oltrepassa il fiume sopra uno stretto ponte di legno.
Giunto sulla sponda opposta del Tolminka, il sentiero si divide in tre direzioni differenti: a sinistra si addentra per un breve tratto lungo la gola fluviale, fino ad un basso e corto canale roccioso aperto sul fronte ed affacciato sul fiume; sulla destra la via procede verso un secondo ponte di legno, questa volta sospeso sullo Zadlaščica; tra queste due deviazione prosegue il sentiero principale che inizia a salire lungo la parete rocciosa della gola. L'ascesa è assistita da un camminamento semplice ed adatto a tutti, disposto su gradini. Persino Amelia, 6 anni e lo spirito avventuriero di un vecchio bucaniere, non esita a coprire la distanza, mentre Lidia segue al sicuro nel suo comodo marsupio. Il sentiero sterrato termina infine su una più larga strada asfaltata. Ed è qui che ci coglie la pioggia, non possiamo certo dire che non ce l'aspettavamo: nonostante le rassicurazioni dell'impiegata alla biglietteria, avevamo portato con noi giacche ed impermeabili. Il nastro d'asfalto prosegue sulla sinistra ma imboccando invece la direzione opposta, compiuto un tornante il lieve salita, si raggiunge la Dantejeva Jama, vale a dire la Grotta di Dante. Si tratta di una caverna aperta nello spessore della parete rocciosa della gola, comprendente tre sale distinte ed estesa per una superficie complessiva di 1.140m. Il suo peculiare nome deriva dal fatto che nel 1319 Pagano della Torre, patriarca di Aquileia, ospitò presso Tolmino il vate italiano Dante Alighieri, il quale sembra che durante il suo soggiorno abbia visitato la grotta e che da essa abbia tratto ispirazione per la composizione del cantico infernale della "Divina Commedia". A parte il nome con cui è chiamata la caverna, non ci sono testimonianze storiche certe a conferma di tali circostanze, e la vicenda galleggia a metà strada tra realtà e folclore: ciò che invece abbiamo potuto incontrare davanti all'apertura della grotta è un gruppo di metallari seduti ad ascoltare musica rock ad alto volume, forse nell'intento di evocare qualche entità demoniaca dall'oscurità della caverna, nessuna traccia di Virgilio nelle vesti di guida. Tornando a noi, la prima mappatura della Dantejeva Jama risale al 1922 ma l'esplorazione completa dei suoi ambienti è solo del 1977 ed a compierla fu un gruppo di speleologi di Tolmino. In seguito venne approntato al suo interno il primo sentiero turistico scavando canali e gradini. La grotta è conosciuta anche con l'appellativo di Zadlaška Jama, dalla località di Zadlaz, situata pochi chilometri più ad est lungo il decorso del Zadlaščica.
Una narrazione della tradizione popolare racconta che la Dantejeva Jama fosse abitata in passato da una vecchia megera chiamata Duga Baba. Il suo aspetto era rivoltante, le mani le terminavano in lunghissime e sudicie unghie, la sua chioma di un malsano colorito verdastro era scompigliata ed infestata da pidocchi, completavano il quadro un grosso naso bitorzoluto ed una bocca sdentata dall'alito maleodorante. Proprio per le sue fattezze orripilanti, l'anziana signora veniva sistematicamente evitata da tutti i passanti che ne conoscevano la fama e si trovavano a passare vicino alla sua cavernosa abitazione: infatti, il carattere della vecchina non era ostile e minaccioso, ma amichevole e confidenziale. Questo la portava spesso a cercare di incrociare il cammino dei viandanti e quando ne incontrava qualcuno che incautamente si avvicinava troppo alla caverna da lei abitata, la Duga Baba ne interrompeva il viaggio avanzando una strana richiesta: bassa e tarchiata, chiedeva di essere trasportata per un tratto di strada, guadando il fiume, caricata sulle spalle del malcapitato passante. Se il viandante accettava la richiesta, nonostante il ribrezzo per l'aspetto della vecchia strega, la Duga Baba lo lasciava proseguire una volta ricevuto il passaggio. Se invece il favore veniva negato, allora la Duga Baba traeva dalla tasca del proprio malandato vestito un tozzo di pane ammuffito, lo condiva con l'abbondante muco che le colava dal naso e lo offriva all'indolente passante, il quale non osava rifiutare un dono tanto generoso dopo aver rifiutato l'aiuto ad una povera vecchina. Al di là delle sfumature grottesche e comiche della leggenda, la storia della Duga Baba può essere interpretata come un monito a pensare che la bellezza dell'ambiente che ci circonda richiede spesso per essere goduta fatica e coraggio, tanto quanto ne servirebbe per ingoiare un tozzo di pane coperto di muco. A memoria di questa strana e bizzarra figura dell'immaginario collettivo locale, una statua in legno della Duga Baba, opera di Anton Naglost, presidia l'ingresso alla grotta poco sotto la Dantejeva Jama. Nella nicchia rocciosa in cui si colloca troviamo un po' di tregua dalla pioggia intensa. La sosta non si protrae però troppo a lungo. Riprendiamo il cammino e ci riposizioniamo sulla strada asfaltata che procede in lenta discesa.
La via segue il profilo della parete rocciosa che definisce le gole, piega leggermente a destra, poi svoltando a sinistra si prepara a valicare il fiume Tolminka, passaggio che si compie ad un'altezza di 60m sopra l'Hudičev Most, il Ponte del Diavolo. Il nome evocativo gli è attribuito in virtù dello scenario che lo circonda: non è raro che camminamenti sospesi in ambienti angusti o impervi guadagnino appellativi del genere anche in altre località. Il effetti lo stretto passaggio che collega in alto le due ripide e strapiombanti pareti rocciose della gola fornisce un notevole colpo d'occhio. Realizzato interamente in legno agli inizi del XX secolo, venne fornito di un'impalcatura in ferro nel 1929, in epoca di amministrazione italiana sulla regione. Durante lo svolgimento della I Guerra Mondiale fu svincolo fondamentale per lo spostamento delle truppe austriache. Il paesaggio che si coglie ancora oggi dalla sua sommità offre uno scorcio davvero pregevole, con le acque azzurre del Tolminka che scorrono più in basso tra le altre pareti di roccia punteggiate qua e là da macchie verdi di vegetazione. In basso, nel punto in cui il fiume passa sotto il ponte emerge una fonte termale di acque calde e poco a lato si scorge la porzione inferiore del sentiero che abbiamo percorso in precedenza. Osservare dall'alto questo scenario è un privilegio tutto da gustare. Percorriamo la superficie del ponte composta da assi di legno; dopo averlo superato il sentiero prosegue inoltrandosi in una galleria scavata nella roccia, aperta sul lato rivolto verso il fiume e dal cui parapetto si può assaporare l'ultima rapida veduta sulle gole sottostanti. Dopo un'altra breve pausa per ripararci dalla pioggia che nel frattempo non ha smesso di cadere e non ha accennato a ridurre la propria intensità, concludiamo l'ultimo tratto dei 2km di percorso circolare attraverso le Gole di Tolmino ed eccoci nuovamente davanti alla biglietteria. Il meteo ha reso la nostra visita più frettolosa e concitata del previsto, ma la bellezza dell'ambiente che abbiamo attraversato è valsa comunque la pena di avventurarci sotto l'acquazzone. Consigliato previa consultazione accurata delle previsioni del tempo, diffidate invece dei pareri metereologici delle impiegate alla biglietteria.
La Gorenjska (in italiano Alta Carniola) è una delle dodici regioni che suddividono il territorio della Slovenia. Esempio perfetto di come una singola cosa possa assumere diversi ruoli e significati differenti, è anche uno dei modi più complicati per raggiungere Tolmino dalla Slovenia centrosettentrionale. Ne percorriamo infatti le strade per dirigerci verso la cittadina goriziana prima di fare ritorno a casa, nel corso del nostro ultimo giorno di viaggio. Lo Scultore di Paesaggi non deve aver avuto vita facile nel lavorare questo territorio aspro e refrattario. A caratterizzare il paesaggio sono infatti verdi colline e piccoli villaggi sperduti su bassi altopiani oppure all'interno di strette valli. Un altro tratto distintivo di questa regione sono le strade, strette e sinuose, a tratti e nei punti in cui percorrono rilievi collinosi anche ripide ed impegnative: una vera gatta da pelare per chi non ha confidenza con il loro decorso. Una fatica che viene però ripagata da uno scenario autentico e sincero, una destinazione sicuramente lontana dai flussi turistici e dalle grandi folle, accessibile solo per chi si avventura su piste secondarie con un pizzico di incoscienza. Coperto il primo tratto di percorso su comode autostrade a corsie multiple, la pista prosegue su strade secondarie inoltrandosi gradualmente in territori collinari. Ben presto iniziano le salite e si incontrano i primi stretti tornanti. La carreggiata procede tanto stretta da sperare di non incrociare un'altra automobile che procede in senso contrario. Nei pressi della collina Dražgoška Gora (1.140m s.l.m.), si fiancheggia il piccolo centro abitato di Dražgoše, poco più di 300 abitanti che vivono del legname dei vicini boschi oltre che di agricoltura: la barriera naturale fornita dalla collina ostacola infatti i flussi di aria fredda rendendo il clima di queste località più mite. Il nome del villaggio e della vicina altura provengono dal nome della famiglia di provenienza tirolese che fondò secoli fa' questo insediamento, il cui appellativo fu probabilmente Drazigost o Drazgos. La storia della colonizzazione umana di questi luoghi è però ancora più antica, come testimoniano alcuni rinvenimenti archeologici in zona che collocano la presenza dell'uomo in questi territori fin dall'epoca preistorica. Il sito è tristemente noto oggi per la battaglia che qui si tenne durante la II Guerra Mondiale: era il 9 gennaio 1942 quando i partigiani sloveni si scontrarono con le forze armate naziste proprio nei pressi di Dražgoše. La Germania del III Reich aveva già occupato l'Alta Carniola dal 1941 sovvertendo completamente l'ordine sociale e gli equilibri della popolazione locale: parroci e prelati vennero espulsi dalla regione, molti intellettuali furono confinati, le scuole vennero requisite e gli inseganti sostituiti da docenti di lingua tedesca incaricati di perpetrare prima di tutto la propaganda nazista, la lingua slovena venne bandita e molti uomini furono fatti prigionieri ed inviati ai lavori forzati. La reazione degli abitanti non si fece attendere molto e presto si organizzarono bande partigiane che cominciarono a combattere l'invasore: da piccole azioni di sabotaggio ben presto la resistenza slovena progredì verso gruppi armati ed incursioni più complesse. Il principale riferimento di questa opposizione fu il Cankarjev Bataljon, fondato nell'agosto del 1941 e responsabile nel dicembre dello stesso anno dell'uccisione di 45 soldati nazisti a seguito di un'imboscata nei pressi di Rovte v Selski Dolini, località situata una decina di chilometri a sud di Dražgoše. Lo smacco per la potente macchina da guerra tedesca fu tale che Heinrich Himmler in persona diede ordine di inviare ulteriori truppe nella regione, 37 prigionieri sloveni vennero fucilati senza processo nè possibilità di appello. Venuti a conoscenza dell'imminente arrivo dei rinforzi nemici, i partigiani del Cankarjev Bataljon si ritirarono per cercare riparo presso una piccola e sperduta località, non lontano dal teatro degli scontri: il nome di questa località era Dražgoše. Arrivati al villaggio i ribelli diedero subito ordine agli abitanti di informare i tedeschi della loro presenza: la volontà era quella di non coinvolgere nella disputa i civili e quindi di evitare che la popolazione subisse rappresaglie. I nazisti radunarono un'impressionante corpo d'armata formato da 2.000 soldati, pezzi di artiglieria e persino un aereo da ricognizione. Il Cankarjev Bataljon contava appena 200 uomini. Lo scontro tra i due schieramenti proseguì nel villaggio per tre giorni, lasciando sul terreno di battaglia 27 tedeschi e 9 partigiani sloveni. L'11 gennaio i ribelli ormai stremati dalla lotta impari per numero ed equipaggiamento furono costretti a fuggire nascondendosi sulle colline circostanti, molti civili del villaggio li seguirono, con l'aiuto di alcuni collaborazionisti sloveni i nazisti poterono infine penetrare a Dražgoše occupandone il territorio. Al termine della battaglia si realizzò proprio quello che i partigiani avevano sperato di evitare fin dall'inizio: come rappresaglia per aver sostenuto la resistenza, i nazisti giustiziarono 41 civili del villaggio, tra i quali anche donne e bambini; altri 18 uomini del luogo, inizialmente fuggiti per evitare la cattura, furono arrestati e fucilati. Gli edifici furono saccheggiati e dati alle fiamme, tra di essi anche la chiesa. Gli abitanti sopravvissuti alle esecuzioni sommarie furono imprigionati ed inviati ai campi di concentramento. Il piccolo villaggio di Dražgoše scomparve da un giorno all'altro dalle mappe, divenuto deserto popolato solo di macerie e cenere. Questo evento storico venne elevato non solo ad esempio di coraggio e patriottismo nazionale, ma fu anche assunto come manifesto di resistenza a livello continentale ed internazionale, giungendo notizia di esso fin negli USA dove fu lodato come eroico atto di forza contro un nemico tanto potente quanto disumano. Dražgoše verrà ricostruita solo dopo il termine della II Guerra Mondiale dagli abitanti sopravvissuti, i quali condussero l'opera tra il 1949 ed il 1960 in modo indipendente rifiutando le sovvenzioni del neonato governo comunista jugoslavo. Una nuova scuola venne eretta nel 1953. La chiesa fu ricostruita solo nel 1967 e fino alla sua ultimazione le funzioni vennero celebrate all'aperto sui resti della chiesa distrutta dai tedeschi, ben più antica e risalente al XVII secolo. Percorrendo a bordo della nostra automobile la stretta strada asfaltata che attraversa Dražgoše è impossibile non notare poco a lato rispetto alla via un imponente monumento in cemento, il Dražgoše Spomenik, composto da cinque massicce colonne al centro delle quali si diparte il profilo a spirale di una scalinata che collega una piattaforma inferiore ad un piano superiore. La forma delle colonne è ispirata a quella dei tradizionali sostegni in muratura utilizzati in queste zone per la costruzione dei fienili. La piattaforma più bassa ospita un sacrario con i resti dei civili e dei partigiani uccisi nella battaglia del 1942, sorvegliati sui lati da due gruppi di statue in metallo raffiguranti combattenti sloveni nell'atto di imbracciare fucili, protesi in avanti verso la lotta, opera dello scultore Stojan Batič. Il piano superiore del monumento offre invece una vista panoramica su tutto il territorio circostante. Alla base della struttura, in una nicchia è collocato un pregevole mosaico creato da Ive Šubic e raffigurante scene di lotta armata. A progettare il monumento che venne ultimato nel 1976 fu l'architetto Boris Kobe. In questo luogo, ogni anno nel mese di gennaio, si tiene una solenne cerimonia commemorativa dei fatti che segnarono per sempre questa località tra il 9 gennaio e l'11 gennaio 1942. Proseguiamo il nostro viaggio e ci lasciamo alle spalle lo Jelovica: questo altopiano carsico, naturale separazione tra la valle del fiume Sava Bohinjca e le Alpi Giulie, capace di raggiungere un'altezza compresa tra i 900m s.l.m. ed i 1.600m s.l.m., offre un pregevole paesaggio caratterizzato da boschi di abeti ed è ambiente posto sotto tutela ecologica in virtù di una preziosa varietà faunistica, soprattutto in riferimento ad alcune rare specie di uccelli. Nonostante parte del proprio patrimonio arboreo, in passato costituito non solo da conifere ma anche da faggi, sia andato progressivamente perduto a causa dell'opera di disboscamento condotta nei secoli passati a favore dell'estrazione di carbone destinato ad alimentare una locale ferriera, oggi lo Jelovica costituisce ancora un prezioso scrigno di biodiversità. Lungo le sue pendici meridionali si situa proprio il villaggio di Dražgoše. Più avanti la strada cala gradualmente fino ad infilarsi in una stretta valle confinata da basse pareti rocciose ricoperte da macchia boschiva, ed al centro di essa sorge il piccolo abitato di Žalezniki: poco meno di 7.000 abitanti, questa località fu già dal XV secolo e fino alla seconda metà del XX secolo importante centro siderurgico della zona. Da segnalare di passaggio è la chiesa locale, la Župnijska Cerkev Svetega Antona Puščavnika, eretta in stile rinascimentale tra il 1872 ed il 1874 su una precedente struttura del 1822 distrutta da un rogo. A realizzarla furono Franc Faleschini e Štefan Šubic. La bella torre campanaria posta a sormontare la facciata della chiesa fu danneggiata nel 1944 e riparata solo undici anni più tardi, mentre solamente nel 1997 venne completamente ripristinato il suo tetto in ardesia. Altro elemento degno di menzione tra i confini della località è lo Žalezniki Plavž, un altoforno utilizzato per l'estrazione del ferro risalente al 1860 e disattivato nel 1902. Questa struttura costituisce l'ultima testimonianza del passato operoso di questa cittadina, una tradizione illustre ed antica, basti pensare che la prima menzione storica di una struttura di questo tipo sul luogo risale al 1422. Il legame di Žalezniki con l'industria estrattiva del ferro è tanto stretto da far comparire la sagoma di un altoforno anche nello stemma cittadino. Da questo punto in avanti la strada che stiamo percorrendo viene affiancata dal fiume Selška Sora, il cui decorso ci accompagnerà per un lungo tratto: affluente della Sora, scorre per 32km procedendo verso est fino a terminare presso la cittadina di Škofja Loka. Circa 5km oltre l'abitato di Žalezniki la strada incrocia la Cerkev Marije Device Lavretanske, la quale sovrasta dall'alto la carreggiata automobilistica: realizzata sul luogo in cui sorgeva precedentemente una piccola edicola votiva, eretta in stile rinascimentale tra il 1875 ed il 1876 su progetto di Franc Faleschini, questa chiesa votata alla Madonna di Loreto sorge sulla cima della collina Suša, a 596m s.l.m. E' meta di pellegrinaggio per molti fedeli che vi si recano per chiedere intercessioni, dal momento che il sito gode di fama miracolosa. Superato questo punto, poco più avanti la pista attraversa il villaggio di Zali Log, appena 250 abitanti ma piacevole nell'aspetto. A contrassegnarne il carattere sorge leggermente rialzata rispetto al piano della strada la Župnijska Cerkev Marijinega Vnebovzetja, la Chiesa Parrocchiale dell'Assunzione Maria, in stile barocco e risalente al XVIII secolo, eretta su una precedente struttura in stile gotico. La strada procede per diversi chilometri ondulando e sempre costeggiando la Selška Sora; alcuni cantieri edili dispersi lungo la via rallentano la marcia ma il percorso non si mostra particolarmente difficoltoso. Il tragitto diventa quindi più tortuoso, con alcuni stretti tornanti ed il fiume Baccia (in sloveno Bač) a raccogliere il testimone nell'affiancare la via. Nel suo decorso fino alla confluenza nel fiume Idria, questo torrente disegna la Baska Grapa, una valle verdeggiante estesa per una trentina di chilometri, teatro nel 1944 di importanti scontri armati tra i partigiani jugoslavi e le truppe naziste. Tolmino è il punto conclusivo di questa deviazione lunga complessivamente 65km tra i territori della Gorenjska, compiuta su percorsi secondari ed a lenta percorrenza con un pizzico di disappunto ma anche con tanta soddisfazione per aver potuto cogliere questo lato riservato e nascosto della Slovenia più autentica.
Con circa 290.000 abitanti ed estesa su una superficie complessiva di 163km², Lubiana è la capitale della Slovenia. Seppure sia di gran lunga il centro urbano più grande del paese è anche tra le dieci capitali europee più piccole in ordine di popolazione. Il nome della città, comparso in documenti storici per la prima volta nel 1144 nella versione arcaica Luvigana, possiede derivazione dubbia e molte sono le ipotesi avanzate per spiegarne l'origine: la più quotata fa risalire l'appellativo alla divinità pagana delle acque Laburus venerata dagli slavi, altri lo collegano con il termine latino aluviana in riferimento alle origini alluvionali di questa regione oppure forse ad un'importante inondazione che colpì in epoca romana l'area su cui sorge l'attuale capitale slovena, infine non mancano interpretazioni più romantiche che evocano il termine slavo ljuba corrispondente al vocabolo "amore". Quale che sia la versione più veritiera, le origini di Lubiana sono antichissime ed in effetti sembrerebbero confermare alcune delle teorie avanzate sull'interpretazione del suo nome: infatti, fin dal 2000 a.C. la zona, che al tempo era occupata da una paludosa distesa selvaggia, venne colonizzata dai primi esseri umani, i quali si organizzarono ad abitare in palafitte di legno sopravvivendo grazie alla pesca e ad una primitiva forma di agricoltura. In seguito l'area venne occupata dai veneti, poi intorno al IV secolo a.C. da alcune etnie balcaniche, infine nel III secolo a.C. dai celti. I romani arrivarono poco dopo: siamo all'incirca nel I secolo a.C. quando qui venne costruita una fortezza legionaria denominata Iulia Aemona, piuttosto avanzata per l'architettura dell'epoca, basti pensare che gli edifici erano in muratura e dotati di un rudimentale sistema fognario. Furono gli unni guidati da Attila a distruggere l'insediamento romano nel 452 d.C., dopo di che saranno gli sloveni a partire dal VI secolo d.C. ad occupare questi territori rimanendovi in pianta stabile. Da qui in avanti si declina una sequenza rapida di re, sovrani ed imperatori che uno dopo l'altro conquistarono la regione sottomettendo la popolazione locale: si comincia nel IX secolo d.C. con i franchi; nel 1270 è il turno di Ottocaro II re di Boemia; nel 1278 è Rodolfo I d'Asburgo, re di Germania, a rivendicarne il possesso. L'insediamento, ribattezzato con il nome germanico Laibach, rimarrà entro i confini asburgici fino al 1918. All'interno di questa parabola storica, la città che via via si sviluppò e crebbe acquisì sempre maggiore importanza, conquistando nel 1220 un riconoscimento di parziale autonomia che gli consentì tra le altre cose anche di battere moneta propria, divenendo così a partire dal XV secolo importante svincolo commerciale. Al contrario, il fatto che la località sorga su una pianura alluvionale, a metà tra Carso ed Alpi, non aiutò granchè il suo progresso: nel corso dei secoli furono diversi gli episodi sismici che ne minacciarono l'esistenza, i peggiori furono il terremoto del 1511 che rase praticamente al suolo l'abitato ed il terremoto del 1895 che si stima distrusse il 10% degli edifici. La città venne comunque sempre ricostruita, prima seguendo i dettami dello stile rinascimentale, poi quelli della più moderna art nouveau. Nel 1918, con la dissoluzione dell'Impero Austro-Ungarico, Lubiana venne ricompresa nel Regno di Jugoslavia ma 23 anni più tardi, nel 1941, fu annessa dall'Italia fascista. Inutile dire che la popolazione non fu molto entusiasta di questo nuovo governo dittatoriale e montò di conseguenza un malcontento volto a generare rivolte e sommosse: fu così che i fascisti decisero di porre la città sotto coprifuoco, cintandone i confine con un reticolo spinato lungo 41km e vietando agli abitanti di lasciarne l'abitato. Ciò avvenne nella notte tra il 22 febbraio ed il 23 febbraio 1941. Le proteste non si fecero attendere: vennero arrestate 18.708 persone, 878 delle quali furono inviate in campi di concentramento. Da qui al 1943 la città venne appestata da un'atmosfera di terrore alimentata da esecuzioni sommarie che destinarono alla fucilazione più di 100 individui. Le cose non migliorarono per nulla con la ritirata italiana: arrivarono i nazisti e con loro iniziò l'esistenza della Slovensko Domobranstvo (la Guardia Territoriale Slovena), un corpo volontario paramilitare formato da collaborazionisti sloveni che operavano a sostegno dei nazisti per reprimere la locale resistenza partigiana. Addestrato direttamente dalle SS ed equipaggiato con le armi abbandonate nella ritirata dagli italiani, questo gruppo arrivò a contare ben 13.000 militanti la cui guida venne eletta nel sessantenne sloveno Leon Rupnik, in precedenza ufficiale dell'esercito jugoslavo. Nativo di Gorizia e formatosi presso prestigiose accademie militari austriache, costui non fu in verità schierato fin dall'inizio dalla parte peggiore, vale a dire quella dell'invasore: difatti, prima che la II Guerra Mondiale esplodesse, fu l'ideatore di una linea militare difensiva atta a proteggere la Jugoslavia dall'invasione nazi-fascista, fallita poi miseramente per incompletezza ed insufficiente equipaggiamento. A tradirlo furono invece le radicate convinzioni anticomuniste, il forte antisemitismo ed un legame particolare con il gerarca nazista Friedrich Reiner, sintomo di una simpatia per il III Reich che comunque precedette l'occupazione tedesca della Slovenia. Con la capitolazione tedesca del 1945 e la conseguente fine della II Guerra Mondiale, la maggior parte dei membri della Slovensko Domobranstvo fuggì in Germania seguendo la rotta dell'esercito nazista: molti di loro verranno rimpatriati poco più tardi per essere giustiziati nelle foibe carsiche dalle milizie comuniste dell'OZNA (Odeljenje za Zaštitu Naroda) che nel frattempo, guidate da Tito, avevano preso possesso della regione. Per quanto riguarda Rupnik invece, il 5 maggio 1945, tre giorni prima della resa incondizionata tedesca agli Alleati, riuscì a fuggire in Austria insieme ad un gruppo di una ventina di collaboratori. Scovato e catturato dagli inglesi il 23 luglio dello stesso anno, fu ricondotto in patria e sottoposto ad un processo, quindi condannato a morte con l'accusa di alto tradimento. Fu giustiziato per fucilazione il 4 settembre 1946, proprio presso un cimitero situato alla periferia orientale di Lubiana. Con l'avvento del periodo di governo socialista, la città divenne capitale della neonata Repubblica Socialista Slovena, integrata alla Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia e già proclamata in contumacia da Tito nel 1944 a conflitto ancora aperto. Il ruolo le sarà riconosciuto ufficialmente dal 1963 al 1991. Fu questo un periodo fiorente per Lubiana che divenne uno dei centri produttivi e culturali più importanti dell'intero stato federale. Ne è conferma il fatto che Josip Broz, nome di battaglia Tito, morì proprio a Lubiana il 4 maggio 1980 in conseguenza di complicazioni dovute ad una cancrena sviluppatasi su una malattia circolatoria delle gambe che rese necessaria anche l'amputazione di uno dei due arti: il corteo funebre che accompagnò verso Belgrado quello che fu il capo della Jugoslavia per 35 anni venne salutato da una folla di decine di migliaia di persone riversatesi per le strade della città slovena. Con l'indipendenza conquistata nel 1991, Lubiana entrò nell'era moderna, evolvendo un una città poliedrica ed a misura d'uomo, attenta all'ecologia ed intelligente: nel 2007 è stato pedonalizzato il centro storico e sono stati realizzati più di 200km di piste ciclabili, molti parchi ed aree pubbliche furono riqualificate da zone industriali dismesse o abbandonate. Tale evoluzione non fu però scevra da ostacoli e difficoltà: l'indipendenza slovena fu infatti una conquista tanto preziosa quanto sorprendente se si pensa alle piccole dimensioni di questo pacifico paese, riferimento perfetto alla classica parabola del piccolo Davide contrapposto al gigante Golia. A seguito della morte di Tito, La Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia conobbe un periodo di breve stabilità prima che le differenze etniche, linguistiche e religiose delle genti che ne componevano la popolazione ricominciarono a fremere per un'indipendenza da sempre ambita. Fu in questo scenario che nell'aprile del 1990 gli sloveni furono chiamati a pronunciarsi nelle prime elezioni democratiche del paese: a vincere fu il partito Demokratična Opozicija Slovenije (DEMOS), guidato dal dissidente antisocialista Jože Pučnik, da sempre oppositore del regime di Tito. Letterato di professione, era già stato imprigionato per sette anni, dal 1958 al 1963 e dal 1964 al 1966, per le proprie idee liberali e democratiche, periodo seguito da un esilio lungo 14 anni trascorso in Germania. Primo presidente della neonata repubblica slovena venne nominato invece Milan Kučan, volto noto della politica locale. L'entusiasmo indipendentista della Slovenia non venne certo visto di buon occhio dalle autorità jugoslave, il cui capofila all'epoca era il serbo Slobodan Miloševic, passato in seguito alla storia come protagonista di alcune delle pagine più cruente e drammatiche della storia balcanica. Il tentativo di repressione del moto separatista sloveno si concretizzò nel tentativo di smantellamento della Teritorijalna Odbrana, la milizia territoriale gestita in parte dai singoli stati federali, a favore della Jugoslovenska Narodna Armija, l'esercito federale jugoslavo: una manovra spudorata mirata a centralizzare il potere militare esautorando allo stesso tempo i singoli stati federali. La Slovenia insorse contro la decisione, cominciò ad allestire una forma alternativa di governo e difesa territoriale riorganizzando la Manevrska Struktura Narodne Zaščite (Struttura di Manovra per la Protezione Nazionale, istituzione già esistente ma antiquata) ed il 23 dicembre 1990 indisse un referendum sulla propria indipendenza, approvato con l'88% dei voti. Era guerra, favorita dalle posizioni incerte delle potenze occidentali che non appoggiarono mai pienamente il movimento separatista sloveno. L'indipendenza venne comunque ufficialmente dichiarata il 25 giugno 1991, un giorno prima della data dichiarata pubblicamente per la proclamazione: con questa anticipazione, il governo sloveno sperava di sorprendere la potenza jugoslava che si preparava già a reprimere con la violenza la manifestazione d'indipendenza. Lo stratagemma funzionò: solo due giorni più tardi l'esercito jugoslavo si mosse per occupare i confini sloveni e nel frattempo la repubblica nascente aveva avuto modo di organizzare la difesa, studiando una strategia di guerra asimmetrica basata su imboscate e rapidi attacchi. Il principale fautore di questa tattica fu il ministro della difesa Janez Janša, spinto dalla consapevolezza che il numero e l'equipaggiamento dell'esercito jugoslavo non sarebbero mai potuti essere pareggiati dalle capacità delle truppe slovene. Gli jugoslavi tentarono opere di intimidazione condotte attraverso il lancio di volantini su diversi territori sloveni; la risposta slovena fu l'abbattimento di due elicotteri jugoslavi nel cielo sopra Lubiana e l'attacco ad alcuni reparti dell'esercito avversario. Le ostilità proseguirono per una decina di giornate e si conclusero con la vittoria della guerriglia slovena e la resa dell'imponente macchina da guerra jugoslava: la cosiddetta Guerra dei Dieci Giorni lasciò fortunatamente sul campo poche vittime, 44 tra le fila jugoslave e 18 tra quelle slovene, bilancio gravato però da 12 decessi stranieri di persone completamente estranee al conflitto, principalmente giornalisti ed autotrasportatori bulgari di passaggio con i propri autocarri al momento dell'inizio degli scontri. Il 15 giugno 1992 la Slovenia fu finalmente riconosciuta come stato sovrano dalla comunità internazionale. L'indipendenza slovena fu la miccia che fece deflagrare la disgregazione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Dopo aver evitato il coinvolgimento nella guerra civile che decreterà la dissoluzione dello stato federale jugoslavo, la Slovenia entrerà a far parte dell'Unione Europea nel 2004, mentre nel 2007 adotterà l'Euro come moneta.
Cuore pulsante di questa nazione coraggiosa e fiera è la capitale Lubiana, una città vivibile e piacevole, moderna ed attenta all'ambiente, tanto da ricevere nel 2016 il Premio Capitale Verde Europea assegnato dalle autorità continentali per meriti ecologici: dal 2006, anno della sua istituzione, ad oggi, nessuna città italiana è stata capace di aggiudicarsi questo riconoscimento. Una meta imperdibile per qualunque viaggiatore che voglia conoscere la Slovenia e le sue perle: un luogo in cui lo Scultore di Paesaggi ha dato sfoggio di tutta l'eleganza e la sofisticatezza della propria manualità. Il punto di partenza per la nostra visita della capitale slovena è l'anonima Masarykova Cesta: un lungo vialone trafficato, poco da segnalare se non un grande parcheggio che offre comode opportunità di abbandonare l'automobile a breve distanza dal centro storico che per buona parte risulta interdetto alla circolazione automobilistica. Nonostante lo scarso fascino della via dalla quale cominciamo la nostra passeggiata però, basta attraversarla per arrivare alla prima interessante attrazione: un poco nascosto alla vista, raccolto in un piccolo spazio escluso dal traffico urbano, sorge il quartiere Metelkova.
Addensato intorno all'omonima via (la Metelkova Ulica), dietro bassi muri di cemento ricoperti di murales, questo è lo spazio urbano più alternativo ed anticonformista di Lubiana, capace di acquisire nomea di emergente attrazione turistica grazie alla sua atmosfera libera e creativa. In realtà le origini di questo quartiere sono ben più formali ed autoritarie, a partire dal nome, ereditato dal sacerdote cattolico e filologo Franc Serafin Metelko: vissuto a cavallo tra il XVIII secolo ed il XIX secolo, costui fu il promotore dell'introduzione nel paese di un nuovo alfabeto basato sui suoni fonetici delle parole e derivato dal dialetto carniolese. Siamo negli anni delle primitive ricerche identitarie da parte dei popoli illirici. La proposta di Metelko non fu mai approvata ed anzi venne fortemente ostracizzata da eminenti esponenti culturali sloveni, tra i quali Matija Čop, e nel 1835 venne invece adottato come idioma nazionale sloveno un alfabeto derivato dalla lingua latina e promosso dal linguista croato Ljudevit Gaj. Come se il nome non bastasse a contraddire lo spirito anticonvenzionale del quartiere, il luogo fu sede nel recente passato anche del comando cittadino prima dell'esercito austro-ungarico e poi di quello jugoslavo. Oggigiorno niente di più lontano anima il piccolo spazio dell'Avtonomni Kulturni Centre Metelkova Mesto, a tutti gli effetti un centro culturale a cielo aperto: i sette edifici principali che compongono il minuscolo quartiere, costruiti nel XIX secolo ed utilizzati in origine come caserme, ospitano oggi artisti e liberi pensatori, dopo che dal 1991 i reparti militari abbandonarono il sito che venne invece occupato dal collettivo culturale Mreža za Metelkovo, composto da intellettuali e studenti. Le autorità cittadine fecero orecchie da mercante e non contrastarono l'iniziativa, ma del resto non la autorizzarono mai ufficialmente. La situazione rimase ambigua fino al 1993, quando venne annunciato un progetto di riqualificazione dell'area che prevedeva anche la demolizione di alcune delle caserme abbandonate: la proposta alimentò subito il dissenso ed un gruppo di circa 200 volontari provenienti dal collettivo decisero di occupare illegalmente il sito prima che i lavori iniziassero, dichiarando dal 1995 il Metelkova zona autonoma autogestita. Ancora oggi le ruspe non sono ancora entrate nei suoi confini ed il quartiere è diventato un microstato artistico che vive secondo le proprie regole e con i propri ritmi.
Percorrendone le vie non è difficile rendersi conto che il Metelkova costituisce una realtà avulsa dal resto della città circostante, organizzata sul proprio disordine e vestita di un'affascinante decadenza, troppo lontana dalle regole ed originale all'eccesso: ne è riprova la dichiarazione di abusivismo emanata nel 2001 dalle autorità cittadine contro la realizzazione all'interno del quartiere di un edificio non autorizzato destinato a svolgere la funzione di scuola, poi demolito nel 2006. Il Metelkova è animato dalla logica dell'assurdo ed un anno prima di questi eventi, come un viaggio dalle stelle alle stalle in pochi attimi, era stato dichiarato patrimonio dell'umanità dall'UNESCO. Ospita attualmente le sedi di diverse organizzazioni non governative, oltre agli atelier di molti pittori e scultori. Qui si stima si tengano circa il 40% di tutti i concerti musicali organizzati a Lubiana. E' un luogo vivo e vivace, dotato di pensiero proprio e di passione inarrestabile, un terreno fertile dove crescono idee e legami sociali. Percorrerne le vie è come visitare una galleria d'arte dove i quadri alle pareti sono sostituiti da graffiti sui muri, di ogni genere e forma, dai temi e soggetti più disparati, una giungla di colori che avvolge chiunque ne attraversi lo spazio aperto. Gli abitanti del Metelkova non vedono di buon occhio il crescente interesse turistico suscitato dal quartiere, alcune scritte sulle pareti degli edifici a completamento dei murales espongono piuttosto chiaramente il concetto. Per questo lo si attraversa con un pizzico di apprensione, con la strana convinzione di non essere i benvenuti, impressione che comunque non suscita rammarico per aver deciso di visitarlo. Un luogo particolare che merita sicuramente uno sguardo.
Poco distante dal Metelkova sorge un altro baluardo culturale di Lubiana. Il Park Tabor è risultato di un'opera di riqualificazione urbana condotta in anni recenti. In passato questo piccolo spazio verde popolato da tigli ed aceri era inglobato all'interno di una più vasta piazza sopra la quale fin dal XVII secolo era usanza tenere compravendite di bestiame, funzione favorita dal collegamento diretto della piazza stessa con le vicine aree rurali, allora più prossime al centro storico e con il tempo distanziate dal proliferare della periferia. Con l'inizio della costruzione di un grande centro sportivo nel 1923, lo spazio della piazza venne eroso gradualmente ed una parte di essa fu riqualificata a parco pubblico. Oggi, dopo anni di trascuratezza e grazie a progetti di recupero urbano, la piccola area occupata dal Park Tabor offre ombra e quiete ai passanti, ma costituisce anche un importante polo culturale capace di supportare manifestazioni ed eventi, coinvolgendo attivamente nel loro svolgimento gli abitanti del quartiere circostante. Il carattere intellettuale e vivace di questo spazio è testimoniato da un coloratissimo murales presente sul muro di uno degli edifici di fondo, raffigurante un anziano signore dalla lunga barba bianca seduto su una logora poltrona e circondato da libri dalle copertine variopinte. Un altro simbolo distintivo del parco è la Vodnjak Jedro, una fontana in metallo raffigurante uno spaccato di sfera con un nucleo centrale, opera dello scultore sloveno France Rotar.
Ma a dominare il palcoscenico del Park Tabor è la Cerkev Srca Jezusovega, la Chiesa del Sacro Cuore di Gesù, con la sua sagoma appuntita e severa. L'impulso alla costruzione di questo tempio si deve ai Lazzaristi, stabilitisi a Lubiana su permesso imperiale nel 1879, ed in particolare ad uno di loro, Janez Kukovič: la Congregazione della Missione fu fondata a Parigi nel 1625 da San Vincenzo de' Paoli, assegnandosi come scopo primario la predicazione religiosa nei contesti rurali lontani dalle grandi città; il nome attribuito ai suoi membri trae origine da un sito di detenzione penitenziaria parigino intitolato a San Lazzaro che fu la prima sede della congregazione. La vicenda del santo francese fondatore di questa comunità religiosa potrebbe costituire materiale per un romanzo d'avventura: ordinato sacerdote a 19 anni di età, venne rapito da pirati turchi durante uno dei suoi viaggi e fu venduto come schiavo a Tunisi. Riuscì a convertire il proprio padrone, ritrovò la libertà e dalla sua esperienza di prigionia maturò il proposito di evangelizzare gli ultimi degli ultimi, carcerati e prigionieri. Per questa sua opera rivolta agli umili ed agli oppressi, venne proclamato santo da papa Clemente XII nel 1737. La costruzione della Cerkev Srca Juzesovega, in stile neogotico, iniziò nel 1881 e l'impulso al suo principio si deve proprio ai Lazzaristi. Nello stesso anno, ad opera ancora in corso, venne celebrata sul sito la prima funzione da Janez Zlatoust Pogačar, vescovo di Lubiana: all'occorrenza fu allestito un altare improvvisato protetto da un telo, dato che la copertura dell'edificio non era ancora stata ultimata. La consacrazione della chiesa avvenne invece nel 1883, anno in cui fu visitata anche dall'imperatore Francesco Giuseppe I d'Asburgo-Lorena. Risparmiato miracolosamente dal terremoto del 1895, l'edificio fu oggetto di restauro nel 1927, occasione in cui venne sostituito il tetto in ardesia multicolore con una copertura nello stesso materiale ma di tonalità uniforme.
La chiesa non fu invece risparmiata dalla violenta esplosione che si verificò presso la vicina stazione ferroviaria nel giugno del 1945, durante i festeggiamenti per la fine della II Guerra Mondiale: un carico di munizioni scoppiò accidentalmente e l'urto della deflagrazione mandò in frantumi le vetrate e danneggiò parte del tetto della Cerkev Srca Jezusovega, distante ben 500m dal luogo dello scoppio. Oggi la sagoma di questo tempio sorveglia il parco antistante, con la facciata contraddistinta da una balconata disposta sopra tre archi eretti a custodire i portali di accesso e sotto un'ampia vetrata ad arco acuto incorniciata di pietra. Completano la composizione il massiccio campanile realizzato nel 1883 ed una piccola colonna in marmo bianco posizionata all'apice della facciata, voluta dal canonico Anton Urbas che la fece installare nella seconda metà del XIX secolo. Una piccola campana custodita all'interno della colonna marmorea si aggiunge alle quattro campane di cui è dotato il campanile, tutte tranne una confiscate nel 1917 durante la I Guerra Mondiale e rimpiazzate dopo il termine del conflitto bellico. Ci lasciamo alle spalle il Park Tabor ed in capo a poche centinaia di metri arriviamo in Trubarjeva Cesta. E' questa una delle vie cittadine più simboliche di Lubiana: lunga appena 1km, è una delle strade più vivaci della capitale slovena, animata da numerosi negozi e ristoranti i cui ingressi si affacciano sulla via stessa. La menzione in documenti storici del 1802 la rende anche una delle strade più antiche della città moderna. Il suo nome deriva da Primož Trubar, letterato e religioso sloveno vissuto nel XVI secolo, considerato uno degli iniziatori della letteratura nazionale in virtù delle venticinque opere scritte in lingua slovena da lui pubblicate, principalmente traduzioni bibliche. A Lubiana condusse anche una tipografia che tra il 1561 ed il 1564 stampò 37 opere letterarie a tema religioso in lingua slovena, croata ed italiana. Trubar è anche ritenuto uno dei capostipiti del protestantesimo sloveno, divenendo pastore luterano dopo aver vestito l'abito di sacerdote cattolico. La denominazione attuale della Trubarjeva Cesta, omaggio a questo intraprendente personaggio di fede ed inchiostro, le venne conferita solo nel 1952; in precedenza il nome della via era Svetega Petra Cesta, confermando la vocazione religiosa dell'appellativo del luogo, in riferimento nello specifico a San Pietro. Ad accompagnare a corta distanza il decorso di questa strada è il fiume Ljubljanica, sulla cui riva sinistra si dipana proprio la Trubarjeva Cesta: questo breve corso fluviale dopo aver attraversato il centro storico della capitale slovena si getta nel fiume Sava, ad est di Lubiana, dopo un percorso di 41km di lunghezza. Con la città, della quale è uno degli emblemi, condivide anche la radice del nome, quasi a sottolineare un rapporto simbiotico che attraversa i secoli senza mutare il proprio carattere.
Percorrendo la Trubarjeva Cesta, affiancati dal Ljubljanica che scorre nasocto dalla fila di caseggiati che delimitano la via, si approda infine allo Zmajski Most, il Ponte dei Draghi, posizionato proprio a cavallo del fiume. Le peculiarità ed i primati di questa struttura architettonica superano forse per singolarità il mero valore del suo aspetto esteriore, già di per sè considerevole: fu infatti la prima costruzione in cemento armato realizzata a Lubiana ed uno dei primi ponti in questo materiale realizzati in Europa. Con 33m di diametro il suo arco era all'epoca della sua creazione il terzo più ampio a livello continentale; inoltre, la costruzione del ponte, portata a compimento nel 1907, consegnò alla Slovenia la sua prima struttura viabilistica realizzata con fondo in asfalto. Il lavori di costruzione dello Zmajski Most iniziarono nel 1900 durante il periodo di amministrazione cittadina del sindaco Ivan Hribar, esponente di spicco del nazionalismo sloveno e principale artefice della ricostruzione di Lubiana dopo il terremoto nel 1895. Personaggio animato da una potente passione politica, Hribar ricoprì il ruolo di primo cittadino della capitale slovena dal 1896 al 1910 e gli fu impedito un secondo mandato dall'imperatore Francesco Giuseppe I d'Asburgo-Lorena in persona a causa del forte patriottismo che spesso lo condusse ad assumere posizioni ostili verso la minoranza tedesca stabilitasi a Lubiana. Si suicidò all'età di 90 anni, nel 1941, gettandosi avvolto dalla bandiera jugoslava nelle acque del Ljubljanica, in segno di protesta contro l'occupazione fascista della città che aveva governato. Ai nastri di partenza del XX secolo, era lui a governare la capitale quando i lavori del Ponte dei Draghi iniziarono: lo scopo della struttura era quella di sostituire un precedente ponte in legno risalente al 1819 e danneggiato dal terremoto che cinque anni prima aveva devastato la città. Il progetto del nuovo ponte portava la firma dell'ingegnere austriaco Josef Melan, considerato uno dei pionieri dell'architettura dei ponti in cemento: in effetti il progetto avanzava importanti innovazioni per le tecniche edili dell'epoca, con particolare riferimento alla proposta di sostenere la struttura con un sistema di travi in acciaio piuttosto che tramite sbarre di metallo incorporate nel cemento. Il contributo austriaco non si fermò però alla progettazione, visto che a condurre i lavori di costruzione fu Alexander Zabokrzycky, connazionale di Melan, assistito dallo sloveno Filip Supančič. Tuttavia, a dare l'impronta caratteristica che il monumento tuttora mantiene fu l'architetto sloveno Ciril Metod Koch, il quale rilevò la direzione dell'opera dopo un periodo di lenta progressione dei lavori: sarà lui, tra i principali sostenitori dell'arte secessionista slovena, ad attribuire l'inconfondibile stile architettonico alla sagoma del ponte. Ciò che definisce maggiormente l'aspetto dello Zmajski Most sono infatti le statue in rame di quattro draghi posizionati su altrettanti piedistalli alle quattro estremità del ponte: disegnate da Jurij Zaninovic e prodotte a Vienna, queste sculture dovevano originariamente ritrarre dei leoni alati, sostituiti poi da quello che diventerà il simbolo assoluto di Lubiana tanto da comparire anche sullo stemma cittadino. Le quattro statue principali sono accompagnate da altre sculture minori in pietra e ritraenti sempre dei draghi, disposte lungo il percorso del ponte, insieme ad alcuni candelabri in bronzo posizionati ad illuminare il passaggio. Alle quattro statue in rame dei draghi vengono tra l'altro attribuiti dalla popolazione locale connotati magici: tradizione vuole che quando una giovane vergine attraversi il ponte i draghi abbandonino la propria rigida posa metallica iniziando ad ondeggiare le code. Inaugurato da Anton Bonaventura Jeglič, vescovo di Lubiana, lo Zmajski Most sarà aperto al traffico già nel 1901. Inizialmente il ponte venne intitolato all'imperatore Francesco Giuseppe I d'Asburgo-Lorena e solo nel 1991 cambiò il proprio nome in quello attuale. Il legame della città con la figura mitologica del drago ha radici leggendarie ed ancestrali: si narra infatti che l'eroe greco Giasone giunse con gli Argonauti nel territorio dell'odierna Lubiana dopo aver navigato prima lungo il Danubio e poi lungo il fiume Sava. Approdati sulla terraferma, i marinai avevano proseguito la marcia verso la patria a piedi trasportando la propria nave smontata in pezzi, con l'intento di riprendere la navigazione una volta raggiunte le coste del Mare Adriatico. Fu proprio nei pressi dell'area paludosa sulla quale sorgerà a secoli di distanza la capitale slovena che incontrarono una feroce bestia, un drago alato che divorava chiunque si avventurasse nel suo territorio rendendo quindi la zona inabitabile. Il mito racconta che gli Argonauti guidati da Giasone uccisero il drago e liberarono la regione dalla sua nefasta presenza, proseguendo poi il proprio viaggio verso la Grecia. Il Ponte dei Draghi commemora nel nome e nella forma il mito delle origini della città. Ristrutturato in calcestruzzo leggero tra il 1983 ed il 1984, rappresenta oggi uno dei più preziosi esempi europei di ponte in cemento realizzato in stile secessionista.
Dopo aver incrociato lo sguardo con i feroci draghi posti di guardia allo Zmajski Most, continuiamo la nostra visita mantenendoci sulla riva sinistra del Ljubljanica e proseguendo sulla Petkovškovo Nabrežje. I numerosi ristoranti con tavoli e sedie all'aperto animano questo viale ombreggiato da alcuni alberi frapposti tra la strada ed il parapetto rivolto al fiume, rendendolo uno spazio piacevole e vivace, il luogo perfetto per una pausa dalla passeggiata o magari per consumare il pasto calati nel flusso pulsante di una delle arterie più vitali della città. Valore aggiunto di questo spazio urbano è il fatto di essere pedonale ed interdetto al traffico automobilistico, dote che detiene dal 2022, anno in cui la sua area fu protagonista di un progetto di riqualificazione. All'interno della Petkovškovo Nabrežje si riversa il passaggio del Mesarski Most, il Ponte dei Macellai, prossimo allo Zmajski Most che vi dista poco più di 150m. La realizzazione di questo ponte pedonale, lungo 33m e largo 17m, risale ad un'epoca recentissima, vale a dire al 2010, ed a progettarlo fu l'architetto sloveno Jurij Kobe. La storia della costruzione del Mesarski Most custodisce anche un aneddoto che illustra perfettamente lo spirito ecologista di Lubiana: infatti, per erigerlo fu necessario estirpare un tiglio che da lungo tempo abitava la sponda del Ljubljanica, ma ad opera terminata un nuovo tiglio venne ripiantato in un punto prossimo a quello occupato dall'albero sradicato. Il profilo del ponte di per sè non mette in mostra nulla di appariscente ma il suo spazio è impreziosito da pregevoli sculture bronzee create dallo scultore Jakov Brdar e disposte qua e la lungo il passaggio: dai tratti moderni e quasi astratti, raffigurano Adamo ed Eva immortalati nella vergogna e nella disperazione, un satiro dalla coda appuntita e Prometeo con il torace dilaniato, punizione divina per l'emancipativo furto pirico. Oltre alle statue, ad abbellire il Ponte dei Macellai sono le due corsie in vetro disposte ai margini del camminamento: curiosamente, per evitare che il vetro venga danneggiato durante i mesi invernali dalle basse temperature e dalle gelate, questa parte del ponte viene coperta nella stagione più fredda con teli di gomma. Completano la struttura del ponte le basse balaustre composte da fili metallici ai quali sono allacciati decine di lucchetti, pegno amoroso lasciato in dote all'eternità. Il nome del Mesarski Most deriva dai banchi del mercato dei macellai che in passato si trovavano proprio di fronte al suo imbocco. A presidiare l'accesso al ponte, sulla riva opposta del Lubljanica rispetto alla Petkovškovo Nabrežje, sorge infatti l'Osrednja Ljubljanska Tržnica, il Mercato Centrale di Lubiana, con la sua sagoma bassa, bianca e stretta, adagiata proprio lungo il margine del fiume.
A progettarne la struttura fu Jože Plečnik, il quale ne disegnò i volumi distribuiti su due piani tra il 1931 ed il 1939. Il nome di Plečnik ricorrerà molto spesso passeggiando per le vie di Lubiana ed ammirandone le bellezze: considerato l'architetto sloveno più importante di tutti i tempi, dopo una formazione giovanile acquisita presso Vienna fu autore di diverse opere urbanistiche non solo in Slovenia ma anche in Austria, Serbia, Croazia e Boemia. Dal 1921 iniziò l'attività accademica presso la capitale slovena ed in questo periodo fu autore dei progetti di quelli che saranno alcuni degli edifici e dei monumenti più importanti della città. Con l'avvento della dittatura socialista jugoslava dopo la conclusione della II Guerra Mondiale, la fortuna di Plečnik conobbe un rapido quanto ingiusto declino: le sue idee stilistiche legate a canoni classicistici rinnovati nella sua originale visione delle forme, alle quali si aggiunse una convinta morale cattolica, non incontrarono il gusto di stampo propagandistico della nuova società politica. La sua attività creativa si ridusse enormemente e persino la carica accademica venne pesantemente messa in discussione. Nonostante ciò, fu lui a progettare la residenza estiva di Tito presso le Isole Brioni, in Croazia: quando si dice la coerenza! Tra le opere lasciate in eredità da Plečnik alla città di Lubiana c'è proprio l'Osrednja Ljubljanska Tržnica, portato a termine nella sua realizzazione tra il 1940 ed il 1942. Lo stile conferito alla struttura è quello rinascimentale, contraddistinto da fenestrature semicircolari lungo il lato rivolto verso il Ljubljanica e da un lungo colonnato lungo il versante interno. Con 1.876m² di superficie coperta, è il mercato pubblico più grande della capitale slovena: ospita al suo interno ristoranti e rivendite di prodotti alimentari.
Siamo passati sulla riva destra del Ljubljanica. Di fronte al mercato coperto si apre lo spazio urbano di Vodnikov Trg, un ampio piazzale intitolato alla memoria di Valentin Vodnik, religioso e letterato sloveno vissuto a cavallo tra il XVIII secolo ed il XIX secolo, fondatore, autore e redattore del primo giornale sloveno della storia, il Ljubljanske Novice, pubblicato a Lubiana tra il 1797 ed il 1800. Questa pubblicazione giornalistica fu distribuita con cadenza settimanale ed una tiratura di solo un centinaio di copie: di ideologia illuminista e patriottica, trattò tematiche eterogenee, dalla politica al giornalismo umoristico; nonostante fosse seguito regolarmente da appena 33 abbonati non serve sottolinearne il valore storico in termini di identità nazionale, linguistica e culturale. L'intitolazione della piazza a questo patriota sloveno non è causale: lo spazio di Vodnikov Trg era occupato in origine da un antico monastero francescano risalente al XIII secolo ma ricostruito agli inizi del XV secolo dopo che un incendiò lo danneggiò. Il monastero, dotato di una chiesa e davanti al quale era posizionato un camposanto riservato per lo più a sepolture aristocratiche, dovette condurre un'attività prospera e vivace se si pensa che nel 1668 la sua struttura venne ampliata per tenere il passo dell'aumento delle dimensioni della comunità monastica. Probabilmente per maggiori esigenze di spazio nel 1784 i Francescani abbandonarono il sito che venne riqualificato prima in ospedale ed in seguito in scuola. In questo periodo venne trasferito anche il cimitero antistante. Danneggiato gravemente dal terremoto del 1895, l'edificio fu demolito nel 1905 per lasciare spazio alla piazza nascente. All'intraprendente sacerdote che servì presso il monastero francescano e fu insegnante presso un vicino liceo, Valentin Vodnik per l'appunto, venne quindi intitolato il nome del luogo.
A suggellare il legame fu posto sulla piazza lo Spomenik Valentina Vodnika, una statua di bronzo che ritrae Valentin Vodnik con lo sguardo rivoto verso il piazzale. Opera di Alojz Gangle del 1889, riporta sul retro lungo la superficie del piedistallo di pietra che la sorregge i versi della poesia "Moj Spominik", composta dallo stesso Vodnik: "Ne hčere ne sina po meni ne bo, dovolj je spomina: me pesmi pojò" ("Non ci sarà nè figlia nè figlio dopo di me, basta il ricordo: canto canzoni"). Sul fronte invece, furono aggiunte nel 1929 i rilievi bronzei di una corona con al centro un fascio littorio e la sigla "RF", riferimento alla Francia repubblicana in allusione al sostegno del sacerdote letterato al periodo di occupazione napoleonico. L'inaugurazione di questo monumento venne considerata una tappa importante nel percorso di ascesa del nazionalismo sloveno: alla cerimonia seguirono tre giornate di festeggiamenti ai quali parteciparono migliaia di sloveni. Lo Spomenik Valentina Vodnika osserva dall'alto, al momento del nostro passaggio, i banchi del mercato all'aperto che occupano lo spiazzo di Vodnikov Trg, prolungamento scoperto dell'Osrednja Ljubljanska Tržnica, come se dal suo piedistallo volesse soppesare la qualità della mercanzia in mostra, di generi e tipologie più disparate, si spazia dal fruttivendolo al fotografo. Inizialmente l'opinione pubblica non vide di buon occhio l'associazione del monumento con il poco solenne mercato, vociante e godereccio. Ciò nonostante, oggi i banchi del mercato si allargano anche su Adamič-Lundrovo Nabrežje, uno corto viale ombreggiato che, costeggiando il Ljubljanica, in breve distanza conduce a Pogačarjev Trg, un piccolo piazzale intitolato a quello stesso Janez Zlatoust Pogačar, vescovo di Lubiana, il cui nome abbiamo già incontrato nella descrizione della Cerkev Srca Jezusovega: lo spazio per la realizzazione di questa piazza venne ricavato nel XVIII secolo dalla demolizione di alcune stalle che qui erano collocate insieme ad altri edifici agricoli, mentre il suo aspetto odierno lo si deve, manco a dirlo, a Jože Plečnik. Su Pogačarjev Trg si affaccia l'elegante facciata neorinascimentale del Palača Kresija: realizzato tra il 1897 ed il 1898 su progetto di Leopold Theyyer, questo palazzo ospita oggi alcuni uffici amministrativi ed una galleria d'arte. In precedenza qui si trovava un più antico edificio con funzione di ospedale e di ospizio per i poveri, citato in documenti storici già nel XIV secolo, poi a partire dal XVI secolo vi fu collocata una scuola nel cui contesto si tenevano anche attività formative per ostetriche, infine a partire dal 1811 i suoi spazi vennero assegnati a negozi ed abitazioni. Questo edificio originario andò perduto, insieme ad un'attigua chiesa intitolata a Santa Elisabetta, a seguito del terremoto del 1895. Il nome del Palača Kresija deriva dalla parola tedesca kreisamt, l'ufficio amministrativo distrettuale, per il quale il palazzo assunse il ruolo di sede dal 1816 al 1849, in periodo di sottomissione slovena all'Impero Austriaco. Da qui il passo è breve verso un altro luogo simbolo della città. Il Tromostovje è probabilmente il monumento che più di tutti si presta a comparire sulle cartoline provenienti da Lubiana. In effetti non si può dire certo che questa attrazione non detenga caratteristiche peculiari, forse addirittura bizzarre: è infatti un ponte a tre componenti, con un passaggio centrale affiancato da due più stretti corridoi laterali, separati ed indipendenti da esso, posti a convergere verso la sua estremità rivolta alla riva destra del fiume. Tale particolare disposizione vale al monumento il nome di Triplice Ponte, Tromostovje appunto in lingua slovena.
La presenza di un ponte a cavallo di questo punto del Ljubljanica risale all'epoca medievale: dal 1280 vi si trovava infatti un ponte in legno chiamato semplicemente Stari Most, letteralmente "ponte vecchio". Nel 1657 questo ponte ligneo venne distrutto da un incendio e fu sostituito da una struttura simile, sempre in legno, chiamata con poca fantasia dagli abitanti Novi Most: al centro del nuovo ponte venne innalzata una croce lignea nel tentativo di invocare protezione divina da nuovi roghi. Effettivamente l'idea funzionò ed il ponte arrivò indenne fino al 1842, anno in cui venne soppiantato da una nuova costruzione in pietra progettata dall'architetto italiano Giovanni Picco: intitolata inizialmente all'arciduca Francesco Carlo d'Asburgo-Lorena, secondogenito dell'imperatore Francesco II d'Asburgo-Lorena, l'opera andrà a costituire il passaggio centrale dell'attuale Tromostovje. La croce di legno che fino ad allora aveva protetto il Novi Most fu spostata presso la vicina Frančiškanska Cerkev Marijinega Oznanjenja, meritato riposo al fedele guardiano. Tra il 1931 ed il 1932 il ponte venne allargato con l'aggiunta dei due corridoi laterali, realizzati in calcestruzzo: a progettare l'ampliamento fu ovviamente Jože Plečnik, in collaborazione con Ciril Tavčar. Contestualmente a questi lavori, lungo il ponte vennero allestite massicce balaustre in pietra, impreziosite nella struttura da 642 colonnine, che presero il posto delle ringhiere di metallo che fino a quel punto avevano delimitato il passaggio. Inoltre, lungo i tre segmenti del ponte furono posizionati dei lampioni con base in pietra simili nella forma a candelieri, mentre i corridoi laterali vennero dotati anche di scalinate che dall'alto conducessero sulle rive del Ljubljanica dove furono piantumati alcuni pioppi. A discapito della sua fama, sorprendentemente il Tromostovje fu per decenni aperto non solo al transito automobilistico ma anche a quello tramviario: nel 1992 il ponte fu oggetto di ristrutturazione ma solo nel 2007 venne chiuso al traffico e reso pedonale. Non serve rimarcare quanto questo fondamentale cambiamento nella storia del monumento ebbe grandissima importanza nella sua preservazione, tanto che il suo fondo, originariamente composto d'asfalto, proprio nel 2007 venne sostituito da blocchi di granito. Sostare sopra il Tromostovje significa trovarsi perfettamente sull'ombelico della città, il suo fulcro, lo svincolo fondamentale dal quale transita la sua anima semplice e tranquilla ma allo stesso tempo vivida ed elegante. A condividere la responsabilità di rappresentanza verso questi significati, appiccicato al Tromostovje si posiziona un altro luogo fondamentale di Lubiana. Prešernov Trg è una delle piazze più vivaci della capitale slovena, uno dei suoi simboli più forti. Aperta e luminosa, il suo carattere sbarazzino è confermato dalla presenza di alcuni sottili tubi sospesi sopra il centro dello spiazzo, capaci di gettare una fresca pioggia artificiale sulla testa dei passanti accaldati dal Sole battente dell'estate. La sorpresa che suscita questa curiosa installazione è davvero insolita e devo ammettere che è inevitabile alzare lo sguardo verso l'alto con un pizzico di confusione, sentendo le gocce d'acqua cadere sul capo, constatando però che il cielo non presenta nemmeno una nuvola: un brevissimo viaggio per gli adulti verso lo stupore dei bambini ed un'occasione ovvia per i bambini di divertirsi giocando con l'acqua. Non solo per questa insolita attrazione, Prešernov Trg è uno degli spazi urbani più piacevoli che abbiamo incontrato nella nostra visita a Lubiana. L'aspetto attuale della piazza risale al XVII secolo anche se solo verso la metà del XIX secolo, dopo che le mura medievali della città furono abbattute per esigenze di spazio, la sua superficie venne lastricata in pietra.
A definirne l'identità è lo Spomenik Francetu Prešernu, una statua in bronzo dedicata a colui che è considerato il più grande poeta sloveno mai vissuto, France Prešeren: il monumento, realizzato nel 1905 da Ivan Zajec, raffigura il vate in piedi sopra un piedistallo di pietra preceduto da tre gradini, in una mano un libro, sopra il capo la mano di una musa sporta da un blocco di granito (scolpito da Alojzij Vodnik) pone dall'alto un ramo di alloro. Lungo la superficie del piedistallo sono posti alcuni rilievi in bronzo raffiguranti alcune scene tratte dalle poesie di Prešeren. L'immagine appare nell'insieme imponente, il monumento supera in altezza i 9m e solo la statua del poeta è alta 3,5m. L'idea di posizionare una scultura dedicata a Prešeren sulla piazza venne inizialmente avanzata da un gruppo di studenti nel 1889; dieci anni più tardi la proposta venne accolta ed il sindaco di Lubiana Ivan Hribar indisse un concorso pubblico per l'assegnazione dei lavori di realizzazione, a cui parteciparono ben sette candidati. L'opera fu subito molto sentita dalla popolazione locale, tanto che alla cerimonia di inaugurazione successiva al suo completamento parteciparono oltre 20.000 persone. Il monumento è protagonista anche di due curiosità: la prima riguarda l'albero di betulla posizionato accanto al complesso scultoreo, piantato dopo l'allestimento dell'opera con il fine di schermare la vista del corpo nudo della musa dalla vicina Frančiškanska Cerkev Marijinega Oznanjenja, la chiesa francescana con l'attiguo monastero. Evidentemente la vista delle spoglie forme femminili dovette conturbare non poco i poveri frati francescani che in esse avevano la possibilità di osservare le fattezze svelate della ballerina triestina Olimpia Pozatti, presa a modello per la realizzazione della statua. La seconda curiosità è inerente un piccolo bassorilievo con soggetto un busto femminile posto proprio di fronte allo Spomenik Francetu Prešernu, lungo il muro esterno al primo piano di un palazzo situato sul lato opposto della piazza, all'inizio della Wolfova Ulica: questa scultura ritrae Julija Primic, donna amata da Prešeren, la quale a partire dal 1822 abitò proprio presso l'edificio in questione. La storia romantica di questi due personaggi è materiale da romanzo: siamo nella prima metà del XIX secolo, il giovane Prešeren era solito frequentare Prešernov Trg in compagnia degli amici, impiegando il tempo a discutere di letteratura o trascorrendo semplicemente le giornate in compagnia. Dopo l'incontro ed il colpo di fulmine con una bella fanciulla che abitava proprio ai margini della piazza, Julija Primic per l'appunto, l'unico scopo del giovane poeta diviene quello di ammirarne il volto e per farlo cominciò metodicamente ad appostarsi ai bordi di Prešernov Trg rimanendo pazientemente in attesa di scorgerne il profilo attraverso la finestra della sua abitazione. Le prime parole rivolte all'amata si trasformano ben presto in versi di poesie, ma l'amore tra i due giovani non era destinato a trovare fortuna: Prešeren è un avvocato ma proviene da sua famiglia di umile estrazione, agricoltori carniolani, mentre Julija è figlia di una delle famiglie più rispettate della città e sposerà nel 1839 Jozef von Scheuchenstuel, rampollo di un importante avvocato bavarese. A riscatto di questa sorte avversa, oggi attraverso le due sculture che li ritraggono presso Prešernov Trg, luogo galeotto, i due innamorati potranno incrociare gli sguardi per l'eternità. Lo Spomenik Francetu Prešernu non è comunque l'unico elemento degno di nota che arricchisce Prešernov Trg, i cui ultimi lavori di restauro risalgono ad un'epoca recentissima, precisamente al 2007. Infatti, nel 1895, a seguito del terremoto che distrusse una buona parte della capitale slovena, l'architetto istriano Max Fabiani riprogettò e rinnovò alcuni degli edifici medievali che si affacciavano sulla piazza e che erano stati compromessi dall'evento sismico. Ancora oggi la piazza ospita comunque alcuni degli edifici storici più importanti di Lubiana, come l'Hauptmannova Hiša situata all'angolo sudoccidentale della piazza stessa: prestigioso esempio di architettura secessionista slovena, questo palazzo venne costruito a scopi commerciali ed abitativi nel 1873, inoltre fu uno dei pochi edifici della città a sopravvivere al terremoto del 1895. Agli inizi del XX secolo la costruzione fu rilevata dal commerciante di vernici Adolf Hauptmann, da cui il nome attuale palazzo, il quale nel 1904 ne commissionò la ristrutturazione all'architetto sloveno Ciril Metod Koch. Oggi l'Hauptmannova Hiša ospita all'interno delle sue sale un istituto bancario, ma soprattutto impreziosisce lo spazio di Prešernov Trg con la sua sagoma un po' strana, tagliata come una fetta di formaggio, contraddistinta da brillanti infissi colorati di verde e da un ampio tetto che ombreggia le pareti dell'ultimo piano decorate con motivi geometrici, situata con fare indeciso a metà tra la piazza e la Wolfova Ulica. Su un lato dell' Hauptmannova Hiša, un po' arretrata rispetto al suo ingresso, si trova sulla piazza una miniatura plastica in metallo della città di Lubiana, affiancata da alcune seduta in pietra. Più in là ancora, sullo sfondo, il confine tra Prešernov Trg e la Čopova Ulica è presidiato dalla sagoma color verde oliva della Frischova Hiša, costruita in stile art nouveau nel 1897 da Filip Supančič, impreziosita dagli eleganti rilievi e dalla sottile torretta laterale culminante in un tettuccio tondeggiante. Altro importante esempio di architettura secessionista slovena è l'Urbančeva Hiša, situata al polo opposto di Prešernov Trg a fungere da spartiacque tra Miklošičeva Cesta e la Trubarjeva Cesta che termina la propria corsa proprio confluendo nella piazza: la costruzione di questo palazzo risale al 1903, venne commissionata dal commerciante Feliks Urbanc e fu progettata dall'architetto austriaco Friedrich Sigmundt. Ospitò il primo grande magazzino di Lubiana, ruolo che mantiene tutt'oggi. Urbanc morì nel 1937 all'età di 87 anni e nel 1945, a seguito della conclusione della II Guerra Mondiale, i suoi possedimenti vennero espropriati e nazionalizzati, tra di essi anche la Urbančeva Hiša. Da ammirare l'ingresso principale del palazzo sormontato da una tettoia di metallo e vetro in stile art nouveau, richiamante nei tratti dei petali disposti a ventaglio, oltre alla statua del dio romano Mercurio, patrono dei commercianti, posta al culmine della facciata. L'aspetto dell'edificio è frutto anche delle opere di restauro che lo riguardarono tra il 2009 ed il 2010. Di fronte ad esso, sempre affacciato su Prešernov Trg, si erge il volume pieno e compatto della Centralna Lekarna, la Farmacia Centrale. Conosciuto anche con il nome di Mayerjeva Palača dal nome del personaggio che ne commissionò la costruzione, il farmacista Joseph Mayer, questo edificio venne progettato nel 1896 da Ferdinand Hauser e fu ultimato nella sua costruzione da Gustav Tönnies prima della fine del XX secolo. Apprezzabile esempio di architettura neorinascimentale, degna di citazione è la sua facciata, opera di Filip Supančič, elemento che contribuisce all'inserimento dell'edificio nell'elenco dei monumenti nazionali sloveni. Oggi il palazzo ospita le sale della principale farmacia cittadina ma fino alla II Guerra Mondiale fu sede anche di una caffetteria, punto di ritrovo di intellettuali e letterati. L'elemento architettonico però più imponente e dominante su Prešernov Trg è sicuramente la Frančiškanska Cerkev Marijinega Oznanjenja, la Chiesa Francescana dell'Annunciazione di Maria, situata all'estremità settentrionale della piazza. La sua figura appariscente di un vivace color rosso, contornata da pilastri bianchi con capitelli ionici e corinzi incorporati nella struttura, cattura sicuramente lo sguardo e non può che entrare di prepotenza nei ricordi più duraturi di qualsiasi visita di Lubiana. La sua prima costruzione in stile barocco, condotta da Francesco Olivieri insieme a Francesco Rosina, risale ad un periodo compreso tra il 1646 ed il 1660, mentre l'aspetto attuale della facciata è risultato di una ristrutturazione condotta nel 1858 da Franz von Kurz zum Thurn und Goldenstein su un allestimento precedente risalente agli anni compresi tra il 1703 ed il 1706. Proprio in occasione di questi ultimi lavori venne attribuito alla costruzione il tipico colore rosso a sostituire la precedente tonalità neutra bianca. I due campanili posti sui lati risalgono invece al 1720. La chiesa, a navata unica con due file di cappelle laterali, fu in seguito danneggiata dal terremoto del 1895 e richiese interventi di restauro che coinvolsero anche i pregevoli affreschi interni dipinti da Matevž Langus tra il 1845 ed il 1855, rinnovati dal pittore sloveno Matej Sternen solo nel 1936. Gli ultimi lavori di conservazione sull'edificio furono condotti in epoca più recente, nel 1961 e più avanti tra il 1992 ed il 1993. Al culmine della facciata si innalza oggi una statua in rame, con soggetto la Madonna con Bambino, creata da Matej Schreiner, Franz von Kurz zum Thurn un Goldenstein e Franc Ksaver Zajec, quest'ultimo autore solamente dei volti e delle mani della scultura: questa immagine sostituì nel 1858 una precedente statua lignea, sempre a tema mariano. Altre tre statue sono ospitate in nicchie ricavate lungo la facciata, una sopra il portale principale raffigurante Dio ed altre due sopra i portali laterali raffiguranti Santa Maria ed un angelo: sono tutte opera dello scultore Paolo Callalo. La corta scalinata che collega l'ingresso della Frančiškanska Cerkev Marijinega Oznanjenja al centro di Prešernov Trg è affiancata da bassi alberi da fusto, posti quasi a voler schermare la quiete del tempio dal trambusto incessante della piazza. Accanto alla chiesa, vera e propria appendice che da essa si allarga verso la Čopova Ulica, si staglia la massa anonima del Frančiškanski Samostan, il monastero francescano fondato nel 1233 ma trasferito nella sede attuale da Vodnikov Trg nel corso del XVIII secolo: la sua biblioteca custodisce circa 70.000 volumi antichi tra i quali numerosi manoscritti medievali.
Abbandoniamo Prešernov Trg e proseguiamo la nostra visita di Lubiana. Attraversiamo nuovamente il Tromostovje e lungo la riva opposta del Ljubjanica incontriamo subito il Filipov Dvorec, posizionato proprio di fronte al Triplice Ponte: si tratta di un palazzo progettato dall'architetto Leopold Theyer in stile neorinascimentale e completato nel 1898. A commissionarne la costruzione fu il commerciante Filip Schreyer, dal quale l'edificio trae il nome. Da qui, attraverso l'ampia ed assolata Stritarjeva Ulica si penetra nel nucleo medievale di Lubiana, lo Staro Mesto, la parte più antica della capitale slovena, raggiungendo in capo a 120m Mestni Trg. Da qusto luogo emerse anticamente il primitivo embrione della città, in origine cinto da mura e già citato in documenti storici del 1243, compreso naturalmente tra il fiume Ljubljanica da un lato e la collina che ospita il castello dall'altro: qui in passato veniva tenuto il mercato cittadino, prima che venisse spostato in epoca moderna presso l'Osrednja Ljubljanska Tržnica e l'attigua Vodnikov Trg. Più che una piazza è questo un vialone lungo circa 200m, ma a discapito della sua scarsa attrattiva estetica questo spazio costituisce senza dubbio uno dei luoghi più importanti e significativi di Lubiana, l'anima del suo centro storico, uno dei punti di germinazione dai quali si sviluppò con il tempo l'intera città. Non a caso su di essa si affaccia la Ljubljanska Mestna Hiša (chiamata anche Ljubljanski Rotovž), l'edificio che ospita il municipio della capitale slovena. Realizzato inizialmente in stile gotico su progetto di Peter Bezlaj nel 1484, il palazzo venne poi ristrutturato in stile barocco veneziano tra il 1717 ed il 1719 da Gregor Maček e dall'italiano Carlo Martinuzzi. Dagli anni '20 del XX secolo e fino al 1941 l'ingresso dell'edificio era presidiato da una statua raffigurante Pietro I Karađorđevic, re di Serbia, opera di Jože Plečnik, scelleratamente distrutta dai soldati italiani durante il periodo di occupazione fascista della città. Quello che non venne invece demolito fu il piccolo drago dorato, simbolo di Lubiana, collocato sopra una banderuola sul culmine della torre dell'orologio posta a sormontare la facciata del palazzo, forse troppo in alto per essere raggiunto dalla bieca ignoranza di chi non si fece scrupolo di disonorare la storia e le tradizioni di interi popoli. Dirimpetto alla rigidità istituzionale, sul lato opposto della via, si affaccia alla Ljubljanska Mestna Hiša la Krisperjeva Hiša, casa natale della già citata Julija Primic che vi venne alla luce nel 1816. Qui risiedette tra il 1881 ed il 1882 anche il compositore austriaco Gustav Mahler nel periodo in cui ricopriva l'incarico di direttore d'orchestra presso il Slovensko Narodno Gledališče Opera in Balet Ljubljana, il teatro cittadino. Poco più in là, lungo lo stesso lato di Mestni Trg, si affaccia infine la Souvanova Hiša, una residenza borghese in stile barocco realizzata nel corso del XVII secolo e ristrutturata su progetto dell'architetto italiano Francesco Coconi nel 1827: si tratta del migliore esempio di architettura in stile Biedermeier di tutta Lubiana. Oltre ad essere l'edificio più alto della piazza, mette in mostra lungo la facciata anche alcuni pregevoli bassorilievi scolpiti da Martin Kirschner. Il resto di Mestni Trg è composto da eleganti edifici in stile barocco, lo stile architettonico dominante in questa piazza, frutto di una radicale opera di ricostruzione condotta tra il XVII secolo ed il XVIII secolo dopo che la maggior parte degli edifici affacciati sullo spiazzo fu gravemente danneggiata dal terremoto del 1511. Queste appariscenti costruzioni dalle facciate non prive di sfarzo testimoniano ancora oggi come in antichità Mestni Trg fosse, oltre che centro amministrativo della città, anche la zona abitativa della ricca borghesia locale.
A confermare la vocazione aristocratica della piazza sorge proprio accanto alla Ljubljanska Mestna Hiša la Vodnjak Treh Kranjskih Rek, vale a dire la Fontana dei Tre Fiumi Carniolani, mirabile esempio di scultura barocca, uno dei simboli più conosciuti non solo di Lubiana ma anche dell'intera Slovenia. E' conosciuta anche con l'appellativo di Robbov Vodnjak dal nome dello scultore che la realizzò nel 1751, il veneziano Francesco Robba. Nato nel 1698 nel capoluogo veneto e formatosi presso la bottega di Pietro Baratta, questo apprezzato scultore barocco nel 1716 si traferì in giovanissima età presso Lubiana, dove lavorò sotto la guida di Luka Mislej. Dopo averne sposato la figlia Theresa nel 1722, Robba rilevò anche l'attività del maestro a seguito della morte di quest'ultimo avvenuta nel 1727, divenendo con il tempo uno dei più quotati artisti della città. Dal 1730 il suo lavoro, caratterizzato dalla grande espressività dei soggetti, acquisì connotati d'eccellenza, procurandogli commesse importanti e critiche lusinghiere. La sua fama nell'ambiente aristocratico ed ecclesiastico della capitale slovena gli valse l'assegnazione della cittadinanza onoraria e nel 1743 la nomina nell'organo amministrativo cittadino. Ciò non fu sufficiente comunque a trattenerlo a Lubiana nè a procurargli ricchezza duratura, dal momento che morì in umili condizioni nel 1758 presso Zagabria, luogo che aveva eletto come proprio ultimo rifugio. La Vodnjak Treh Kranjskih Rek è probabilmente il più importante esemplare della sua produzione, l'ultima delle sue creazioni lasciate in dote a Lubiana: realizzata in marmo di Carrara, è composta da tre figure maschili che reggono tra le mani altrettante brocche dalle quali defluisce l'acqua, allegoria dei tre principali fiumi della Gorenjska, il Ljubljanica, la Sava ed la Krka. Ai piedi della vasca della fontana si innalzano cinque gradini a simboleggiare le montagne carniolane. Al centro, un obelisco realizzato in marmo locale svetta verso l'alto per 10m. Tutelata come monumento nazionale dal 2001, la Fontana dei Tre Fiumi Carniolani venne restaurata nel 2006 ed in occasione di questi lavori di conservazione l'opera originale venne traslata presso la Narodna Galerija e sostituita sulla piazza da una copia. Il percorso a quadrilatero che abbiamo percorso inoltrandoci nel centro storico di Lubiana si conclude imboccando da Mestni Trg la Ciril-Metodov Trg, animata da ristoranti e caffetterie oltre che da un vivace viavai di persone, ed in capo a circa 200m siamo nuovamente in Vodnikov Trg. Fermata obbligata in quest'ultimo tratto è la Stolnica Cerkev Svetega Nikolaja, l'unica cattedrale presente nella capitale slovena.
Sul luogo in cui oggi sorge questo edificio, a metà tra Ciril-Metodov Trg e Pogačarjev Trg, spartiacque tra le due piazze che comunicano attraverso di esso, sorgeva in origine una chiesa romanica la cui prima menzione in documenti storici risale al 1262: costruita in onore a San Nicola (patrono dei pescatori) dai barcaioli che erano soliti percorrere il vicino fiume, venne distrutta da un incendio nel 1361 ed in seguito venne ricostruita in stile gotico. Nel 1469, otto anni dopo aver ricevuto alcuni rimaneggiamenti strutturali e dopo essere stata elevata a rango di cattedrale, la chiesa fu nuovamente vittima delle fiamme, questa volta a probabile origine dolosa e con imputazione della colpa ai turchi: infatti, nel XV secolo e nel XVI secolo non furono poche le incursioni ottomane in Slovenia motivate da mire espansionistiche e dal desiderio di conquista. A ridonare splendore alla chiesa fu l'architetto e monaco gesuita Andrea Pozzo, importante esponente del barocco italiano, disegnando una nuova struttura con pianta a croce latina: fu questo progetto a donare alla chiesa l'aspetto che conserva ancora oggi. I lavori iniziarono nel 1701 e vennero portati a termine nel 1706, mentre la cupola, opera di Matej Medved e Jurij Pajk, venne data alla luce nel 1841. Il ritardo con la quale venne realizzata quest'ultima struttura va imputato probabilmente alla mancanza di materie prime ed all'ingente costo di quelle disponibili, in un periodo storico in cui la richiesta era molto alta dal momento che molte opere architettoniche, soprattutto di stampo religioso, vennero intraprese in città. A ciò si aggiunge la carenza di competenze tecniche, soprattutto in relazione al fatto che la realizzazione di una struttura di questo genere costituiva un'assoluta novità per Lubiana. Per questi motivi inizialmente al posto della cupola venne posta sul culmine della cattedrale una calotta realizzata in legno, completata sotto la direzione di Gregor Maček e che sorprendentemente rimase al proprio posto per quasi un secolo e mezzo. Circostanza bizzarra, si tramanda che per rendere le pareti più forti e resistenti, alla calce utilizzata per amalgamare la pietra locale che compone le opere murarie dell'edificio venne mischiato del vino: realtà o finzione, nessuno può dirlo, è questione di fede.
All'interno, la Stolnica Cerkev Svetega Nikolaja mostra senza dubbio la sua forma migliore, arricchita di opere d'arte che ne impreziosiscono il ricco patrimonio. E visto che non c'è arte senza influenza italiana, la maggior parte degli affreschi barocchi che decorano le pareti interne della chiesa sono opera del lombardo Giulio Quaglio, primo introduttore a Lubiana della pittura illusionistica, che li compose in due tempi tra il 1703 ed il 1706 e più avanti tra il 1721 ed il 1723. Mirabile è il suo affresco disposto lungo la volta della navata a raffigurare il tema della glorificazione di San Nicola e della persecuzione contro i cristiani perpetrata dagli imperatori romani Nerone e Diocleziano. Quest'ultimo ordinò nel 305 d.C. proprio la cattura del santo, il quale rimase imprigionato per otto anni venendo poi liberato per intercessione di Costantino. Dinamici ed equilibrati, dotati di vivide tonalità di colore, questi dipinti costituiscono senza dubbio uno dei punti salienti e più sorprendenti della cattedrale. Altre decorazioni vennero dipinte nel 1711 dai fratelli veneziani Paolo Groppelli e Giuseppe Groppelli lungo una delle pareti laterali della navata. A Francesco Robba sono invece attribuite le sculture in marmo di due putti, realizzate tra il 1745 ed il 1750, posizionate a lato di un altare nel transetto. Altra firma presente all'interno della cattedrale è quella di Angelo Pozzi, autore di diverse opere tra le quali anche il ritratto del 1715 con soggetto il diacono Janez Anton Dolničar, principale promotore dell'ultima ricostruzione della cattedrale, morto nel 1714 appena in tempo per vedere ultimata l'opera da lui patrocinata. Gli affreschi della cupola sono invece attribuiti a Matevž Langus, considerato l'ultimo artista barocco sloveno, eccezione alla regola in un'epoca in cui l'Italia faceva scuola in qualunque dimensione legata all'arte.
Il bellissimo complesso di affreschi della cattedrale venne ripulito e restaurato nel 1859; meno di un secolo più tardi, nel 1948, furono invece rinnovate le vetrate ad opera di Ivan Vurnik e Stane Kregar, quest'ultimo si occupò in particolare della vetrata posizionata nel presbiterio. Il più recente contributo all'arredo artistico della cattedrale venne fornito nel 1952 da Jože Plečnik, il quale progettò la cattedra vescovile, donò il sedile posto sull'altare maggiore e restaurò una delle cappelle laterali, quella posizionata a lato del pulpito. Nuovi restauri vennero condotti tra il 1969 ed il 1971 soprattutto sul presbiterio, mentre un ulteriore intervento di conservazione fu condotto sugli affreschi della volta tra il 2002 ed il 2007. Solitamente quando si legge la descrizione di una cattedrale ci si immagine un edificio maestoso, vasto, imponente; la Stolnica Cerkev Svetega Nikolaja è al contrario una cattedrale raccolta, minuta, placida, caratteristiche che ne accentuano la bellezza e ne esaltano il significato. L'anima quieta e gentile di questa chiesa la si scorge nella facciata, affiancata da due torri, quasi nascosta alla vista e rifugiata a ridosso degli edifici attigui, comunicante con l'esterno per mezzo di un pregevole portale bronzeo creato nel 1996 da Tone Demšar in occasione dell'anniversario del 1.250° anniversario della cristianizzazione della Slovenia. La religione cristiana nel paese venne infatti portata nel 753 d.C. dal monaco irlandese San Modesto su mandato del vescovo di Salisburgo. Alla Ciril-Metodov Trg la cattedrale offre invece un fianco, che non passa certo inosservato per un altro bellissimo portale bronzeo opera dello scultore bosniaco Mirsad Begic che lo creò nel 1996, in occasione della visita a Lubiana di papa Giovanni Paolo II avvenuta nel maggio dello stesso anno. Il portale mostra in rilievo la figura di Cristo deposto dalla Croce sormontata dai ritratti dei vescovi di Lubiana: Stanislav Lenič, in carica dal 1968 al 1988; Anton Bonaventura Jeglič, in carica dal 1898 al 1930, una delle guide fondamentali per lo sviluppo dell'identità religiosa, culturale e politica nazionale slovena; Jožef Pogačnik, vescovo di Lubiana dal 1963 al 1980; Alojzij Šuštar, l'unico dei personaggi ancora in vita al momento della realizzazione del portale della cattedrale, in carica come vescovo dal 1980 al 1997. Tra i ritratti scolpiti sul portale laterale della cattedrale c'è anche quello di Gregorij Rožman, vescovo di Lubiana dal 1930 al 1959, passato alla storia più che altro per la simpatia, mai occultata, verso gli occupanti nazifascisti durante lo svolgimento della II Guerra Mondiale. Fu suo malgrado uno dei protagonisti del moto di protesta allestito nel 1943 dalle donne imparentate con gli abitanti della città deportati dai fascisti italiani verso campi di prigionia e detenzione: si radunarono proprio davanti alla cattedrale invocando l'intervento di Rožman, evidentemente senza ottenere la risposta sperata. A memoria di questi eventi, a guerra conclusa, verrà eretta una colonna a lato della cattedrale che però sarà spostata per ragioni di restauro nel 1991 senza poi più ritornare in seguito al proprio posto. Gli spietati ideali politici di Rožman alla lunga non gli procurarono però fortuna: al termine del conflitto bellico fuggirà dalla Slovenia senza il permesso papale ma mantenendo la propria investitura; morirà a Cleveland nel 1959. L'ultimo ecclesiastico ad essere ritratto sul portale laterale della Stolnica Cerkev Svetega Nikolaja è Anton Vovk, primo arcivescovo di Lubiana, carica che mantenne dal 1961 al 1963 seppure già dal 1959 fu vescovo della capitale slovena, pronipote di France Prešeren (la nonna era la sorella del poeta) con il quale condivise il luogo di nascita presso una piccola abitazione nel villaggio di Vrbi. Di ben altra pasta e decisamente di differenti ideali rispetto al proprio predecessore, fu perseguitato dal regime comunista in un'epoca in cui le autorità politiche non vedevano di buon occhio l'istituzione religiosa, e questo nonostante Vovk non collaborò mai con le forze di occupazione nazifasciste durante il decorso della II Guerra Mondiale. Il 20 gennaio 1952 è la data che cambiò drasticamente l'esistenza di Vovk, non in meglio di certo: diretto a Stopiče insieme ai sacerdoti Fran Kimovec e Fran Čampa per benedire l'organo della chiesa locale, giunto alla stazione ferroviaria di Novo Mesto venne aggredito da una folla di persone che cominciò ad insultarlo e malmenarlo. L'accusa rivolta al religioso era quella di aver collaborato con le autorità d'occupazione nazifascista per la deportazione degli sloveni durante il periodo bellico appena trascorso. Uno degli aggressori, tale Avgust Mežnaršič, di professione ispettore stradale, cosparse Vovk con della benzina mentre un complice che in seguito non fu mai identificato gli diede fuoco gettandogli addosso un fiammifero. Vovk riportò ustioni e ferite gravissime, fu salvato dal linciaggio dall'intervento di alcuni poliziotti e solo diverse ore dopo l'aggressione venne trasportato a Lubiana per ricevere le dovute cure. A salvarlo da un destino peggiore fu la temperatura rigida di quella maledetta giornata invernale, tanto fredda che il vescovo prima di scendere dal treno vestì dei pesanti guanti di pelle, rivelatisi provvidenziali nel momento di slacciare i bottoni della giacca avvolta dalle fiamme per allontanarla da sè. La verità che verrà consegnata alla storia è che Vovk non mostrò mai simpatie o legami di collaborazione con fascisti o nazisti, ma questo episodio fotografa in modo crudo e sincero il clima di tensione ed odio che caratterizzò la Jugoslavia del dopoguerra. Si scoprirà che i mandanti dell'attentato furono proprio i vertici del partito socialista al potere ed il mezzo utilizzato quello della UDBA, la polizia segreta jugoslava, mentre Mežnaršič sarà l'unico imputato per la vicenda e verrà sì condannato dopo regolare processo ma appena a dieci giorni di reclusione, peraltro mai scontati. Vovk invece morirà undici anni dopo e sarà beatificato nel 1999. Tornando al portale laterale della cattedrale, i volti scolpiti di questi sei vescovi si inchinano sul corpo disteso di Cristo, nel mezzo alcuni teschi stilizzati simbolo della caducità della condizione umana, nella parte inferiore sono ritratti i resti della prima comunità cristiana di Iulia Aemona, su un lato è raffigurata una brocca d'acqua simbolo di purificazione e rinnovamento, in un angolo sulla destra si intravede l'effige di Santa Maria Ausiliatrice patrona della Slovenia, nell'angolo opposto un'allegoria della resurrezione. Completa la composizione un rilievo raffigurante la Santa Trinità posto nella lunetta sopra la cornice del portale, opera anch'essa di Mirsad Begic. Il portale laterale della Stolnica Cerkev Svetega Nikolaja è senza dubbio uno dei punti più attraenti per i visitatori che giungono ad ammirare la cattedrale, per buona parte in virtù della sua bellezza, in certa misura forse anche per il pagamento di 2€ richiesto per visitare l'interno della chiesa, circostanza che scoraggia molti dal superare il portale rimanendo minuti interminabili davanti ad esso in attesa del momento buono nel viavai di gente per scattare una fotografia ricordo. A guardare con maggiore attenzione, altri elementi degni di nota adornano egregiamente la parete meridionale della cattedrale, a cominciare dall'affresco con soggetto l'Annunciazione realizzato da Giulio Quaglio e restaurato nel 1872 da Janez Wolf. Sui due lati di questo dipinto, ospitate in due piccole nicchie, si stagliano le immagini scolpite di San Ermagora e San Fortunato, opera dello scultore France Zajca: rispettivamente vescovo di Ogle e suo diacono, vissuti nel corso del I secolo d.C., questi due santi vennero catturati, torturati e decapitati a seguito delle persecuzioni cristiane promosse da Nerone. A sinistra del portale laterale, in una nicchia è ospitata una statua con soggetto la Pietà, copia di una scultura del 1448 proveniente probabilmente dall'altare della precedente chiesa gotica. Completano il palinsesto alcune lapidi di epoca romana provenienti dai siti archeologici dell'antica Iulia Aemona, posizionati lungo la parete meridionale della cattedrale per volere di Janez Gregor Dolničar con lo scopo di rievocare per mezzo di esse la memoria delle origini di Lubiana: una di esse è dedicata al culto di Ercole, due invece costituiscono probabilmente dei falsi. Avvocato e storico vissuto a cavallo tra il XVII secolo ed il XVIII secolo, Dolničar fu forse il più importante mecenate e intermediario collegato agli artisti impiegati nelle decorazioni della cattedrale. Tutto questo grande patrimonio di bellezza, custodito nel piccolo spazio della Stolnica Cerkev Svetega Nikolaja, è valso alla cattedrale nel 2008 la nomina a monumento culturale di importanza nazionale. E' sicuramente uno dei punti cruciali ed imperdibili di qualunque vista della capitale slovena.
Il percorso a quadrilatero che avevamo cominciato davanti al Mercato Centrale di Lubiana si chiude tornando proprio in Vodnikov Trg, al punto di partenza, percorrendo gli ultimi 100m che separano la cattedrale da questa piazza. Ma la nostra visita di Lubiana non è ancora pronta a concludersi: ritornando sui nostri passi facciamo ritorno in Stritarjeva Ulica. Qui, proprio di fronte a Mestni Trg, ferma il trenino elettrico turistico Urban che con un itinerario circolare della durata di circa un'ora e mezza accompagna i visitatori attraverso alcuni dei luoghi più significativi situati ai margini del centro storico della città: il prezzo del giro è di 10€ per gli adulti e di 6€ per i bambini di età compresa tra i 3 anni ed i 12 anni, audioguida compresa. Un modo comodo di raggiungere punti della capitale altrimenti difficili da raggiungere a piedi, soprattutto con due bambine al seguito. Ne approfittiamo e ci accomodiamo sugli afosi sedili del trenino. L'itinerario comincia abbandonando lo Staro Mesto ed imboccando la salita lungo la Grajska Planota: questa collina, alta appena 340m e coperta di vegetazione, appare simile ad un bottone verde cucito al centro del tessuto urbano della capitale slovena. La presenza dell'uomo sopra questo basso rilievo è antichissima e si stima che risalga a circa il 1200 a.C., epoca in cui qui vennero costruiti i primi insediamenti, evoluti poi in epoca romana in una struttura fortilizia. Oggi di queste antiche vestigia non rimane pressochè nulla, ma a dominare la collina dalla sua sommità è invece il Ljubljanski Grad, il Castello di Lubiana, la prima fermata del nostro itinerario a bordo del trenino turistico. Eretto originariamente in legno e pietra come fortezza medievale nel periodo compreso tra l'XI secolo ed il XII secolo, questo sito, collocato come un possente cuore pulsante dentro il petto della città, costituisce senza ombra di dubbio il simbolo più potente della capitale slovena, tanto da comparire nello stemma cittadino insieme al già citato drago alato. A detenere il possesso della fortezza fu fino al 1144 il casato tedesco degli Spanheim, investiti della carica di duchi di Carinzia dal 1122 al 1269. In seguito il castello divenne proprietà di Ottocaro II re di Boemia, il quale lo mantenne dal 1270 al 1278, anno in cui ascese al trono di Germania Rodolfo I d'Asburgo, incoronato a discapito proprio di Ottocaro II, suo concorrente: con questa nomina verrà posto termine ad un periodo di instabilità politica che perdurava dal 1272, anno della morte di Heinz von Hohenstaufen, ultimo esponente maschile di questo casato che per più di 130 anni detenne il titolo di imperatore del Sacro Romano Impero. Nel corso del XV secolo, epoca di invasioni turche, il castello subì importanti e radicali modifiche: la struttura venne quasi completamente demolita e ricostruita, inoltre venne fornita di una cinta muraria, torri difensive ed un ponte levatoio. Nel corso del XVI secolo e del XVII secolo il castello assunse l'aspetto che possiede oggigiorno con la costruzione di ulteriori edifici all'interno dell'area del cortile. A partire da quest'epoca la fortezza assunse la funzione di arsenale, ruolo che svolse fino al XVIII secolo. Venne occupata nel 1797 e nel 1809 dalle truppe francesi guidate da Napoleone Bonaparte: in tale periodo le sue sale saranno utilizzate come caserma ed ospedale da campo. Nel 1815 ritornò possedimento austriaco e venne trasformata in una prigione fino al 1895. In questo lasso di tempo furono numerosi i prigionieri celebri detenuti all'interno del castello. Tra di essi non se ne possono non citare tre, dei quali il primo non può che essere l'italiano Silvio Pellico, poeta e patriota, oppositore del dominio austriaco sull'Italia, imprigionato e condannato a morte nel 1820 per i propri ideali politici dalle autorità imperiali, la pena sarà poi convertita in 15 anni di reclusione che Pellico sconterà presso il carcere di Brno dopo essere stato detenuto temporaneamente proprio presso il Castello di Lubiana. Riguadagnata la libertà nel 1830, morirà nel 1854. Un altro dei prigionieri illustri della fortezza fu Lajos Batthyany, primo capo assoluto di uno stato ungherese autonomo, venne imprigionato e condannato a morte dalle autorità austriache con l'accusa di tradimento per aver fomentato gli ideali di libertà del proprio popolo. Formò un governo indipendente nel 1848 a seguito della concessione nello stesso anno da parte dell'imperatore Ferdinado I d'Asburgo-Lorena dell'autonomia amministrativa al territorio ungherese: le sue posizioni non dovettero essere granchè moderate dal momento che venne fucilato nel 1849 in Ungheria dopo essere stato rinchiuso in diverse prigioni, tra le quali anche il Castello di Lubiana. Infine, tra i prigionieri segregati presso il Lubljanski Grad merita una menzione anche Ivan Cankar, poeta sloveno, autore tra le altre anche di alcune opere a soggetto sessuale: la sua prima pubblicazione del 1899, data alle stampe quando l'autore aveva appena 23 anni di età, non lasciava in effetti spazio all'immaginazione già dal titolo "Erotika". Ciò contribuì a rendere praticamente inesistenti i dubbi con i quali Anton Bonaventura Jeglič, vescovo di Lubiana, decise di acquistare tutte le copie in vendita della raccolta poetica per darle poi alle fiamme. In seguito Cankar, forse scoraggiato da questo discusso esordio, abbandonerà la poesia e scriverà principalmente drammi e composizioni in prosa. Venne comunque imprigionato nel 1914 per un breve periodo presso Lubiana dopo aver peggiorato la propria posizione esprimendo simpatia nei confronti del popolo serbo: poco prima l'erede al trono imperiale austro-ungarico Francesco Ferdinando d'Ausrtia-Este era stato assassinato presso Sarajevo da attentatori nazionalisti serbi. Durante il periodo della II Guerra Mondiale il Castello di Lubiana svolgerà nuovamente il compito di prigione, mentre a partire dagli anni '60 del XX secolo diventerà oggetto di una vasta opera di restauro che durerà complessivamente 35 anni. Dal 1905 il sito appartiene all'amministrazione cittadina che lo acquistò sotto la spinta dell'allora sindaco Ivan Hribar.
Dal centro storico della città al Ljubljanski Grad il passo è davvero breve ed in capo ad una manciata di minuti il trenino Urban ci deposita di fronte all'ingresso della struttura: le regole dell'itinerario turistico prevedono la possibilità di fermarsi a visitare il sito ritornando poi al punto di partenza con uno dei trenini elettrici successivi che a cadenza regolare compiono sempre lo stesso tragitto. Il tempo messo a nostra disposizione dalla giornata comincia già a scarseggiare, così approfittiamo solo dei quindici minuti concessi dalla fermata per poi riprendere subito il giro: troppo poco onestamente per visitare per bene gli ambienti del castello, un vero peccato visto che ad un primo sguardo il complesso appare davvero ben conservato ed organizzato. Ad onore del vero le possibilità di rientro in città non mancano: oltre al trenino Urban, il castello è servito anche da una funicolare, realizzata nel 2006, che dal centro della città conduce proprio alla fortezza. Scartiamo nostro malgrado anche questa opzione, siamo troppo incuriositi dalle altre fermate in programma con l'itinerario turistico che abbiamo appena iniziato. Ci limitiamo così ad ammirare le mura esterne ed a visitare il cortile interno del Castello di Lubiana, non troppo ampio ed affollato di visitatori che come in un formicaio spuntano in ogni direzione percorrendo i numerosissimi percorsi che il sito offre. Sul fondo del cortile svetta la Razgledni Stolp, una torre di osservazione eretta tra il 1845 ed il 1848 in sostituzione di una precedente struttura demolita dai francesi nel 1813: nello stesso punto era stata nel frattempo costruita una torretta in legno deputata alla segnalazione, per mezzo di drappi rossi o lanterne accese, dei roghi e degli incendi che venivano avvistati sulla città. La prima torre, menzionata già in documenti storici del XVI secolo, veniva chiamata Stolp Piskačev (letteralmente "torre dei pifferai") in virtù dell'abitudine da parte di alcune vedette di suonarvi al mattino alcuni brani musicali, usanza protratta probabilmente fino al XVII secolo. Presso la torre, nel corso del XIX secolo, era alloggiata una guardia incaricata di dare l'allarme sparando alcuni colpi di cannone in caso di pericolo o di avvistamento di nemici. Dalla sua piattaforma, ad un'altitudine di 400m s.l.m., si apprezza una delle vedute più belle sulla città sottostante, ed anche per queste sue pregiate caratteristiche panoramiche venne fatta oggetto di restauro nel 1982, quando venne elevata in altezza di ben 1,2m. Nuovi lavori di conservazione furono condotti sulla torre successivamente anche nel 2009. Sulla sua sommità una grande bandiera raffigurante lo stemma di Lubiana sventola al vento conferendo un tocco di solennità al fascino di questo luogo. Attualmente gli edifici del castello ospitano un museo dedicato alla storia nazionale (il Razstava Slovenska Zgodovina), un museo rivolto all'arte degli spettacoli di marionette, due ristoranti, un'enoteca ed una caffetteria. Peccato non poter sostare di più per godere di almeno qualcuna di queste offerte.
La seconda fermata del percorso a bordo del trenino Urban è il Park Špica, una propaggine urbana che si insinua come un cuneo tra le acque del Ljublanica, il quale all'estremità orientale della città si diparte in due sezioni che circondano il centro storico ricongiungendosi in un unico tronco fluviale proprio nei pressi del sito oggetto della seconda tappa del nostro itinerario. In origine questo punto della città era un lido pubblico posizionato lungo le rive del fiume; oggi ospita una piacevole area verde dotata di punti ristoro e di un molo per piccole imbarcazioni. Su uno dei lati, il ponte pedonale Hladnikova Brv, lungo 38m, collega il parco alla riva opposta del Ljubljanica: fu realizzato su progetto di Miha Dešman e Katarina Pirkmajer nel 2009 nello stesso periodo in cui venne recuperata e riqualificata l'area piuttosto degradata del parco. Il nome del ponte è intitolato a Franc Hladnik, religioso e botanico sloveno vissuto a cavallo tra il XVIII secolo ed il XIX secolo. Il tempo ristretto di una breve sosta sopra i soleggiati gradoni che dal parco digradano verso la riva del fiume ed è già tempo di rimetterci in moto.
Il percorso a bordo del trenino Urban prosegue addentrandosi nel quartiere Trnovo, situato nella parte sudoccidentale della città. Rimanendo sul bordo del Ljubljanica, costeggiamo il Trnovski Pristan: questa porzione di lungofiume venne riqualificata su progetto di Jože Plečnik nel 1930. In precedenza questo sito era utilizzato come scalo per lo scarico di materiali da importare in città, principalmente pietre e materiale edilizio per la costruzione di edifici ed infrastrutture. Con il progetto di Plečnik il luogo venne rigenerato e la sponda del fiume venne allestita con una bassa scalinata in pietra riparata da salici: oggi questo è uno dei più apprezzati punti di incontro sociale dell'intera città, particolarmente frequentato da giovani e studenti. Tra il 2007 ed il 2009 venne ristrutturato con la sostituzione del patrimonio arboreo, il rinnovamento delle banchine e la sistemazione dell'illuminazione artificiale. Procedendo tra le strade del quartiere, incrociamo di passaggio la facciata della Trnovska Cerkev Svetega Janeza Krstnika, la Chiesa di San Giovanni Battista. Questo edificio venne realizzato tra il 1854 ed il 1857 sul sito di una struttura anteriore risalente al 1753 e progettata dall'architetto Candido Zulliani: la nuova costruzione, più ampia rispetto alla precedente, si rese necessaria per assolvere alla richiesta di maggior spazio dettata dalla progressiva crescita della locale comunità religiosa. I profili neoromanici le vennero attribuiti invece dopo il terremoto del 1895, quando furono intrapresi lavori di ristrutturazione basati sui progetti di Raimund Jeblinger. La facciata, ordinata e ben distribuita, appare gradevole già ad un'occhiata fugace, con le appuntite torri campanarie poste sui due lati e due alberi di betulle a presidiare il portale principale sormontato da una croce dorata. Agli arredi della chiesa lavorò, tanto per cambiare, il solito Jože Plečnik, il quale visse proprio presso Trnovo, nelle vicinanze della Chiesa di San Giovanni Battista, tra il 1921 (anno del suo ritorno a Lubiana dopo le esperienze all'estero) ed il 1957, anno della sua morte. Ma il personaggio legato maggiormente alla storia della chiesa è France Prešeren: qui, secondo la tradizione, nel 1831 il poeta sloveno incontrò per la prima volta Julija Primic, qui scattò il colpo di fulmine che folgorò il cuore del giovane letterato. Evento ricordato dalla poesia intitolata "Je od Vesel'ga Časa Teklo Leto" ("E' Passato un Anno dal Momento Felice") nella quale il vate scrive: "Trnovo! Un luogo dal nome sfortunato; è lì che sono nate le mie sventure da due occhi di pura fiamma". Osserviamo la facciata della Trnovska Cerkev Svetega Janeza Krstnika senza sostare ed attraverso il corto passaggio del Trnovski Most, ponte lungo appena 20m che si srotola come un tappeto rosso verso il portale della chiesa stessa: costruito tra il 1929 ed il 1932 su progetto di Jože Plečnik a sostituire una precedente struttura presente fin dal XVII secolo, lo contraddistinguono le sagome delle basse piramidi poste ai quattro lati del passaggio, le betulle che ne scandiscono il percorso ai bordi della strada e la statua di San Giovanni Battista posta al centro di uno dei parapetti, opera di Nikolaj Pirnat della prima metà del XX secolo. Dirimpettaio della statua, in posizione speculare rispetto ad essa lungo il parapetto opposto, si trova anche un basso obelisco accessoriato di lampade elettriche. Il ponte, dichiarato nel 2021 patrimonio UNESCO, sormonta le acque del fiume Gradaščica, piccolo tributario del Ljubljanica con il quale si incrocia a 300m di distanza dalla Chiesa di San Giovanni Battista. L'itinerario a bordo del trenino Urban prosegue attraverso le strette vie del Krakovo, attiguo al Trnovo ed insieme ad esso uno dei quartieri più antichi della capitale slovena: queste porzioni di città costituiscono in effetti i retaggi degli antichi insediamenti abitativi medievali situati fuori dalle mura difensive oggi scomparse. Abitato originariamente da pescatori, oggi il Krakovo è considerato l'orto urbano di Lubiana in virtù di una capillare attività ortofrutticola i cui prodotti si possono ammirare presso i banchi dell'Osrednja Ljubljanska Tržnica. Il trenino prosegue inarrestabile la propria corsa: abbandoniamo il Krakovo e imbocchiamo la via Mirje sul cui lato si stagliano i resti del Rimski Zid, il Muro Romano: larga 2,4m ed alta fino ad 8m, questa cinta muraria fu eretta intorno al 15 d.C. a protezione dell'insediamento romano di Iulia Aemona. Le mura, di cui oggi rimangono ben conservati solo alcuni tratti lungo la Mirje per una lunghezza di circa 300m, circondavano seguendo un percorso squadrato tutti i lati del centro abitato, ad eccezione del versante orientale naturalmente protetto dal rilievo collinare della Grajska Planota. Erano dotate di 26 torri e quattro portali principali, davanti ad esse un'ulteriore difesa era apportata da un doppio fossato che ne seguiva per tutta l'estensione lo sviluppo. La conformazione di pietra e ciottoli rese questa fortificazione straordinariamente solida e resistente, tanto da farle attraversare immutata più di 2.000 anni di storia. Quest'opera testimonia peraltro l'importanza della colonia romana che era deputata a difendere: in effetti Iulia Aeomona conobbe un periodo di particolare sviluppo nel corso del I secolo d.C., epoca in cui godette di una privilegiata posizione strategica lungo le rotte commerciali, arrivando nel momento di massimo splendore a contare una popolazione di circa 5.000 abitanti. Il momento di gloria della città durò sorprendentemente molto poco: già a metà del II secolo d.C. l'insediamento conobbe un rapido declino iniziato con l'invasione della tribù germanica dei marcomanni. Nei secoli successivi, nel periodo in cui la Slovenia venne occupata prima dagli eruli che con Odoacre avevano deposto l'ultimo imperatore romano d'occidente Romolo Augusto e poi dagli ostrogoti che con Teodorico deposero ed uccisero Odoacre nel 488 d.C., la decadenza di Iulia Aemona proseguì tra il V secolo d.C. ed il VI secolo d.C. con le occupazioni da parte di diversi popoli barbari, tra i quali i visigoti, i longobardi e gli slavi. Nel mezzo, venne distrutta due volte: la prima nel 238 d.C. nel tentativo di ostacolare l'avanzata del comandante legionario Gaio Giulio Vero Massimino, che in seguito diventerà comunque il primo imperatore romano di origini barbare, la seconda nel saccheggio condotto nel 452 d.C. da Attila l'unno. La sorte sfortunata a cui andò incontro giustifica il progressivo spopolamento dell'insediamento che rimase infine disabitato dal VI secolo d.C. In epoca moderna, i resti del Rimski Zid lungo la Mirje furono oggetto di restauro nel corso degli anni '30 del XX secolo ed a progettare l'opera fu ovviamente Jože Plečnik: a lui si devono i portali voltati realizzati sfruttando materiale residuo dagli attigui edifici residenziali e soprattutto la bassa piramide posta circa a metà della lunghezza del muro superstite. Il progetto originario dell'amministrazione cittadina in realtà era quello di demolire il Muro Romano per fare spazio a nuove unità abitative e solo l'intervento dello storico dell'arte France Stele riuscì a scongiurare lo scempio: fu lui nel 1928 a sostenere per primo la conservazione del monumento. La maggior parte degli altri resti delle antiche mura difensive romane erano già andati persi nel corso dei secoli precedenti, inglobati negli edifici nascenti o utilizzati per la riparazione di infrastrutture, tra le quali anche il Ljubljanski Grad, nonostante in epoca medievale l'antica cinta fortificata fosse stata utilizzata come parte attiva delle mura difensive cittadine. Dopo aver sfilato davanti al Rimski Zid, proseguiamo il nostro giro imboccando la Emonska Cesta ai bordi della quale incontriamo poco più avanti lo Spomenik Francoski Iliriji. Questo monumento, eretto nel 1929 a celebrazione del 120° anniversario della fondazione francese delle Province Illiriche, è composto da un obelisco in pietra calcarea alto 14m ed il progetto per la sua costruzione porta la firma del solito Jože Plečnik. E' raro trovare all'interno delle grandi città un'opera di questo tenore: le occupazioni francesi guidate da Napoleone Bonaparte agli inizi del XIX secolo non furono quasi mai viste con favore dai popoli occupati, di conseguenza è difficile trovare monumenti che commemorino questi eventi all'interno delle capitali europee. La Slovenia fa eccezione a questa regola. Dal 1809, con l'organizzazione francese del territorio illirico la cui capitale divenne proprio Lubiana, in questi territori nacquero le prime scintille di consapevolezza nazionale: la lingua slovena venne autorizzata all'insegnamento scolastico, fu riformato il sistema giudiziario ed amministrativo, più in generale venne gettato il seme di un ideale di libertà ed uguaglianza che a distanza di quasi due secoli maturerà in indipendenza. Il dominio francese durerà solo fino al 1813 e già nel 1815 i territori sloveni passeranno nuovamente sotto il restaurato potere asburgico: a Lubiana sarà ancora conferito il ruolo di capitale delle province illiriche austriache, incarico che manterrà fino al 1849. Lo Spmenik Francoski Iliriji celebra l'importante contributo francese alla cultura ed all'identità nazionale slovena. Su un lato dell'obelisco è riportato il volto bronzeo di Napoleone Bonaparte con una corona d'alloro sul capo, lungo il lato opposto invece un ritratto allegorico dell'Illiria: entrambe le sculture sono opera di Lojze Dolinar. Sotto di essi sono incisi i versi di un'ode all'Illiria composta dal poeta Valentin Vodnik. Lungo il versante occidentale dell'obelisco, quello rivolto verso la strada, sono impressi dei versi in lingua francese che fanno riferimento ad un milite ignoto i cui resti sarebbero custoditi alla base del monumento: l'autore di questi versi è il poeta Oton Župančič. Sopra questa iscrizione è riportata una foglia di palma dorata donata al monumento dalla Francia. Sul culmine dell'obelisco infine è collocato lo stemma antico della Slovenia, la mezzaluna illirica accompagnata da tre stelle, le stesse che compaiono ancora oggi nella bandiera nazionale slovena sopra il profilo stilizzato del monte Triglav. Il trenino Urban procede senza soste la propria corsa. Superato lo Spomenik Francoski Iliriji, approdiamo alla poco distante Kongresni Trg. La struttura di questa piazza risale al XIX secolo, quando in occasione del Congresso di Lubiana del 1821 vennero ampliati gli spazi e riempito un fossato di un precedente spiazzo già esistente dal XVII secolo. All'incontro diplomatico, organizzato per far fronte ai moti costituzionalisti napoletani insorti l'anno precedente, parteciparono lo zar russo Alessandro I Romanov, l'imperatore Francesco I d'Austria, Ferdinando IV di Borbone re di Napoli e Francesco IV d'Austria-Este duca di Modena, oltre a centinaia di ministri, dignitari e funzionari politici. La riunione, iniziata nel mese di gennaio, riuscì nell'intento di creare un fronte comune militare contro la ribellione napoletana che nel maggio dello stesso anno verrà in effetti soppressa. Per i quattro mesi della sua durata, Lubiana venne animata da parate, feste, ricevimenti, divenendo il salotto principale della nobiltà europea. L'evento rese insomma la capitale slovena uno dei centri di equilibrio del continente ed il fulcro fu proprio Kongresni Trg, la quale dal conciliabolo politico trasse da allora in avanti anche il proprio nome. Pur attraversando velocemente la piazza a bordo del trenino turistico è impossibile non notare davanti ad essa, separate dalla Slovenska Cesta, la mole imponente della Uršulinska Cerkev Svete Trojice: questa chiesa, costruita in stile barocco tra il 1718 ed il 1726 dall'architetto Carlo Martinuzzi, venne finanziata da Jakob Schell von Schellenburg, ricco mercante di Lubiana, che già nel 1702 favorì l'arrivo in città delle prime monache orsoline sostenendo la costruzione del convento che ancora oggi sorge dietro alla chiesa. La facciata della Chiesa delle Orsoline della Santissima Trinità mette in mostra una delle facciate più particolari di tutta la capitale slovena: è attraversata da spesse semicolonne che la dividono in sezioni incavate, alleggerita da tre file di fenestrature, sormontata da un timpano di forma triangolare con lati superiori arrotondati e segnato da tre nicchie ogivali, quella centrale arricchita da uno spoglio orologio. Ai lati della facciata si allungano due porticati concavi, ristrutturati nel 1966 su progetto di Anton Bitenc. Questo peculiare aspetto rende difficile distinguere ad un primo sguardo la vocazione religiosa dell'edificio, più simile ad una residenza borghese, se non fosse per la piccola croce posta alla sommità del timpano lungo la facciata. Di fronte alla Uršulinska Cerkev Svete Trojice, sull'altro lato della Slovenska Cesta ed al margine estremo della Kongresni Trg, sta la Stube Svete Trojice, la Colonna della Santissima Trinità: l'opera originale è del 1722 e porta la forma di Francesco Robba e di Luka Misle, ma quella posta qui è solo una copia mentre l'originale è conservato nel Mestni Muzej di Lubiana. Fu Jože Plečnik nel 1927 a portare sula Kongresni Trg la colonna, in precedenza situata sulla vicina via Ajdovščina. Pochi anni più tardi, nel 1931, l'architetto fece realizzare la scalinata che oggi si può osservare ai piedi della facciata della Chiesa delle Orsoline della Santissima Trinità e dispose la piantumazione di alcuni platani ai bordi della Kongresni Trg, in seguito in parte sradicati durante i lavori di ristrutturazione che consegnarono alla città una piazza rinnovata nel 2011. Nonostante ciò, oggi la maggior parte della Kongresni Trg è occupata dalla macchia verde del Park Zvezda, del quale al passaggio riusciamo a scorgere un particolare ed importante monumento: si tratta del Državljan Emone, una piccola statua posta sulla cima di un'esile colonna raffigurante un cittadino di Iulia Aemona. Alta appena 145cm, realizzata in bronzo e ricoperta d'oro, ritrae un giovane vestito con una toga, indumento riservato ai patrizi romani. La statua venne scoperta nel 1836 in occasione degli scavi edilizi condotti presso Kongresni Trg per la costruzione del casinò cittadino e probabilmente faceva parte originariamente di una lapide tombale della quale poco si potè apprendere dal momento che gli scavi che accidentalmente rinvennero i resti non furono sufficientemente accurati dal punto di vista archeologico per poterlo approfondire. La tomba, nella quale furono ritrovati anche i resti carbonizzati del defunto ed alcuni piccoli oggetti, risalirebbe comunque ad un periodo compreso tra i I secolo d.C. ed il II secolo d.C.: in quest'epoca sul luogo dell'attuale Kongresni Trg doveva trovarsi presumibilmente un cimitero. Nella composizione del monumento tombale la scultura, che possiede un nucleo di piombo, era forse fissata su una base di marmo posta a sua volta sopra un fusto di colonna: curiosamente questa è l'unica scultura su colonna dedicata ad un cittadino semplice, seppur patrizio, giunta ai giorni nostri, dal momento che al Mondo ne esistono altre simili ma dedicate solo ad imperatori o regnanti. Abbandonando la Kongresni Trg incrociamo di sfuggita lungo il margine settentrionale della piazza proprio il Kazina, l'edificio del casinò: ultimato nel 1838, fu punto di ritrovo per i funzionari nazisti durante la II Guerra Mondiale, mentre oggi ospita un istituto storico ed un archivio. Spalla a spalla con Kongresni Trg sta la piazza più ampia di Lubiana, Trg Republike. La raggiungiamo svoltando a sinistra sulla Šubičeva Ulica. Il primo progetto di questa piazza risale al 1960 ed a formularlo in stile modernista fu Edvard Ravnikar, allievo di Plečnik. A far spazio all'opera urbanistica nascente furono gli ampi giardini dell'Uršulinski Samostan, l'antico convento abitato dalle monache orsoline, ancora oggi vero punto di contatto tra Trg Republike e l'attigua Kongresni Trg. I lavori per la realizzazione della piazza, ai quali partecipò un nutrito gruppo di architetti guidati da Ravnikar, si conclusero solo nel 1982. Pensata per divenire il centro nevralgico della città, per decenni lo spiazzo di Trg Republike fu adibito a parcheggio per automobili ed a spazio aperto per mercati pubblici; solo nel 2014 la piazza venne ristrutturata ed acquisì l'aspetto odierno, venendo anche dichiarata nello stesso anno monumento nazionale. Già in precedenza comunque l'importanza di questo luogo era indubbia: qui il 25 giugno 1991 il primo presidente sloveno Milan Kučan dichiarò ufficialmente l'indipendenza della Slovenia dalla Repubblica Socialista Federale di Jugoslava; di conseguenza, qui per la prima volta sventolò la bandiera nazionale slovena. Da questo evento la piazza ereditò anche il proprio nome attuale, in precedenza si chiamava Trg Revolucije, appellativo allineato con la propaganda socialistica che per decenni si impose sul paese. A cambiare fu tutto o quasi, rimase lo Stavba Državnega Zbora Republike Slovenije, il palazzo che ospita oggi il parlamento sloveno dopo aver ospitato in precedenza l'assemblea governativa della Slovenia jugoslava. Eretto in stile modernista durante il periodo socialista, tra il 1954 ed il 1959, dall'architetto Vinko Glanz, è situato di fronte a Trg Republike, sul versante opposto della Šubičeva Ulica. Di esso colpisce l'occhio l'imponente portale impreziosito dalle sculture create con materiali plastici nel 1959 da Zdenko Kalin e Karel Putrih con soggetto il popolo dei lavoratori. Anche questo molto socialista! La facciata dell'edificio, uno dei simboli della Slovenia repubblicana, venne seriamente danneggiato nel 2010, quando in occasione di una manifestazione di protesta studentesca contro la riforma previdenziale che spostava in avanti l'età pensionabile a 65 anni, furono lanciati contro l'ingresso del palazzo oggetti, pietre, bottiglie e persino sedie, rompendo una vetrata e rovinando le sculture del portale, in seguito restaurate. Pochi anni più tardi, nel 2001, l'integrità della facciata del palazzo fu nuovamente minacciata da un'automobilista che perdendo il controllo del proprio mezzo si schiantò contro l'edificio: infatti, sorprendentemente lo Stavba Državnega Zbora Republike Slovenije si affaccia direttamente sulla via senza particolari separazioni o protezioni. Una circostanza curiosa riguarda questa costruzione: dopo la dichiarazione d'indipendenza, Jože Plečnik realizzò il progetto di un nuovo palazzo governativo in sostituzione di quello esistente; l'opera non vide mai la luce, ciò nonostante il disegno dell'edificio progettato da Plečnik compare ancora oggi sul retro della moneta slovena da 0,10€. Forse in questa vicenda dovremmo scorgere l'importanza del passato ed il contributo forte che nel bene o nel male fornisce indelebilmente al presente: c'è sempre qualcosa di sbagliato nel cercare di dimenticare gli eventi trascorsi, anche qualora essi portino dolore o sofferenza. L'esistenza stessa del Stavba Državnega Zbora Republike Slovenije, prima simbolo socialista poi repubblicano, è la prova tangibile della capacità del popolo sloveno di accettare e conservare il proprio passato. Altro simbolo del passato socialista della città posto su Trg Republike è lo Spomenik Revolucije (Monumento alla Rivoluzione), creato in bronzo dallo scultore Drago Tršar nel 1975: venne realizzato scomposto in 170 pezzi a Zagabria, quindi trasportato parzialmente assemblato in quattro porzioni, per un peso complessivo di 19t, a Lubiana dove venne installato. Dello stesso periodo sono i due grattacieli che chiudono il fondo della piazza: lo Stolpnica NLB, eretto nel 1971 ed ospitante l'istituto bancario Nova Ljubljanska Banka, e lo Stolpnica TR3, innalzato nel 1976. Visti da lontano entrambi assomigliano a due sagome con dei cappelli sulla testa. Ma ciò che attira maggiormente l'attenzione al rapido passaggio del trenino Urban accanto a Trg Republike sono gli "United Buddy Bears", un'installazione artistica a cielo aperto collocata al centro della piazza, ideata dai tedeschi Klaus Herlitz ed Eva Herlitz e nata a Berlino nel 2001: comprende le figure alte 2m di 145 orsi di diversi colori, disposti circolarmente uno accanto all'altro, simboli di tolleranza e fratellanza tra popoli differenti. Tra di essi anche la figura di un orso, dipinta di azzurro e sulla cui superficie sono riportati i ritratti di diversi personaggi simbolo della nazione, da France Prešeren a Jože Plečnik, creata dall'artista sloveno Luka Rep, studente presso la scuola accademica artistica di Lubiana.
L'itinerario turistico a bordo del trenino turistico sta per volgere al termine. L'ultima tappa coincide con la Ljubljanska Operna Hiša, l'edificio che ospita il teatro dell'opera di Lubiana. Venne costruito da Gustav Tönnies in stile neorinascimentale tra il 1890 ed il 1892 su progetto degli architetti boemi Jan Vladimir Hrasky ed Anton Hruby; fino al 1911 ospitò rappresentazioni sia in lingua slovena sia in lingua tedesca, in seguito solo in sloveno. Durante lo svolgimento della I Guerra Mondiale il teatro chiuse i battenti ed al suo interno si stabilì un cinema; al termine del conflitto bellico tornarono ad esservi rappresentati spettacoli teatrali e dal 1919 anche spettacoli di balletto. Nei decenni successivi la Ljubljanska Operna Hiša conobbe un periodo di progressiva decadenza, tanto che nel 1998 fu protagonista di un progetto di ristrutturazione che prevedeva anche lavori di ampliamento i cui risultati vennero inaugurati solo nel 2011. Imponente è la sua facciata, contraddistinta da un portichetto che ripara i tre portali di accesso e soprattutto dalle sculture allegoriche realizzate da Alojz Gangl, incastonate in quattro colonne ioniche. Su un lato della costruzione completa il quadro un busto raffigurante il cantante lirico Julij Betetto, vissuto a cavallo tra il XIX secolo ed il XX secolo, ritratto dallo scultore Stojan Batič. Il percorso si conclude incrociando la Slovenska Cesta, ampio vialone costellato di negozi ed edifici commerciali, unico accenno di mondanità consumistica di una città che per il resto appare più pacata ed a dimensione d'uomo. Prima del 1991 questa strada, oggi dotata di ampie corsie pedonali, era denominata Titova Cesta, ovvio tributo all'indiscutibile autorità del condottiero socialista Tito. Percorrendola facciamo quindi ritorno, attraverso Prešernov Trg ed il Tromostovje, in Stritarjeva Ulica, stazione di partenza del trenino turistico Urban. Rimane solo un luogo da visitare a Lubiana e viaggiando insieme a due bambine non possiamo astenerci dal vederlo. Il Park Tivoli è un'ampia area verde che occupa un considerevole spicchio della porzione nordoccidentale della città: è il più grande parco pubblico della capitale slovena e la sua estensione copre una superficie di 5km². Lo raggiungiamo in sella a delle biciclette noleggiate presso l'H2O Hostel in Petkovškovo Nabrežje, sul lungofiume poco oltre lo Zmajski Most: con Lidia seduta comodamente sul proprio seggiolino ed Amelia autonoma con la propria bicicletta, sfiliamo davanti alla Ljubljanska Operna Hiša, costeggiamo la Bleiweisova Cesta ed imbocchiamo la trafficatissima Celovška Cesta, fortunatamente protetti dal caos automobilistico da una comoda pista ciclabile. Arriviamo così all'ingresso principale del sito, situato lungo il suo lato orientale. Il Park Tivoli nacque dai progetti dell'ingegnere francese Jean Blanchard, i quali prevedevano l'unione e l'ampliamento di precedenti aree verdi più piccole ed indipendenti, e fu inaugurato nel 1813. L'ambiente che racchiude costituisce un'enclave naturale all'interno della vastità urbana: attraversarne gli spazi aperti è come viaggiare in un ampio mare le cui rotte sono stretti sentieri di fine terra bianca e le cui acque sono grandi prati erbosi interrotti qua e là da ombreggiate isole arboree. Ogni tanto, come scogli isolati nobilitati dal gusto dell'uomo, scolpiti sapientemente dallo Scultore di Paesaggi, emergono sagome di monumenti ed edifici.
Tra di essi, il primo da citare è sicuramente il Tivolski Grad, un maniero eretto nel XVII secolo sulle rovine di una precedente costruzione del XIII secolo. Questa primitiva costruzione appartenne ai duci di Carinzia e fu abitata successivamente dal barone Jurij Apfaltrer, governatore della città, quando nel 1442 venne danneggiata dall'assedio che Ulrich II conte di Celje montò infruttuosamente su Lubiana come atto di ribellione contro l'autorità asburgica. Terminato il conflitto, Apfaltrer fece riparare l'edificio riedificando la torre incendiata durante gli scontri e che da quel momento si chiamò Podturn: della torre oggi non rimane più nulla ma il suo nome viene spesso associato tutt'oggi a quello dell'edificio che capita infatti di sentire menzionato con l'appellativo Grad Podturn. A seguito di questi eventi, il maniero cambiò diversi proprietari finchè nel 1601 fu ceduto alla comunità monastica gesuita di Lubiana: l'edificio attraversò questo periodo subendo un progressivo ma profondo degrado, interrotto dalle opere di restauro che il vescovo Tomaž Hren volle commissionare sulla struttura, inaugurandola infine rinnovata nel 1611. Negli anni successivi la funzione del palazzo sarà quella di ospitare i monaci gesuiti. Nuovi lavori di ristrutturazione vennero apportati tra il 1702 ed il 1702 da Luka Mislej. Dal 1775, a seguito dello scioglimento dell'ordine monastico gesuita, il maniero divenne residenza estiva dei vescovi di Lubiana. Più avanti, tra il 1833 ed il 1877, ospitò invece un ospedale ed una caserma. Nel 1852 il Tivolski Grad fu rilevato dall'imperatore Francesco Giuseppe I d'Asburgo-Lorena che lo ristrutturò in stile classicista ed un anno più tardi lo concesse al maresciallo Josef Radetzky che lo restituì al sovrano pochi anni più tardi: a questa fase risale l'aspetto che l'edificio conserva ancora oggi. Nel 1865 finalmente il maniero giunse nelle mani dei cittadini di Lubiana quando l'imperatore lo vendette all'amministrazione cittadina nelle vesti del sindaco Etbin Henrik Costa. Contemporanee a questo passaggio sono le sculture in ghisa di quattro cani poste alla base della scalinata che conduce alla facciata dell'edificio: furono create dallo scultore austriaco Anton Dominik von Fernkorn, il quale quattordici anni più tardi terminerà i propri giorni richiuso in un asilo psichiatrico logorato dall'ossessione di aver compiuto un madornale sbaglio proprio su queste quattro sculture canine. Le statue infatti, nelle bocche socchiuse mancano della lingua. Per questa svista che ne tormenterà il pensiero, si dice che l'artista arrivò a togliersi la vita. Dopo aver alloggiato alcune abitazioni private nel periodo successivo alla II Guerra Mondiale, dal 1967 il Tivolski Grad fornisce la sede al Mednarodni Grafični Likovni Center, un istituto internazionale di arti grafiche fondato nel 1986, oltre ad una caffetteria. Anche se non direttamente sulla struttura del maniero, anche qui si trova il tocco di Jože Plečnik: infatti, ai piedi del Tivolski Grad si distende la Jakopičevo Sprehajališče, un ampio viale realizzata su progetto dell'architetto nel 1934.
E' intitolato al pittore Rihard Jakopič, vissuto a cavallo tra il XIX secolo ed il XX secolo, pioniere della pittura impressionista slovena: il legame di questo artiste con il Park Tivoli è sancito dal fatto che nel 1908 Jakopič fece erigere a proprie spese un padiglione in stile secessionista all'interno del parco con lo scopo di posizionarci il proprio studio e di esporre le proprie opere in continuo contatto con il pubblico passante. Realizzato dall'architetto Max Fabiani, il padiglione sopravvisse fino al 1962, quando venne demolito per fare spazio al passaggio ferroviario. Ad ogni modo, i 400m circa di estensione del viale intitolato a Jakopič mantengono vivo lo spirito dell'arte all'interno del Park Tivoli: sono scanditi da bassi lampioni monumentali la cui lampada sferica è montata su colonne di pietra e soprattutto da installazioni fotografiche le cui immagini in ampio formato, a tema vario, rendono questo viale una vera galleria a cielo aperto. In sella alle nostre bicilette sfiliamo davanti al Jakopičevo Sprehajališče. L'intenso caldo estivo non ci consente di soffermarci o di addentrarci ulteriormente ad esplorare gli spazi del parco. Decidiamo invece di fermarci poco più avanti, accanto al Ribnik Tivoli, uno stagno artificiale realizzato nel 1880 e posizionato al margine sudoccidentale del parco, utilizzato in passato per l'allevamento ittico, la pesca sportiva, oltre che per il pattinaggio su ghiaccio nei mesi invernali, nonchè come bacino di riserva in prevenzione di inondazioni fluviali. Ai lati dello stagno e separato da esso per mezzo di una bassa recinzione, si trova un largo spazio ampiamente fornito di giochi per bambini: qui Amelia e Lidia si divertono soprattutto su una altalena funicolare e con divertenti giochi d'acqua dove tra secchi, fontanelle, piste e carrucole trovano una meritata ricompensa per la fatica spesa nel visitare Lubiana, la città dei draghi.
Nonostante i suoi poco più di 8.000 abitanti appena, è una delle mete turistiche slovene più conosciute, sicuramente una delle più visitate. Ci troviamo ancora nella regione slovena della Gorenjska della quale la nostra prossima destinazione, a discapito delle sue modeste dimensioni che la qualificano come settimo centro abitato più popoloso, è sicuramente una delle località principali. Chiunque abbia almeno una volta sentito parlare di viaggi in Slovenia avrà certamente già intuito che stiamo parlando di Bled. Meta imprescindibile per ogni itinerario che attraversi la regione carniolana, la sua rilevanza turistica si percepisce ancora prima di raggiungerla: la via che conduce al centro della cittadina, la Ljubljanska Cesta, è intasata dal traffico automobilistico in entrambe le direzioni sia ad inizio giornata sia nel tardo pomeriggio, segno inequivocabile che questa località costituisce lo svincolo cruciale a cui portano tutte le strade del turismo di zona. Considerazione che trova credito nella stima secondo la quale la cittadina ospiti mediamente durante il periodo estivo un numero di visitatori tre volte più grande rispetto a quello dei residenti. Anche noi veniamo inevitabilmente fagocitati da questo ingente flusso di persone, tradotto nella lunga processione di automobili incolonnate lungo la Ljubljanska Cesta, dopo aver percorso il breve tratto che separa Lubiana da Bled, poco più di 50km coperti in una quarantina di minuti. Il primo approccio con la cittadina è però positivo: Bled fa fronte alla fiumana inarrestabile di turisti con compostezza e dignità; favorita dalle sue piccole dimensioni appare ordinata e pulita, mantenendo un'identità viva e sincera che nel complesso rende il vissuto di questa località gradevole.
Il carattere distinto e rispettoso di Bled si declina anche nell'impegno ad un turismo sostenibile ed ecologico, condotto a tal punto da meritare l'inserimento della cittadina nell'associazione Perle delle Alpi, un ente che dal 2006 raggruppa 23 località distribuite in cinque nazioni differenti (Italia, Austria, Slovenia, Svizzera e Germani) con lo scopo di promuovere il turismo lento e responsabile. A ciò si aggiunge la nomina a seconda migliore località europea per lo sviluppo sostenibile guadagnata da Bled nel 2019 nell'ambito del progetto internazionale non governativo Green Destinations. A contribuire al fascino di questa perla slovena concorre l'indiscutibile patrimonio naturalistico e monumentale che la cittadina custodisce: lo Scultore di Paesaggi ha modellato Bled come una di quelle piccole statuine racchiuse in palle di vetro innevate da fiocchi bianchi, miniature incantevoli di meraviglie gentili. Scegliamo come campo base per la nostra visita l'Hotel Lovec, una struttura alberghiera rispettabile ma che ha indubbiamente conosciuto tempi migliori: la pulizia e l'arredo delle camere lascia qualche riserva; sul personale invece nulla da eccepire, gentile e pronto all'intervento in caso di chiamata. L'albergo è situato nel cuore della cittadina, ed è affiliato al limitrofo Hotel Kompas, più azzimato e pretenzioso, presso il quale vengono offerti alcuni eventi intrattenitivi, si trova l'accesso alla piscina e si colloca il ristorante nel quale consumeremo le nostre cene a buffet, soluzione di cui non sono grande estimatore ma che devo ammettere essere molto comoda con due bambine al seguito, soprattutto se tarantolate come Amelia e Lidia. Il pregio principale dell'Hotel Lovec è la sua vicinanza a tutti i principali punti di interesse offerti da Bled, a cominciare da quello di essi che più di ogni altro intrattiene un rapporto simbiotico con la cittadina. Il profilo del centro abitato visto dall'alto assomiglia infatti a quello di un pesce con le fauci spalancate, intento ad inghiottire l'estremità orientale del Blejsko Jezero, il Lago di Bled.
Questo piccolo specchio d'acqua lacustre, lungo poco più di 2km e largo poco meno di 1,5km, costituisce un'entità viva, una sorta di spirito selvatico, indissolubile seppure così diverso, dalle forme artificiali dello spazio urbano che gli sta avvinghiato come un cucciolo di scimpanzè sulla schiena della propria madre, assorbendone calore e nutrimento. L'anima di Bled proviene principalmente da esso. Le leggende che aleggiano intorno al lago vanno ben oltre i suoi 30m di profondità massima, aggiungendo magia dove non riesce ad arrivare lo scandaglio. La più celebre di esse narra la storia di alcune giovani fate, vispe e belle, che erano solite frequentare in antichità il luogo in cui oggi si trova il lago, al tempo occupato da una distesa pianeggiante coperta di prati verdeggianti e dominata al centro da un basso sperone roccioso. Proprio intorno a questa remota protuberanza rupestre, le fate giocavano e danzavano, isolate da tutto e da tutti, riparate da sguardi indiscreti e dal rumore alimentato dall'umanità. Qui si sentivano felici e al sicuro. Fino a che un giorno alcuni pastori giunsero nella radura e vi portarono i propri greggi a pascolare: la tenera erba verdeggiante ora era sacrificata alla fame degli animali e la timidezza delle fate non trovava più riparo nella solitudine. Dopo essersi inizialmente nascoste dagli sguardi dei pastori, le fate raccolsero tutto il proprio coraggio e si presentarono loro con una richiesta: quella di abbandonare la valle oppure di occuparne solo una parte recintando una piccola porzione di terreni per circoscrivere il pascolo concesso alle bestie. Inutile dire che i pastori rifiutarono con sprezzo la richiesta delle fate, ma non avevano fatto i conti con la loro potente magia, occultata dietro i visi gentili ed i modi cordiali. Colto il rifiuto come un affronto, le fate chiamarono a raccolta con la propria magia tutte le acque dei vicini torrenti montani, inondando la pianura erbosa e costringendo i pastori alla fuga. Ecco formato il Lago di Bled! I pastori, a causa della loro ottusa arroganza persero un pascolo ampio e fertile; le fate invece continuarono a frequentare il luogo, e forse a crederci lo frequentano ancora oggi. La realtà scientifica è differente e sicuramente meno poetica: la formazione del Lago di Bled è dovuta all'azione erosiva di un ghiacciaio che ne occupava la posizione e che ritirandosi asciò lungo il percorso una conca successivamente riempita dalle acque lacustri.
Rimane però oggi ancora qualcosa di tangibile della leggenda sulle origini fatate del lago: grossomodo al centro del Blejsko Jezero, leggermente spostato verso la sua metà occidentale, sospeso sulle sue acque come una boa rocciosa, sorge il Blejski Otok, un piccolo isolotto di appena 85m di diametro maggiore, l'unica formazione insulare di origine naturale presente tra i confini sloveni: secondo la tradizione questa protuberanza petrosa custodisce ciò che resta, la parte emergente dal lago, della leggendaria roccia intorno alla quale le fate conducevano le proprie danze. In realtà si tratta solamente di un enorme masso che con il proprio volume probabilmente contribuì ad arrestare l'avanzata dell'antico ghiacciaio, favorendone il ritiro e partecipando così alla formazione del lago. Sorprendentemente, questo minuscolo presidio terrestre appoggiato sulle acque lacustri fu abitato dall'uomo fin dall'epoca preistorica, quando si stima che qui fosse posizionata un presidio di pesca. A dominare l'isola, collocata nel suo punto più alto come su un trono, sorge la Cerkev Marijinega Vnebovzetja, la Chiesa dell'Assunzione di Maria. Questo edificio, seppur contenuto nelle dimensioni, costituisce uno dei simboli indiscussi di Bled, ben visibile da ogni punto delle coste lacustri. Le sue origini sono antichissime, si stima che una piccola cappella probabilmente costruita in legno, dedicata al culto mariano, fosse presente sul sito già nel corso dell'VIII secolo d.C.: probabilmente a partire da quest'epoca il luogo cominciò a rappresentare una meta raggiunta da fedeli e devoti, circostanza che lo rende uno dei siti di pellegrinaggio più antichi di tutta la Slovenia. Siamo nel periodo di dominazione franca sui territori sloveni che si estenderà continuo e senza interruzioni fino al X secolo d.C., quando diversi territori di questa regione confluirono sotto il governo di differenti principati vescovili tedeschi: è proprio sotto l'influenza franca che la religione cristiana verrà introdotta in queste zone dando alito vitale alle prime professioni di fede e di conseguenza alla nascita dei primi luoghi di culto. Sempre in quest'epoca risale l'abitudine a seppellire i defunti intorno alla cappella sull'isola, circostanza confermata dai rinvenimenti archeologici dei resti di un cimitero altomedievale risalente al IX secolo d.C. e dal quale sono stati portati alla luce 124 frammenti scheletrici. Questi trascorsi, seppur antichissimi, non rendono però pienamente giustizia alla natura profondamente mistica del Blejski Otok e degli edifici che fino ad oggi ha ospitato: già nel corso del V secolo, qui si stima si trovasse un piccolo luogo di culto dedicato a Živa, la dea pagana della fertilità e della vita. Con l'avvento del cristianesimo portato dai franchi, il culto pagano venne assimilato dalla nuovo professione religiosa e fu così che Živa si trasmutò nella Vergine Maria: è questo l'inizio del culto mariano che motiverà nei secoli fino ad oggi i pellegrinaggi a questi luoghi. Dopo la conversione cristiana del sito, con il tempo anche le leggende ed i racconti popolari mutarono, fornendo così nuove versioni più ortodosse sulle origini de Lago di Bled: una di queste narra la vicenda di un pastore di nome Janek che pascolava un gregge di pecore per conto di alcuni nobili signori locali nel luogo in cui oggi sorge il lago, all'epoca occupato da una pianura erbosa. Janek veniva sistematicamente maltrattato dai propri padroni, ricevendo spesso botte e insulti nonostante il proprio prezioso lavoro. Un giorno, mentre pascolava le pecore, una di esse si allontanò e Janek la perse: terrorizzato per le punizioni che lo avrebbero aspettato se non avesse riconsegnato il gregge intero, in preda alla disperazione si recò a pregare presso un piccolo altare mariano. Gli apparve la Vergine Maria con in braccio la pecorella smarrita che riconsegnò al pastore benedicendolo. Ritornato al villaggio Janek raccontò l'accaduto ai padroni, ma questi lo percossero ancora e lo schernirono senza pietà. La Vergine Maria allora, per punire l'arroganza dei ricchi signori, fece scoppiare una violenta tempesta che inondò la pianura formando il lago e sommergendo il villaggio con i suoi abitanti. Fece anche emergere la terreno una piccola protuberanza di roccia, che diventerà poi il Blejski Otok, arrampicandosi sopra la quale il povero Janek ebbe salva la vita.
Proseguendo oltre nella cronistoria, nel corso del X secolo la primitiva cappella lignea situata sulla sua sommità venne sostituita da una più grande costruzione preromanica in mattoni; poco più avanti, agli inizi dell'XI secolo, il vescovado di Bressanone, che aveva rilevato il possesso della chiesa, decise di ampliarla aggiungendovi una seconda abside ed una stretta navata su uno dei lati. Tali opere arrivarono a soppiantare il camposanto che fino ad allora aveva occupato i terreni circostanti al tempio: a partire da questo momento si perderà per sempre l'usanza di seppellire i defunti in questo sito. Nuove opere di ampliamento vennero condotte sull'edificio nel corso del XII secolo grazie alle donazioni di ricchi contadini locali: fu aggiunta una seconda navata laterale e venne conferita alla struttura un profilo in stile romanico; inoltre venne ampliato lo spazio di transito intorno alla chiesa, attraverso opere di muratura e riempimento, modificando così la sagoma dell'isola, di modo da consentire l'afflusso agevole da parte di pellegrini e fedeli. Nel XIV secolo un nuovo stravolgimento strutturale coinvolse la chiesa che fu ristrutturata in stile gotico ed a navata unica, acquisendo per la prima volta anche un basso campanile indipendente costruito la lato della parete meridionale del tempio. Nel 1431 la chiesa ottenne il permesso vescovile di concedere indulgenze, circostanza che probabilmente permise di raccogliere i fondi necessari ad ampliare la struttura con una seconda sacrestia, un nuovo presbiterio ed un campanile più alto. L'edificio fu consacrato nel 1465 da Žiga Lamberg, primo vescovo di Lubiana. A quest'epoca risalgono i pregevoli affreschi a soggetto mariano che adornano la parete meridionale e settentrionale all'interno del tempio. Inoltre, sempre in questo periodo venne realizzata al vertice del tetto la bassa torre con cupola a cipolla destinata ad ospitare una piccola campana fusa nel 1534 a Padova: il simbolismo di questo apparentemente insignificante elemento è notevole, cominciando dal fatto che copre linearmente il punto a terra sopra il quale originariamente erano collocate le absidi delle prime chiese costruite sul luogo. Colpita nella sua integrità strutturale da un terremoto nel 1511, la chiesa fu poi restaurata in stile barocco nel 1523. Finalmente nel corso della seconda metà del XVII secolo la Cerkev Marijinega Vnebovzetja assunse l'attuale stile barocco e la forma che oggi si può osservare nei suoi profili, per mezzo di alcuni lavori di ristrutturazione e ampliamento che riguardarono alcune sue porzioni. Tra le altre cose, venne occultata sotto uno strato di intonaco la pittura gotica che fino ad allora avevano ricoperto le pareti interne del presbiterio, le restanti pareti della chiesa furono imbiancate, ma soprattutto venne innalzato il campanile sulla cui sommità fu posizionata una calotta barocca. Si arriva così all'attuale torre campanaria, alta 52m, fornita di tre campane bronzee e tutt'oggi dotata alla base di un portale in stile gotico che testimonia le sue origini trecentesche. I danni e le successive riparazioni provocate da un fulmine abbattutosi sul campanile nel 1688 non ne modificarono sostanzialmente la struttura. Il XVII secolo ed il XVIII secolo il sito raggiunse l'apice nel suo ruolo di meta di pellegrinaggio: non a caso in questo periodo, tramite lavori di muratura e riempimento, venne ulteriormente ampliata la piattaforma antistante la chiesa arrivando così a configurare il profilo ed i volumi che il Blejski Otok attualmente presenta. Non solo sviluppo e fama, ma anche critiche e minacce interessarono la chiesa sul finire del XVIII secolo e fino alla metà del XIX secolo: l'imperatore Giuseppe II d'Asburgo-Lorena, di animo razionalista e poco incline alla fede religiosa, propose di raderla al suolo e durante il periodo del laico governo francese si formularono propositi poco differenti verso l'edificio religioso che per secoli aveva occupato la sua posizione sul culmine dell'isola. Fu probabilmente l'intervento della popolazione e degli amministratori locali a scongiurare lo scempio. Giungiamo infine all'epoca moderna: nel 1866 il portale principale della chiesa, disposto lungo la parete occidentale, venne chiuso ed un nuovo più piccolo portale di accesso venne ricavato lungo la parete meridionale, più aperta e meglio accessibile, grazie al lavoro di Janez Vurnik. Da allora, il vestibolo della chiesa fu chiuso ed oggi vi sono esposti attraverso una teca di vetro a pavimento alcuni resti risalenti all'epoca delle precedenti fasi costruttive. Con l'avvento del XX secolo si resero necessari interventi di restauro sulla chiesa e sugli edifici circostanti, opera che venne compiuta a partire dal 1972 sotto la direzione dell'architetto sloveno Anton Botenc. Pochi decenni prima, infatti, negli anni della II Guerra Mondiale, il sito conobbe una profonda contrazione dei flussi di pellegrini; in compenso le autorità di occupazione naziste progettarono, secondo narrazioni a metà tra verità storica e fantasiosa invenzione, di sostituire la chiesa con un tempio neopagano, probabilmente dedicato alla venerazione del dio Woltan, entità mistica collegata all'antico culto della divinità scandinava Odino. L'ultimo restauro condotto sulla Cerkev Marijinega Vnebovzetja invece è del 2019. Oggi la Chiesa dell'Assunzione di Maria si mostra in ottimo stato di conservazione: l'interno presenta un pregiato altare dorato realizzato nel 1747 ed espressione notevole dell'arte barocca carniolana, oltre che tre altari minori in marmo realizzate da Mihael Kuša nel 1699 ed un altare lungo la parete settentrionale opera del XVIII secolo di Valentin Vrbnik. Pregevole anche il pulpito dorato, di autore ignoto ma probabilmente risalente sempre al XVIII secolo. Luogo imperdibile ed irrinunciabile, il modo migliore per raggiungere il Blejski Otok è a bordo di una pletna, la tipica imbarcazione di queste zone, caratterizzata da un fondo piatto ed una prua appuntita. Viene prodotta ed utilizzata a Bled dal 1590 circa ed in passato le licenze per la loro conduzione era autorizzata dalle autorità imperiali austriache. le quali concedevano i permessi a compensazione di coloro tra la popolazione che di umili estrazioni possedevano gli appezzamenti terrieri peggiori. In questo modo il mestiere di pletnar, vale a direi di conduttore di queste basse e piccole barchette lignee, si trasmise di generazione in generazione all'interno delle famiglie del posto, fino a divenire quasi un privilegio ed un elemento di prestigio tra gli abitanti locali, tanto che ancora oggi manovrare una pletnar è considerato un impiego di grande valore tradizionale. Lunghe circa 7m e large 2m suppergiù, ce ne sono diverse attraccate presso uno piccolo ormeggio composto da passerelle di legno lungo la costa meridionale del lago. Il costo del viaggio è piuttosto economico: non ci pensiamo due volte e montiamo a bordo della nostra pletna. Il nerboruto pletnar che ci accompagna manovra con movimenti esperti l'imbarcazione che lenta e silenziosa percorre la superficie lacustre: nell'osservare il barcaiolo all'opera mentre con il singolo remo che muove la barca compie i tipici movimenti ritmati che ricordano quelli utilizzati dai nostrani gondolieri, ammetto di non aver provato invidia nei suoi confronti, condurre la barca, che può ospitare fino ad una ventina di viaggiatori, deve richiedere una notevole forza fisica. Riparati dal caldo Sole estivo dal variopinto tendaggio che copre l'imbarcazione, nel giro di una ventina di minuti raggiungiamo il Blejski Otok.
Sbarcati sulla costa dell'isola iniziamo subito a metterci in cammino: non abbiamo molto tempo per conoscerla, il tempo concesso dal pletnar prima della ripartenza per fare ritorno sulla terraferma è di appena quarantacinque minuti. Fortunatamente il tragitto è breve: imbocchiamo lo stretto sentiero riparato all'ombra della vegetazione ed affacciato sulle acque lacustri attraverso le quali si intravedono alcuni pesci. In pochi istanti raggiungiamo la Južno Stopnišče, vale a dire Scalinata Sud, che con i suoi 99 gradini conduce allo spiazzo rialzato sul quale si adagia la chiesa. Un'antica tradizione popolare obbliga lo sposo che desideri prendere a nozze la propria amata all'interno della Cerkev Marijinega Vnebovzetja a trasportarla in braccio lungo tutta la salita dei gradini. Su un lato della scalinata, lungo la sua estensione, un altare votivo mariano rafforza il significato simbolico di questo passaggio, una specie di ascesa spirituale dalle scure acque del lago, sulle quali sfuma la scalinata stessa, fino al puro e sacro, rappresentato dall'edificio della chiesa posta sulla sommità. Non a caso il Blejski Otok fu in passato un'importante meta di pellegrinaggio mariano, carattere che a fatica mantiene vivo ancora oggi nonostante l'aumento dei mondani flussi turistici portati dall'epoca più recente. La scalinata fu realizzata nel 1655 su progetto di Max Petschacher von und zum Schoffart; l'altare votivo è invece di poco precedente e risale al 1650. Compiuta la salita lungo i gradini della Južno Stopnišče, per proseguire verso la chiesa occorre superare il vaglio della Mežnarija, un massiccio e basso caseggiato contraddistinto da una fila di strette finestre protette da inferriate ed interrotte da un tondeggiante portale ligneo: realizzata dopo il 1685, qui in passato risiedette la famiglia Mežnar, detentrice dell'incarico di l'incarico di custodi dell'isola. Accanto ad essa senza soluzione di continuità, si apre sul passaggio l'ingresso di una caffetteria presso la quale è possibile assaporare dolci tipici locali ed del buon gelato: il nome della bottega, inaugurata nel 2012, è Potičnica. Completa la triade di edifici che anticipa l'arrivo alla Chiesa dell'Assunzione di Mariè la Proštija, un caseggiato deputato alla funzione di canonica e di foresterie per i pellegrini che giungevano a visitare il luogo, i quali potevano trovare temporaneamente riparo presso alcune stanze di questa costruzione: costruito con un solo livello a piano terra agli inizi del XVII secolo, venne ampliato con l'aggiunta di un piano superiore nel 1787. Oggi le sue sale ospitano una galleria ed un museo. L'occasione di gustare qualcosa di fresco sui tavolini disposti all'aperto di fronte alla rivendita è troppo forte per poterci rinunciare, soprattutto se davanti agli occhi si apre un panorama sul Blejsko Jezero come quello che offre la sommità del Blejski Otok dalla cima dei suoi 18m di altezza massima sopra la superficie del lago. Il tempo a nostra disposizione è però troppo breve per indugiare su questo bellissimo paesaggio: nonostante il biglietto di ingresso dal prezzo piuttosto salato (ben 12€), paghiamo il dazio al piccolo botteghino e decidiamo di visitare l'interno della Cerkev Marijinega Vnebovzetja. Da vicino, il profilo della chiesa appare alla vista semplice e informale, animato dalla nota di colore fornita dalle tonalità di rosso delle tegole che ne compongono il tetto. Una volta superata la sua soglia l'ambiente si presenta luminoso e tranquillo, marca di confine tra la pace dell'anima ed il fermento caotico della folla di turisti che si agita fuori dalla chiesa, alcuni addirittura vestiti con il solo costume da bagno in spregio alla sacralità del luogo: siamo comunque soli all'interno dell'edificio, evidentemente il prezzo del biglietto scoraggia molti dal visitarlo. Ma solo entrando nella Chiesa dell'Assunzione di Maria è possibile partecipare, oltre che della sua quiete spirituale, anche di una particolare tradizione che ne anima la storia. Si tramanda infatti che intorno all'anno 1500, il nobile feudatario Hartman von Kreigh, stanziato presso Bled, scomparve nel nulla senza lasciare tracce, probabilmente rapito ed ucciso da briganti che ne gettarono il corpo nel Blejsko Jezero. La sua dipartita lasciò in solitudine presso il Castello di Bled la sua consorte di nome Polissena, la quale, consumata dal dolore per la scomparsa del marito, decise di raccogliere tutte le ricchezze possedute per commissionare la fusione di una campana da posizionare nella Chiesa dell'Assunzione di Maria presso il Blejski Otok, dove avrebbe suonato in memoria dell'amato sposo. Ma una nuova sciagura tormentò l'animo della povera vedova: mentre i barcaioli stavano trasportando la campana a bordo della proprio barca sulle acque del Lago di Bled verso l'isola, si scatenò un violento temporale che fece ribaltare l'imbarcazione e sprofondare la campane nella profondità delle acque lacustri. Rassegnatasi al proprio inconsolabile dolore, Polissena decide di abbandonare Bled e di ritirarsi presso un convento a Roma. La campana invece non fu mai più recuperata ed ancora oggi si dice che i suoi rintocchi possano essere udito attraverso l'estensione del lago nelle notti di tempesta. Eppure una campana nella chiesa ci è arrivata ed oggi, come anticipato poc'anzi, risiede al vertice del tetto, al sicuro da vento e pioggia grazie alla piccola torre che la custodisce. Si tramanda che fu il papa a donarla alla chiesa nel corso del XVI secolo dopo aver appreso la vicenda di Polissena. Tradizione vuole che chiunque suoni questa campana vedrà i propri desideri avverati. E rieccoci soli all'interno della Cerkev Marijinega Vnebovzetja: la fune della campana pende da una stretta apertura del soffitto al centro dello spazio, poco prima dell'altare. Un bello strattone ed il suono della campana si espande da qui lungo l'isola, sulle acque del lago, fino alla vicina cittadina di Bled. Il resto lo si può riassumere con un celebre verso di una popolare canzone di Edoardo Bennato su un'isola frequentata da pirati e bimbi sperduti: se ci credi ti basta! Terminata la visita dell'interno della chiesa, ritorniamo all'esterno. Purtroppo non abbiamo abbastanza tempo per salire sulla sommità del vicino campanile, nonostante l'accesso fosse compreso nel biglietto acquistato. Ci limitiamo ad osservare dal basso l'intreccio di scale, passerelle e sostegni che nella pancia della torre campanaria su in alto su avvicendano fino alla sommità dominata dalle tre campane. E' già ora di fare ritorno al molo: ci saremmo fermati volentieri di più per godere dell'atmosfera magica di questo luogo, ma sappiamo che il nostro pletnar ci attende per iniziare il viaggio di ritorno. Ci lasciamo alle spalle la cima del Blejski Otok oltrepassando la Chiesa dell'Assunzione di Maria. Dietro di essa sorge quasi inosservato il volume cubico della Puščavica, un edificio nato originariamente in legno con il fine di ospitare un eremita vissuto sull'isola, successivamente restaurato in muratura nel 1849 ed adibito ad accogliere i pellegrini giunti a far visita all'attiguo tempio mariano. Oltrepassato anche questo punto si scende nuovamente verso le acque del lago per mezzo della scalinata posta sul versante settentrionale, realizzata nel 1852, più stretta della sua dirimpettaia e delimitata su un lato proprio dalla parete della Pustaviča. Da qui il ritorno al molo è brevissimo ed in capo a pochi minuti siamo di nuovo seduti all'interno della pletna.
Fatto ritorno sulle coste del Blesko Jezero, oltrepassiamo l'imbarcadero e proseguiamo la passeggiata sul lungolago. Le sponde lacustri sono infatti percorse dal Sprehajalna Pot Okoli Blejskega Jezera, un sentiero pedonale di forma circolare e lungo 6km. Il percorso è agevole ed adatto a tutti, sempre in piano, per la maggior parte su superficie asfaltata con tratti su sterrato o su passerelle di legno. Percorrerlo è davvero piacevole, la vista sul lago e sui rilievi verdeggianti che lo circondano è stupenda, la sosta è sempre possibile grazie alle numerose panchine che assistono il sentiero, non si incontra la folla congestionata dei siti protagonisti del turismo di massa. In effetti non riesco ancora a spiegarmi come Bled possa essere una città tanto gradevole e tranquilla nonostante nonostante la sua affermata e celeberrima fama di meta vacanziera: agli inizi del XX secolo questa località era considerata uno dei più prestigiosi centri termali dell'Impero Austro-Ungarico in virtù delle numerose e pregiate sorgenti d'acqua che si trovano lungo il versante orientale del lago. Questo patrimonio naturale contribuì in epoca recente al proliferare di alberghi, alcune anche di lusso, ancora oggi presenti in modo vistoso lungo lo spezzone di lungolago che ci troviamo ad attraversare, quello prossimo alla cittadina di Bled. La loro presenza non riesce comunque ad intaccare la pacifica bellezza di questi luoghi. Sul lungolago non ci sono barriere o transenne tra la via ed il lago e questo contribuisce a rendere migliore la vista: si cammina accompagnati dalle acque lacustri e dagli animali che le abitano. Tra di essi soprattutto cigni e anatre, anche se il Blejsko Jezero possiede una fauna variegatissima seppure poco visibile, tra cui 19 specie diverse di pesci, oltre ad una ricca vegetazione il cui schivo riserbo è tradita qua e la da macchie di ninfee che emergono sulla superficie delle acque. Poco oltre il molo a cui sono attraccate le pletna, costeggiamo un anonimo caseggiato che costituisce la parte posteriore di alcune attività commerciali affacciate sulla parallela via cittadina, la patinata Cesta Svobode, tra le quali c'è anche un casinò.
Più avanti il sentiero lungolago segue una leggera curvatura seguendo la sagoma lacustre: in questo punto, poco a lato, si trova Vila Zora, un'elegante villa in stile neogotico realizzata nel 1853 su commissione del commerciante di carbone triestino Karl Rittmayer. E' la più antica delle numerose abitazioni gentilizie che a partire dal XIX secolo, sull'onda dell'aristocratica fama acquisita gradualmente da Bled, sorsero tra i confini della cittadina. Delle 130 ville nobiliari presenti a Bled in passato molte sono purtroppo cadute in rovina. Destino che però non riuscì ad interessare Vila Zora che ancora oggi saluta i passanti in tutto il suo splendore, con la facciata a tre piani caratterizzata da un'ampia balconata coperta lungo quello superiore che peraltro è adornato sui lati da pregevoli affreschi. Oggi, per il suo prestigio, questo edificio ospita gli uffici dell'ente amministrativo locale e regionale. Un'altra villa importante situata lungo le sponde del lago e ben visibile da ogni suo punto è Vila Zlatorg, situata lungo la costa settentrionale, costruita nel 1896 dal commerciante tedesco Adolf Muhr: tipica è la sua facciata ricoperta nella parte superiore da assi di legno e percorsa da balconate lignee, animata dalle verdi imposte posizionate alle finestre e sormontata da un tetto acuto. Lungo il versante opposto del lago sorge invece Vila Bella, caratterizzata dalla candida sagoma bianca, realizzata in stile rinascimentale nel 1870 dalla nobile famiglia Lazzarini, in seguito ristrutturata nel 1884 ed adibita ad ospitare una società alberghiera. Sfiliamo di fronte alla Vila Zora ed al verdeggiante prato sul quale si affaccia, impreziosito da una scritta floreale di colore rosso che compone il nome Bled. Alcuni passi più in là il lungolago si allunga con un piccolo pontile di legno sulla superficie lacustre ed al termine di questa corta passerella giace il Blejsko Srce, un'istallazione a forma di cuore che offre la cornice perfetta per centinaia di fotografie scattate ogni giorno dai turisti con il Blejsko Jezero come sfondo. In questo tratto costeggiamo a breve distanza la Cesta Svobode, uno stretto viale posizionato poco più addentro rispetto al lago: per tutto il periodo della nostra permanenza in città, questa porzione di viale, affacciata sul panorama luminoso offerto dal Blejsko Jezero, è stata occupata da furgoni ambulanti che ogni giorno, soprattutto nelle ore serali, preparavano cibo da strada ai passanti. Al centro dei tavoli che offrono appoggio ai consumatori, un piccolo palco, veniva utilizzato probabilmente per serate musicali e spettacoli di intrattenimento, anche se purtroppo non abbiamo avuto la fortuna di vederlo mai utilizzato. Infatti, anche noi abbiamo approfittato di questa cucina a cielo aperto l'ultima sera del nostro soggiorno a Bled, nel tentativo estremo di fissare nel ricordo quella bellissima cittadina prima di abbandonarla. Procedendo oltre la Cesta Svobode si addentra nel tessuto della città compiendo una vera metamorfosi da tranquillo viale da passeggiata a centro di commercio e divertimento, accogliendo ristoranti, negozi ed alberghi, più avanti divenendo addirittura la strada carrabile che veicola la grande parte del trafico in entrata ed uscita dalla città. Continuando la nostra camminata, poco più in là la nostra passeggiata incrocia sul lato opposto del sentiero la sagoma ben più ingombrante e squadrata del Festivalna Dvorana, edificio di moderna fattura adibito alla funzione di sala da concerti ed ambientazione per eventi, la cui facciata coperta da vetrate suggerisce in effetti assai poco allo sguardo. Più interessante invece la piccola scultura intitolata "Šah" e realizzata da Janez Bolika: sopra un basso piedistallo, all'interno di una teca di vetro cubica, è raffigurata con elaborati pezzi scolpiti in bronzo la celebre mossa d'apertura inventata dall'esimio scacchista sloveno Vasja Pirc. L'occasione per la posa di quest'opera furono le Olimpiadi degli Scacchi tenutesi proprio a Bled nel 2002: a trionfare nell'occasione fu la squadra russa, seguita da quella ungherese ed armena. Per quanto riguarda Pirc invece, fu uno dei massimi esponenti di questa disciplina in Slovenia: fu campione assoluto jugoslavo per ben cinque volte tra il 1935 ed il 1953, venne nominato maestro internazionale nel 1950 e nel 1953 grande maestro, il titolo più alto attribuito ad uno scacchista dopo quello di campione mondiale. Morì a Lubiana nel 1980.
Superato il Festivalna Dvorana, una deviazione dal sentiero principale avvia 150m più avanti l'ascesa, verso la Župnijska Cerkev Svetega Martina, la chiesa principale di Bled. La via, composta da bassi gradoni, risulta poco faticosa e fattibile anche con un passeggino al traino. Dopo un centinaio di metri di percorso arriviamo allo spiazzo sul quale sorge il tempio. Nel punto in cui sorge oggi la chiesa esisteva in origine una più piccola cappella in legno risalente al II secolo d.C. Successivamente riqualificata in mattoni, accanto alla cappella venne eretta nel XIV secolo una chiesa in stile romanico: la struttura della cappella venne trasformata in questa occasione la base per un basso campanile. Nel corso del XV secolo la chiesa fu ristrutturata: nel 1440 venne realizzata una volta gotica a stella nel presbiterio e nel 1445 la navata venne decorata con affreschi. Dello stesso periodo è la realizzazione della cinta muraria deputata a difendere la chiesa dalle incursioni turche, oggi conservata solo in parte. L'edificio venne ricostruito più volte nel XVII secolo; un secolo più avanti la popolazione locale unì gli sforzi sotto la guida del sacerdote Janez Oblak per realizzare una nuova e definitiva struttura. L'attuale chiesa in stile neogotico venne costruita tra il 1903 ed il 1905: a progettare l'opera fu l'architetto austriaco Friedrich von Schmidt, autore tra le altre cose anche del palazzo che ospita il municipio di Vienna. La nuova chiesa fu consacrata il 27 agosto 1905 dal vescovo Anton Bonaventura Jeglič. All'esterno la Župnijska Cerkev Svetega Martina ci appare con i suoi profili appuntiti e taglienti, priva di particolari fronzoli se si eccettua il portale principale scolpito sormontato da una bella ed ampia fenestratura traforata a sesto acuto. Su un lato si innalza la sagoma del campanile, alta 57, simile nella forma ad una matita ben temperata. Giungiamo a visitare il sito dopo il tramonto: il buio della notte ormai sta calando e l'atmosfera che troviamo raggiungendo la chiesa è già particolare osservandone la facciata avvolta dalle ombre serali. Ma è penetrando al suo interno che l'atmosfera diventa magica. Alla definizione degli spazi che si presentano ai nostri occhi una volta entrati nella chiesa partecipò in epoca recente l'architetto ungherese Josip Vancaš, particolarmente prolifico nella seconda metà del XIX secolo nell'area slava, soprattutto su territorio bosniaco. La navata, sulla quale si affacciano alcune cappelle laterali, ci appare in penombra, illuminata tenuemente dalle luci elettriche disposte lungo i due lati. Al centro, precedendo lo spazio dell'altare, un magnifico lampadario di vetro e metallo, realizzato nella prima metà del XX secolo da Ivan Pengov, pende basso dal soffitto. Nonostante la luce soffusa, non si possono non notare i dipinti che coprono le pareti laterali: vennero realizzati dall'artista sloveno Slavko Pengov tra il 1932 ed il 1937. Alla destra dell'altare uno di questi affreschi ritrae la scena dell'Ultima Cena: aguzzando la vista si può notare una certa somiglianza tra il volto del personaggio di Giuda Iscariota e quello del leader socialista russo Lenin, sottile gesto di dissidio politico dell'autore che creò il dipinto. Slavko Pangov in effetti non fu personaggio da poco, come testimonia il fatto che nel 1959 si aggiudicò per il proprio operato il Premio Prešeren, la più alta onorificenza assegnata con cadenza annuale a personaggi di spicco dell'arte slovena. Alzando lo sguardo verso l'alto, immersa nell'ombra appare la volta a crociera di un'accesa tonalità di rosso. Sopra il vestibolo sta la balconata il cui fronte è decorato con trafori e sopra di esso giace l'organo, realizzato a Lubiana da Ivan Milavec nel 1910. Nella luce fioca che ammanta l'interno della chiesa veniamo attiratiti come da una calamita verso l'altare. Il soffitto del vestibolo stacca rispetto alla volta della navata con un fine disegno geometrico dai colori dorati. Prelude all'abside, stretto nel volume ma impreziosito dal disegno geometrico impresso alle pareti, dalle vetrate colorate e dalla volta dipinta di un acceso blu. La maggior parte delle opere scultoree presenti all'interno della chiesa sono pera di Janez Vurnik che le realizzò in marmo tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX secolo. L'altare principale invece, sempre in marmo, è opera di uno scultore il cui nome fu probabilmente Fellner ma di cui si reperiscono poche notizie nei comuni archivi consultabili. La penombra che ci accoglie entrando nella Župnijska Cerkev Svetega Martina aumenta a dismisura la percezione del misticismo religioso che anima questo luogo. La sosta, seppure breve, sulle panche di fronte all'altare, soli ed immersi nel silenzio, diventa così uno dei momenti più intensi e carichi di fascino della nostra permanenza a Bled. Il valore del sito è ulteriormente aumentato da un ulteriore elemento scultoreo posizionato all'esterno di fronte al portale principale della chiesa: si tratta di una colonna votiva dedicata alla Vergine Maria realizzata in pietra da Jože Plečnik nel 1934. Affianca un piccolo crocifisso ligneo coperto da una tettoia. Sul lato opposto invece una piccola aiuola ospita in tiglio piantato nel 1991, anno dell'indipendenza slovena: questa lieve nota secolare nel contesto solenne e spirituale è rafforzata dalla bandiera slovena che dalla cima di una corta asta sventola accanto alla chiesa, proprio al culmine del sentiero che abbiamo percorso per raggiungerla. In effetti, dal 2013 al piazzale antistante la Župnijska Cerkev Svetega Martina è stato attribuito il nome di Slovenski Trg, appellativo celebrante la nazione slovena. Ma a discapito di ciò, la vocazione principale di questo luogo rimane quella religiosa. Non a caso qui si incontrano ben tre cammini spirituali cristiani, il Cammino di Santiago de Compostela, il Cammino di San Martino e l'Emina Romarska Pot. Quest'ultimo segue le orme di Sant'Emma da Gurk, nobildonna slovena vissuta a cavallo tra il X secolo e l'XI secolo: costei ereditò un considerevole patrimonio economico dopo essere rimasta vedova nel 1036 a seguito dell'uccisione del consorte, il conte Wilhelm von der Sann, e dei suoi due figli per mano di Adalbero von Eppenstein, duca di Carinzia destituito un anno prima per tradimento verso l'imperatore Corrado II di Franconia. La vedova investì negli anni successivi tutte le sue ricchezze per costruire chiese oltre che per aiutare poveri ed ammalati. Si ritirò a vita monastica in un monastero benedettino presso la località austriaca di Gurk dove visse i suoi ultimi anni. Fu canonizzata da papa Pio XI nel 1938. Dal spiazzo antistante la chiesa prende principio e procede verso nord uno stretto viale, la Riklijeva Cesta, all'apparenza piuttosto anonimo ma capace comunque di offrire due interessanti spunti. Il primo è legato al personaggio che le dona il nome. Arnold Rikli fu un controverso personaggio di nazionalità svizzera vissuto a cavallo tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX secolo: medico di formazione, fu uno dei precursori della naturopatia moderna, ruolo che gli valse tra la gente il soprannome di "Dottore del Sole". Il suo metodo terapeutico prevedeva camminate nei prati a piedi nudi, attività ricreative all'aperto, bagni solari e termali, fino a pratiche più estreme e meno convenzionali come il nudismo. Era un convinto sostenitore anche del vegetarianesimo, opinione della quale le scoperte successive possiamo oggi dire gli diedero piena ragione, mentre si opponeva fermamente al consumo di alcool e tabacco il cui utilizzo solo decenni più tardi, in epoca moderna, verranno associati a d effetti nocivi sulla salute umana. Una vera cura del benessere fatta di cose semplici ma importanti, di cui forse a ben pensarci troppo spesso ci priviamo relegandole a necessità secondarie ma che invece dovrebbero forse costituire la base di ogni sana condotta. Forse in fondo, Rikli non era così folle e bislacco come la storia lo fece passare. Fondò a Bled, dove si era trasferito intorno al 1850, un comprensorio di medicina naturale che richiamò seguaci da tutta Europa: al motto di "L'acqua è utile, l'aria di più e la luce ancora di più", curò moltissime persone con principi comportamentali ancora oggi molto attuali. I suoi seguaci utilizzavano semplici vestiti di cotone, come una sorta di divisa, ed erano alloggiati presso piccole capanne aperte alla vista verso il lago. Si può discutere molto sull'utilità di queste pratiche nel curare malattie ed infermità, Rikli lasciò in eredità il proprio pensiero ai posteri prima di morire in Austria nel 1906 all'età di 83 anni, testimonianza vissuta e concreta dell'efficacia del suo metodo. Addentrandosi nello spazio urbano di Bled, la Riklijeva Cesta curva leggermente a destra confluendo nella Grajska Cesta. Qui, su un lato della strada, sorge la Slaščicarna Zima, una piccola pasticceria come se ne trova o tante, se non che è al suo interno che assaggiamo per la prima volta la Blejska Kremna Rezina, forse il prodotto culinario più tipico di Bled, Si tratta di una torta composta da una base di pasta sfoglia sopra il quale vengono montati un più spesso strato di crema alla vaniglia ed uno strato più sottile di panna montata, il tutto ricoperto da una seconda lamina di pasta sfoglia. Una vera delizia! Venne ideata nel 1953 dal serbo Ištvan Lukačevic, all'epoca impiegato come cuoco presso il Park Hotel di Bled, tuttora in attività sulla parte pedonale della Cesta Svobode, nei pressi del casinò. La sua preparazione è a buon diritto oggi tra le più radicate tradizioni che caratterizzano la cittadina di Bled, tanto da comprendere questo dolce tra i prodotti locali ad origine controllata.
Ritornando sui nostri passi verso la Župnijska Cerkev Svetega Martina, dalla Slovenski Trg si diparte un altro importante percorso: da qui uno stretto sentiero si addentra nella macchia boschiva ed inizia a salire verso l'alto. La via non appare particolarmente difficoltosa, di breve distanza, praticabile tranquillamente anche con bambini. L'ultima porzione si fa più ripida, procedendo su gradini forniti di balaustre a protezione del camminamento, ma in capo a circa 200m complessivi di marcia si raggiunge una piattaforma aperta disposta su un rapido pendio. Questa, compiuto l'ultimo brevissimo tratto di percorso, conduce infine all'ingresso del Blejski Grad, il Castello di Bled. Questo sito costituisce indubbiamente il gioiello più luminoso letteralmente incastonato nella pietra delle montagne che circondano Bled su tutti i lati. La sua bellezza è indiscutibile, arroccato com'è su un nudo sperone roccioso emergente dalla boscaglia, disposto a strapiombo 130m sopra il Blejsko Jezero, ad un'altitudine di 604m s.l.m. La sua sagoma, visibile da ogni punto della sottostate cittadina e dell'attiguo lago, rende piacevole e mai sazia la vista da ogni punto di osservazione, componendo l'immagine più celebre e caratteristica di questi luoghi. Lo Scultore di Paesaggi ha compiuto qui uno dei suoi più eccelsi capolavoro, tanto massiccio nella forma quanto leggero nell'innalzarsi in alto sopra il suolo. Al di là della sua rilevanza paesaggistica, non è da dimenticare nemmeno il valore storico del Blejski Grad: si ritiene che questa fortezza sia una delle più antiche di tutta la Slovenia. La sua vicenda risale infatti al 1004, anno in cui l'imperatore Enrico II di Sassonia concesse il feudo dei territori di Bled al vescovo Albuino di Bressanone, probabilmente come tributo di riconoscenza per il sostegno rivolto al trono imperiale; sette anni più tardi, nel 1011, venne ceduto al vescovado di Bressanone anche il possesso della locale fortificazione, all'epoca costituita solamente da una torre difensiva eretta sulla roccia. A partire da tale data iniziò la costruzione del primo blocco di quello che nel tempo diventerà il castello giunto fino ai giorni nostri: l'opera prevederà la costruzione di torri difensive, l'innalzamento delle mura di cinta, e la realizzazione di un fossato sormontato da un ponte levatoio, elemento successivamente riempito e quindi oggi andato perduto. Il vescovado mantenne la gestione diretta della fortezza fino al 1371, epoca in cui venne ceduta a Konrad von Kreigh, probabilmente come garanzia per un prestito di denaro ricevuto. Per circa due secoli il castello non cambierà amministratore annoverando tra i propri padroni anche quell'Hartman von Kreigh protagonista della leggenda sulla campana dei desideri situata nella Cerkev Marijinega Vnebovzetja sul Blejski Otok; nel mentre il terremoto del 1511 apportò danni a molti degli edifici della fortezza di entità talmente ingente da richiedere i 60 anni successivi per il completamento dell'opera di riparazione. Nel 1515 il casato dei Kreigh fu coinvolto nelle rivolte contadine che riguardarono in modo generalizzato numerosi territori sloveni oltre Bled: al centro della protesta c'erano le dure condizioni alle quali i contadini venivano sottoposti da padroni opprimenti, inflessibili, spesso crudeli; la richiesta avanzata alle autorità imperiali era quella di abolire il sistema feudale e rivedere la regolamentazione tributaria, ma il movimento venne soppresso e la protesta soffocata. Le conseguenze della sommossa non riguardarono però solo il vogo ed uno dei risultati fu che dopo l'uscita di scena dei Kreigh il Blejski Grad venne rilevato nello stesso anno da Herbard Turjaški, condottiero militare carniolano, considerato uno degli eroi delle lotte contro l'invasore ottomano. Questo paladino della resistenza slovena rimarrà ucciso in una battaglia contro i turchi nel 1575, la testa sottratta alle sue spoglie verrà conservata come trofeo dal nemico ed imbalsamata per essere successivamente venduta ai discendenti che la conservarono fino al 1943, anno in cui la reliquia andò persa nella devastazione della II Guerra Mondiale. Ad ogni modo, il legame tra Herbard Turjaški ed il Blejski Grad era terminato già nel 1574, con la fuga da Bled del condottiero causata dal suo strenuo sostegno alla fede protestante: il castello ed il feudo circostante era dopotutto ancora un possedimento del vescovado di Bressanone, mentre Turjaški non si fece molti problemi ad ospitare a Bled nel 1561 il principale divulgatore del protestantesimo sloveno Primož Trubar, evento commemorato da una targa posta dal 2021 a lato della soglia del castello. Ad amministrare il castello ed i suoi dintorni venne posto prima il barone Ivan Josip Lenkovič, di convinzioni religiose più convenzionali, poi il conte Žiga Turn. A partire dal 1597 il vescovado nominò direttamente una lunga serie di tenutari che si avvicendarono nei decenni successivi nella gestione del Blejski Grad: tra di essi i casati nobiliari degli Eggenberg (prima metà del XVII secolo), quello dei Petschacher (seconda metà del XVII secolo) e quello dei Gellenfal (fine XVII secolo e prima metà del XVIII secolo), questi ultimi artefici delle opere di ricostruzione che riguardarono il castello dopo che un nuovo terremoto lo danneggiò nel 1690. Già in precedenza la fortezza era stata protagonista di due incendi scatenati dalla caduta di fulmini. Nel 1803, il castello venne nazionalizzato dalle autorità imperiali austriache e tolto quindi al vescovado di Bressanone, mentre tra il 1809 al 1813, anni di occupazione francese, fu governato da Auguste Marmont, maresciallo dell'esercito napoleonico. Nuovamente nel 1838 il possesso della fortezza venne rilevato per un breve periodo dal vescovado di Bressanone, il quale a causa dei notevoli costi di gestione sopravvenuti a seguito dell'abolizione del sistema feudale lo vendette successivamente nel 1858 all'imprenditore dell'industriale del ferro Viktor Ruard. Nel 1882 il sito fu acquistato da quello stesso Adolf Muhr il cui nome è già ricorso nella narrazione riguardante Vila Zlatorg; nel 1918 fu il turno dell'albergatore Ivan Kenda a subentrare nel fitto avvicendamento dei proprietari che detennero il castello: il suo scopo era quello di trasformare il sito in una sorta di albergo, prpogetto fortunatamente naufragato a seguito della crisi finanziaria a cui l'imprenditore andò in contro nel 1937. Il Blejski Grad venne quindi confiscato dalle autorità del Regno di Jugoslavia ed oggi è patrimonio pubblico sotto la tutela dell'amministrazione locale. Nel 1947 un incendio provocò ingenti danni a numerosi edifici: si rese necessaria una profonda opera di restauro e protezione che venne portata a termine tra il 1952 ed il 1961 sotto la direzione dell'architetto Tone Bitenc. L'occasione, pur nella sua accezione negativa, fu propizia per intraprendere alcuni studi archeologici sui luoghi del castello e donò ai posteri, a lavori compiuti, una struttura adatta alle visite da parte del pubblico; facendo del Blejski Grad una delle attrazioni turistiche più celebri di tutta la Slovenia. Gli ultimi lavori di restauro condotti sul castello risalgono invece al 2008. Sorprendentemente il complesso fortilizio non venne mai abitato da alcuno dei vescovi di Bressanone che ne furono i più duraturi proprietari, avendone mantenuto il possesso per più di 800 anni: dall'alto della sua posizione strategica, il suo fine era originariamente quello di presidiare e difendere il territorio circostante, senza mai assumere scopi di tipo residenziale. Circostanza questa che stona con il prestigio e la bellezza che il sito è capace di offrire.
Non vogliamo perderci lo spettacolo offerto da questo scenario e nonostante il cielo pomeridiano minacci pioggia, ci avventuriamo lungo la salita che parte dalla Župnijska Cerkev Svetega Martina ed in capo ad una ventina di minuti raggiungiamo l'ingresso del castello: il percorso si svolge inizialmente su un ombreggiato sentiero a gradoni, successivamente su una corta scalinata a gradini. Si raggiunge così un più ampio terrazzamento erboso attraversato da vialetti. Nell'ultimo tratto di cammino, una stretta corsia con fondo in acciottolato ci accompagna lungo la ripida salita verso lo stretto portale di accesso, presidiato dal piccolo botteghino della biglietteria. Paghiamo la tariffa di ingresso di 17€ per gli adulti e 7€ per i bambini sotto i 14 anni di età (biglietto gratuito per bambini sotto i 4 anni) e penetriamo nel cortile della fortezza. La struttura del castello è raccolta intorno a due cortili, uno posizionato sul piano dell'ingresso, l'altro su una piattaforma superiore che è possibile raggiungere attraverso una corta scalinata di pietra. Al centro del complesso sorge il volume massiccio dell'edificio deputato ad ospitare le stanze dei signori feudali. Il cortile inferiore ci accoglie all'inizio della nostra visita. La prima cosa che si nota al centro dello spiazzo è la sagoma di un pozzo in pietra coperto da una tettoia: profondo 12m, qui veniva raccolta l'acqua piovana che serviva per l'approvvigionamento idrico del castello. Il perimetro del cortile cortile più basso è chiuso dalla cinta muraria, nello spessore della quale si aprono gli spazi di alcuni particolari ambienti. Tra di essi, quello probabilmente più caratteristico ospita i locali di un'antica tipografia: al suo interno è custodito il prototipo dell'antica macchina da stampa in legno progettata da Johann Gutenberg, l'inventore tedesco che nel XV secolo ideò la stampa. Nel locale della stamperia, un personaggio in costume medievale esegue stampe tipografiche su carta, un piacevole ricordo di Bled e del suo bellissimo castello, magari un piccolo segnalibro personalizzato da portare sempre con sè. A sormontare questi locali di confine, al culmine delle mura romaniche, si estende il camminamento di ronda, coperto da una tettoia di legno: da qui le sentinelle medievali presidiavano notte e giorno l'ingresso alla fortezza. Il decorso di questo corridoio sopraelevato è chiuso dalla sagoma piena del torrione difensivo, oggi adibito ad ospitare le sale di uno spazio espositivo nel quale vengono ospitate mostre artistiche temporanee. Sul lato opposto è invece una torre a pianta squadrata, alla cui base si apre il portale principale d'accesso che abbiamo poc'anzi attraversato, a confinare lo sviluppo del camminamento di ronda.
Sull'altro lato del cortile inferiore invece una scalinata di pietra conduce ad un piccolo spazio sopraelevato sul quale si affacciano i locali di una cantina. Le piccole dimensioni rendono davvero facile abbracciare con uno sguardo tutto l'ambiente del cortile inferiore, ma fatti pochi passi più avanti, raggiunto il basso parapetto di pietra che ne segna il limite rivolto verso il centro abitato di Bled, risulta impossibile concepire con una semplice occhiata tutta la bellezza del panorama che si apre davanti ai nostri occhi. Il Lago di Bled, disteso con la sua quiete massa di acque azzurre a picco sotto la scogliera del castello, offre uno spettacolo meraviglioso, completato sulla sinistra dalle linee intrecciate della cittadina, sopra le quali spicca la forma prossima della Župnijska Cerkev Svetega Martina. Leggermente più lontana, verso il margine opposto del lago, il Blejski Otok sembra quasi un minuto sassolino emergente da una grande pozzanghera. Il fascino di questo pregevole scorcio è magnetico, accentuato ulteriormente da un piccolo punto ristoro composto tavolini di pietra e sedie che obbligano qualunque visitatore a sedersi per assaporare con calma il panorama: non siamo capaci di resistere a questo richiamo e ci concediamo anche noi un breve momento di riposo, ovviamente accompagnati da dei buoni gelati acquistati presso la caffetteria presente all'aperto al riparo sotto una tenda sul fondo della terrazza.
Il patrimonio di bellezza custodito dal Blejski Grad non termina però qui: attraverso brevi rampe di scale presidiate dalla grande bandiera slovena sventolante sulla propria asta, si raggiunge il cortile superiore, a fondo lastricato e più aperto di quello sottostante. Qui si aprono le sale del corpo centrale del castello, in stile barocco, quello un tempo destinato alla nobiltà, oggi deputato ad ospitare un ristorante ed uno spazio museale. Al margine opposto del cortile troneggia invece un grande chiosco, aperto suo quattro lati da portali ad arco, sotto il cui spazio vediamo svolgersi i preparativi per una cerimonia nuziale: il Castello di Bled è infatti meta aristocratica per matrimoni e ricevimenti. Passeggiare per il cortile superiore circondati dagli azzimati invitati in attesa dell'inizio del rito ci suscita una certa stranezza, come il sentore di essere partecipanti non invitati ad una festa. Ma l'impressione stonata dura poco: procediamo di qualche passo lasciandoci alle spalle camerieri indaffarati ad allestire tavoli e sedie per il matrimonio e ci fermiamo di fronte all'ingresso del museo che illustra numerosi reperti inerenti la storia di Bled. Facciamo qualche passo al suo interno ma rinunciamo subito a visitarlo per intero, attirati nuovamente dallo spettacolo della vista panoramica che il cortile superiore offre. Ci soffermiamo comunque qualche istante ad osservare la curiosa lapide collocata sul lato del portale del museo: raffigura il cavaliere Gašper Lambergar, campione delle giostre medievali, ricordato come vincitore di decine di tornei cavallereschi. Questo prode combattente, celebre per la forza ed il coraggio, visse in un castello oggi andato in rovina e situato nei pressi della cittadina slovena di Radovljica, prossima a Bled, e quella esposta all'esterno del museo situato nel Blejski Grad è la sua pietra tombale. Questo personaggio, vissuto a cavallo tra il XV secolo ed il XVI secolo, è considerato oggi un eroe dell'epoca cavalleresca slovena, anche il virtù del ruolo da protagonista all'interno del poema di autore ignoto "Pegam in Lambergar", nel quale sconfigge in duello il gigante Pegam, da molti considerato impersonificazione dell'invasione straniera in relazione alla disputa per i territori di Celje che nel XV secolo videro contrapposti gli Asburgo al ceco Jan Vitovec (la parola slovena behaim, simile al nome dell'avversario di Lambergar nel poema, si traduce letteralmente con "ceco").
L'elemento architettonico però più importante del complesso del Blejski Grad è sicuramente la piccola cappella del castello (Grajska Kapela) situata nell'angolo più settentrionale del cortile superiore. La sua costruzione in stile gotico risale al XVI secolo, ma venne ristrutturata dopo il terremoto che colpì queste zone nel 1690: in quest'occasione la sua struttura venne sopraelevata e coperta da volte barocche. Oltrepassiamo il suo stretto ingresso, separato da quello del museo dalla soglia di un anonimo negozio di souvenir. Il suo spazio interno è davvero contenuto, ma offre alla vista pregiati affreschi in stile tromp-l'œil realizzati alla fine del XVII secolo lungo le pareti, seppure quelli lungo il lato meridionale siano oggigiorno piuttosto usurati dal tempo. Accanto all'altare, semplice e luminoso, i dipinti murari ritraggono le figure dell'imperatore Enrico II di Sassonia e della consorte Cunegonda di Lussemburgo. La volta invece raffigura la scena del martirio di . La cappella è intitolata a Sant'Albuino, il già citato vescovo di Bressanone di origini carinziane che ricevette in dote dall'imperatore i possedimenti di Bled, ed a Sant'Ingenuino, vescovo di Sabiona vissuto a cavallo tra il VI secolo d.C. ed il VII secolo d.C. I ritratti di questi due santi popolano gli affreschi che coprono le pareti della cappella. Un altro vivido dipinto murale campeggia lungo la volta: raffigura un martire, probabilmente San Giorgio, legato ad un palo e torturato da omuncoli vestiti in abiti seicenteschi, i quali con punteruoli e coltelli gli infliggono ferite al corpo e lo accecano.
L'ambiente di questo piccolo spazio di culto, riconsacrato nel 2014 e quindi oggi idoneo al culto religioso, parla un idioma antico e vissuto, ma a contrastare con il ontano passato da cui proviene l'edificio fa mostra di sè lungo un lato della stretta navata, sorprendentemente a suo agio rispetto all'antichità del luogo, una moderna scultura realizzata da Slavko Oblak nel 2004. Raffigura la Madonna col Bambino, le sue linee astratte e dolci, estratte dal bronzo scuro. L'immagine si spoglia di tutti i dettagli, rimangono solo i profili asciutti, senza connotati, e ciò rende possibile una vicinanza al divino che scalda l'animo dell'osservatore prima ancora che sopraggiunga lo stupore per la delicata bellezza di questa scultura. Nato in in un villaggio vicino a Bled nel 1934, il padre era un falegname, Oblak si formò come artista negli anni '50 del XX secolo studiando la materia presso Monaco di Baviera, in Germania. Durante questo periodo si guadagna da vivere lavorando come operaio in una fonderia, esperienza questa che costituirà la fonte principale della sua predilezione per il bronzo nelle sculture che successivamente realizzerà. In seguito si stabilì presso la cittadina tedesca di Landshut, prossima al capoluogo bavarese, dove allestì una fonderia privata per realizzare le proprie opere. Le uniche sue opere presenti su suolo sloveno si possono ammirare solo a Bled: quattro installazioni, tutte in bronzo, sono distribuite negli spazi aperti della cittadina in riva al lago. La prima di esse è la Brstički Vodnjak, la Fontana dei Germogli, realizzata nel 2002, situata di fronte a Vila Zora: è costituita da una sfera bronzea divisa in tre sezioni, rappresentante un bocciolo stilizzato, dal quale l'acqua defluisce verso la vasca circolare in pietra. Poco distante, lungo il Sprehajalna Pot Okoli Blejskega Jezera, sorge invece il Ciklama ob Jezeru, una scultura inaugurata che ritrae le forme astratte di un ciclamino, inaugurata nel 1997. E' questo un fiore dal forte simbolismo popolare: raccolto nei vicini boschi, veniva utilizzato fin dai tempi antichi per decorare gli altari mariani; inoltre gli sono attribuiti poteri magici, attivi soprattutto su lussuria e fertilità, tanto che spesso veniva conservato dalle donne in cerca di gravidanza. Di fronte al Festivalna Dvorana è collocato invece il Blejska Ptica, l'opera più antica di Oblak custodita a Bled, realizzata nel 1977: rappresenta con i soliti tratti trascendentali, quasi mistici, la sagoma di un uccello. Infine il Gajski Cvet, del 2021, un fiore di bronzo collocato sulla superficie del terrazzamento erboso che conducono al Blejski Grad. Tutte le opere di Oblak, ad eccezione di quella a tema religioso esposta presso la cappella del castello, si pongono come tema dominante la convivenza dell'arte, espressione creativa dell'uomo, con la natura, nel tentativo di dare vita ad una creazione che funga da ponte tra l'essere umano e la Natura che lo circonda, senza stravolgerne i tratti e nel rispetto della sua bellezza.
Abbandoniamo il Blejski Grad dopo aver portato a termine la visita ammirando un'ultima volta il bellissimo paesaggio offerto alla vista dal terrazzo del suo cortile superiore: da qui è possibile abbracciare con un solo sguardo tutto il panorama verso sud che Bled ha da offrire. Lo sfondo di questo scenario colto dall'alto è dominato dalle Caravanche, una catena montuosa, frazione delle Alpi Giulie, situata al confine tra Slovenia ed Austria; più ravvicinata, leggermente spostata sulla sinistra e prossima alla riva meridionale del Blejsko Jezero che domina con la propria sagoma tondeggiante, sorge la collina Straža, alta appena 646m, sulle cui pendici ricoperte di boscaglia si apre una breccia occupata da una piccola area attrezzata con un percorso di slittini su rotaie, visibile anche dalle rive lacustri, meta obbligata per chiunque viaggi con bambini al seguito. Altra attrazione molto apprezzata dai più piccoli è il Grajsko Kopališče, uno stabilimento balneare disposto lungo la costa del Lago di Bled, proprio ai piedi della rocca del castello, e fornito di vasche per adulti e bambini di ogni età, uno scivolo acquatico, un trampolino per i tuffi, dei gonfiabili in acqua, oltre ai servizi igienici e ad ad un bar: nonostante l'ambiente gremito di gente, il sito offre un'occasione per bagnarsi nelle fredde acque lacustri e per concedere ai più piccoli un po' di spensierato divertimento. Anche se il ricordo più vivido di Bled che porterò con me e quello di una curiosa esibizione alla quale abbiamo assistito presso la terrazza dell'Hotel Kompas, evento compreso nell'offerta di cui usufruiamo presso il nostro albergo: alcuni esponenti di un'associazione culturale locale mostrano agli ospiti alcuni balli folcloristici di questa regione. Sono vestiti con gli abiti tradizionali della Gorenjska: gli uomini con un cappello a tesa larga sul capo, i piedi avvolti da pesanti calzettoni e chiusi in stivali di cuoio, una camicia bianca guarnita da un panciotto dotato di tanti bottoni quanto più il proprietario era ricco, tra la camicia ed il panciotto veniva indossato sulle spalle un drappo frangiato nei giorni di festa; le donne con voluminose gonne variopinte lunghe fino alle caviglie, sotto di essa un numero di sottovesti proporzionata alla ricchezza di chi le vestiva, un grembiule a coprirne la superficie frontale, un corpetto colorato sopra una camicia bianca, uno scialle colorato da vestire nei giorni festivi, una semplice cuffia sulla testa. Al ritmo della musica suonata con fisarmonica e tamburo a frizione, le figure si esibiscono in alcune danze popolari, intervallando questo momenti con interessanti racconti esplicativi. Alla fine dell'esibizione, anche gli ospiti vengono coinvolti nelle danze, occasione per mostrare la mia scarsa attitudine al ballo. Ad ogni modo, questo si rivela un preziosissimo momento di contatto e condivisione tra culture differenti ed i volti con i sorrisi dei personaggi impiegati in questa piacevole attività sarà uno dei ricordi più vividi di questa nostra visita a Bled. Un sorriso divertito mi spunta sulle labbra ricordando l'esclamazione di giubilo pronunciata dai danzatori durante i balli, una specie di grido liberatorio lanciato dagli uomini: "Iiiiiiiiiii-uhuh!".
Le mete di prestigio facilmente e velocemente raggiungibili da Bled sono svariate e differenti. Ce n'è un po' per tutti i gusti. Per la nostra prima escursione partendo dalla cittadina in riva al lago ci avviamo a bordo della nostra automobile dirigendoci verso ovest lungo la Cesta Svobode. Costeggiamo il Blejsko Jezero per la primissima porzione di tragitto, oltrepassiamo una corta galleria scavata nella roccia, poco più avanti superiamo una piccola insenatura del lago fiancheggiata da esercizi commerciali turistici e lungo le rive erbose della quale numerosi bagnanti si godono il sole estivo, propaggine periferica ma piacevole della vicina cittadina. Ci lasciamo alle spalle Bled e proseguiamo la nostra corsa: il percorso si addentra in un paesaggio più agreste delimitato da verdi colline ed scandito qua e là da piccoli aggregati di edifici. Macinata una ventina di chilometri, raggiungiamo il villaggio di Bohinjska Bistrica che superiamo senza indugio. Oltrepassiamo poco più avanti altri piccoli insediamenti abitati, la strada procede sinuosa e poco prima di raggiungere la nostra destinazione al lato della via incontriamo un cartello che battezza il territorio che stiamo attraversando come parte del Triglavski Narodni Park. Se mai lo Scultore di Paesaggi abbia posseduto una casa, sono sicuro che si troverebbe qui, modellata pazientemente nel corso dei secoli dal lavoro dello scalpello la cui bellezza è la stessa che si può infondere solamente alle cose che si sentono come proprie. Ci troviamo all'interno dell'unico parco nazionale sloveno, esteso per 838km² nella parte nordoccidentale della Slovenia, fino a lambire i confini con l'Italia ad ovest e con l'Austria a nord. Occupa il 4% della superficie nazionale complessiva, comprendendo la maggior parte dei territori montani occupati dalle Alpi Giulie su suolo sloveno. Le prime proposte di costituzione sotto tutela del suo primo nucleo territoriale, condensato in appena 16km² di superficie disposta intorno ad una mangiata di laghi alpini, iniziarono già dal 1906 ma si concretizzarono solo nel 1924, circostanza che rende il Triglavski Narodni Park uno dei parchi naturali più antichi presenti in Europa. Nel 1961 la superficie protetta venne estesa a 20km² e dichiarata ufficialmente parco naturale nazionale; solo nel 1981 le dimensioni del parco raggiunsero quelle attuali. Dal 2004 invece al parco è conferito i Diploma Europeo delle Aree Protette, certificazione continentale istituita nel 1965 ed attribuita ai siti europei di maggior prestigio dal punto di vista naturalistico e paesaggistico: a tale pregio concorre la composizione calcarea della roccia che compone la superficie del parco, la quale predispone questi territori a fenomeni carsici di particolare rilievo. A donare il nome a quest'area naturale protetta è il monte Triglav (in italiano Monte Tricorno), la cima più alta del parco, la vetta più elevata presente in Slovenia, la montagna più elevata dell'intero arco delle Alpi Giulie: da terra questo gigante di roccia si eleva verso il cielo per ben 2864m. L'appellativo gli è attribuito in virtù dei tre picchi che ne caratterizzano la sommità e dalla lingua slovena si potrebbe tradurre letteralmente con "tre teste". Ad esso è associato anche un antico racconto mitologico che narra di come un tempo la cima della montagna fosse abitata dalla divinità slava Tryglav, la quale ne dominava l'altezza sedendo sul proprio trono: l'aspetto di questa creatura soprannaturale era caratterizzato dalle presenza di tre teste, ciascuna delle quali dominante sugli spazi idealistici della terra, del cielo e dell'oltretomba, peculiarità che la avvicina nella triplice declinazione alla Trinità cattolica. Il suo immenso potere le consentiva di controllare la forza del fulmine, capacità che la avvicina maggiormente invece a Zeus, sovrano degli dei greci. Tryglav veniva descritto come un essere umano tricefalo, altre volte come un essere ibrido con teste di caprone, spesso i suoi occhi erano coperti da una benda dorata per impedirgli di vedere le ignobili malefatte degli uomini che abitavano il pianeta, i quali senza dubbio avrebbero provocato la sua inarrestabile ira. Il mostro a tre teste svolgeva attentamente il proprio ruolo di custode delle tre dimensioni che si credeva suddividessero la realtà, il terrestre Jav, l'etereo Pav e l'ultraterreno Nav, tutti creati dalla divinità suprema Svarog all'alba dei tempi: fu proprio prima della nascita del Mondo che Svarog sconfisse in combattimento il gigantesco serpente Zmaj, usando dopo averlo domato il suo corpo come un aratro per segnare il confine tra il regno dei vivi e quello dei morti. Oggi di questa leggenda rimane solo un'eco lontana, richiamata però costantemente dalla forma dei tre picchi che compongono la cima del Triglav: il suo profilo lo avevamo già potuto scorgere chiaramente dalle terrazze del Blejski Grad, spingendo lo sguardo verso sud, al margine destro dello scenario offerto dalla sommità del castello, inconfondibile con la sua forma a tre punte simile ad una corona di roccia. La sua sagoma è raffigurata anche sia sulla bandiera nazionale slovena, sia sul retro delle monete slovena da 0,50€, insieme alla costellazione del Cancro, sotto la quale è nata la giovane nazione slovena, ed alla scritta "Oj Triglav moj dom" (letteralmente "Oh Triglav, mia casa"). In effetti, nonostante le sue imponenti dimensioni, un famoso detto della cultura popolare afferma che ogni sloveno dovrebbe salire sulla cima del monte Triglav almeno una volta nella vita: impresa più facile a dirsi che a farsi. La strada è comunque segnata dal momento che la vetta del gigante di pietra venne raggiunta per la prima volta già il 26 agosto 1778: a compiere l'impresa fu la spedizione finanziata dal barone Sigmund Zois von Edelstein e composta dai minatori Luka Korošec e Matija Kos, dal cacciatore Štefan Rožič e dal chirurgo Lovrenc Willomitzer.
Ad poco più di 15km verso sud rispetto al monte Triglav, si estende il lago naturale permanente più vasto della Slovenia, il Bohinjsko Jezero, in lingua italiana conosciuto come Lago di Bohinj. Questo primato fa un po' sorridere se si pensa che questo specchio d'acqua è lungo appena 4,3km e largo solo 1,2km, la sua superficie complessiva raggiunge i 3,2km² e la profondità massima che è in grado di raggiungere tocca i 44m. La sua origine risale a circa 10.000 anni fa' ed è riconducibile all'opera erosiva condotta dalla retrazione del ghiacciaio che all'epoca occupava questo sito. Ci troviamo a 525m s.l.m. ma nonostante l'esigua altitudine, lo scenario che offre il Bohinjsko Jezero è un'immagine che difficilmente abbandona il ricordo di chi si trova a coglierla: un tappeto d'acqua azzurra contornato da prati erbosi, vasti boschi e più lontano colline verdeggianti. Si narra che persino la scrittrice Agatha Christie, ammirando durante una visita la bellezza del paesaggio offerto dal contesto nel quale è immerso il lago, esclamò: "Questa valle alpina è troppo bella per il delitto!". Lo splendore di questo luogo attira oggigiorno una buona quantità di visitatori, e solo la vicinanza alla più rinomata Bled risparmia questo sito dal turismo di massa, mantenendolo ancora vivibile ed apprezzabile: le acque balneabili e la presenza di diverse attività ricreative e sportive contribuiscono decisamente a rendere questa meta appetibile. Ma non va dimenticato che il Bohinjsko Jezero custodisce anche una preziosa biodiversità, ulteriore testimonianza dell'attenzione simbiotica che gli sloveni dedicano costantemente all'ambiente: in queste acque abitano infatti 16 specie autoctone di pesci, circa 60 specie di invertebrati e 53 varietà di alghe. Raggiungiamo l'estremità orientale del lago penetrando a bordo della nostra automobile nell'abitato di Ribčev Laz, un minuscolo villaggio di poco più di 200 abitanti. Qui, deviando a destra rispetto alla strada principale, uno stretto viale si dirige verso nord, oltrepassando il punto in cui dalle acque lacustri emerge il fiume Sava Bohinjka del quale distinguiamo le limpide acque superando un piccolo ponte di pietra che ne valica l'alveo, struttura risalente al 1926 e successiva rispetto ad un precedente passaggio realizzato in legno. E' questo un breve corso fluviale che dopo aver tratto origine dal bacino del Bohinjsko Jezero scorre verso oriente per gettarsi al termine di 30km di percorso nelle acque della Sava. Poco più in là, a lato della via, sorge la Cerkev Svetega Janeza Krstnika, la Chiesa di San Giovanni Battista, uno degli esempi più prestigiosi di architettura medievale in Slovenia oltre che uno dei punti panoramici più privilegiati per godere della vista sull'attiguo lago.
La struttura originaria di questo tempio, in stile romanico, risale al XII secolo, sebbene probabilmente una chiesa più antica fosse già presente sul luogo in un periodo compreso tra il X secolo e l'XI secolo. L'edificio venne poi ampliato nel corso del XV secolo e la navata principale venne rinnovata durante il XVI secolo. Il campanile, in stile barocco e alto 35m, risale invece alla prima metà del XVIII secolo. A guardarla dall'esterno poco viene suggerito allo sguardo: il profilo dell'edificio appare austero, scarno, spigoloso, ma questo scrigno poco appariscente ed un poco consumato dal tempo conserva al proprio interno uno dei cicli di affreschi più importanti della zona, forse dell'intero territorio sloveno: peccato non poterli apprezzare da vicino, la nostra destinazione è un'altra e le bambine sono già sedute sui propri seggiolini da diverso tempo. Ma non solo solo gli affreschi ad essere custoditi dalla Cerkev Svetega Janeza Krstnika, ad animarla c'è anche un'antica leggenda che narra di come Dio, terminata la propria opera di creazione, suddivise equamente il Mondo tra tutti gli esseri umani ma si dimenticò di un piccolo gruppo di uomini tranquilli e pacifici, i quali non si erano affannati come tutti gli altri a presentare davanti a Dio le proprie pretese. Rimanendo commosso dall'indole umile e mite di questo sparuto popolo, Dio provò compassione per loro e fu così che decise di destinare loro la parte più bella di quanto aveva generato: il luogo venne chiamato Bohinj, dalla parola slovena arcaica Boh che evolverà nel tempo nell'attuale Bog, traducibile in italiano con "Dio". Non c'è quindi da stupirsi se lungo a ridosso delle rive del Bohinjsko Jezero sorge una chiesa, testimonianza simultanea del legame tra uomo e divino oltre che della bellezza irraggiungibile del creato. Senza dimenticare che anche nei culti pagani erano attribuite virtù mistiche e magiche a laghi e fiumi, spesso considerati rifugio di entità ultraterrene o di creature magiche.
Procediamo la nostra escursione e costeggiamo, sempre in automobile, la rive meridionale del lago: poco più avanti, al bordo della strada, adagiata sopra uno sperone di roccia collocato lungo la riva lacustre, notiamo al passaggio il Kip Zlatoroga, una statua a grandezza naturale ritraente il leggendario camoscio dal manto bianco e dalle corna dorate noto nella tradizione popolare slovena come Zlatorog (dallo sloveno zlati rog, vale a dire appunto "corna d'oro"). Si tratta di un animale mitico la cui vicenda racconta l'esistenza di un giardino paradisiaco nascosto in un luogo segreto lungo le pendici del monte Triglav. Qui Zlatorog capeggiava il proprio gregge e custodiva un preziosissimo tesoro composto da oro e gioielli, accompagnato da tre bellissime fate con le quali condivideva il remoto ed incantato rifugio. Un giorno, un giovane cacciatore, tanto povero quanto ingenuo, si avventurò sui sentieri montani con il desiderio di portare in dono alla propria amata un poco dell'oro di Zlatorog, scovandone il nascondiglio: la giovane fanciulla di cui era innamorato era stata promessa in sposa ad un ricco mercante ed il desiderio del ragazzo era quello di rivalersi di fronte al rivale in amore oltre che di riconquistare la bella amata. Abituato a recarsi sul Triglav per cogliere i fiori più belli da regalare alla giovane, quel giorno il cacciatore si imbattè in Zlatorog che ferì a morte con un colpo del proprio fucile: il camoscio dalle corna dorate stramazzò al suolo, ma prima che il cacciatore potesse esultare per il successo del proprio tiro, dalle ferite dell'animale il sangue riversato sulle dure rocce montane generò miracolosamente un fiore dal quale Zlatorog nacque a nuova vita. L'animale mosse la difesa contro l'incredulo aggressore, il quale fu spinto sull'orlo di un crepaccio cadendo spinto da dalla bestia nel vuoto retrostante. Deluso dall'insensata avarizia degli esseri umani Zlatorog si adirò al punto da radere al suolo ciò che circondava la montagna da lui abitata, creando in tale maniera il paesaggio roccioso e desolato che ancora oggi caratterizza i dintorni del Triglav.
Per chi è disposto a crederci, il camoscio dalle corna dorate abita ancora oggi i boschi di questa regione, ma non pensate sia facile trovarlo, come non è facile trovare il tesoro da lui custodito sul Triglav; ciò che invece è piuttosto semplice è scorgerne la sagoma ferma in posa lungo le rive del Bohinjsko Jezero, e da lontano devo ammettere che la statua sembra quasi avere connotati vivi e dinamici, portale di collegamento tra realtà e fantasia che lo scenario da favola circostante contribuisce a confondere. La storia di questa mitica creatura è frutto di secoli di tradizione tramandata oralmente; a diffonderla a livello continentale fu il poeta tedesco Rudolf Baumbach, il quale ne riassunse la narrazione nel poema in versi "Zlatorog: eine Alpensage", pubblicato nel 1877, anche se il racconto era già stato messo per iscritto nel 1868 dal naturalista Karel Dežman e pubblicato sul giornale sloveno in lingua tedesca "Laibacher Zeitung". La leggenda di Zlatorog oggi vive nel marchio di una celebre birra slovena, la Pivovarna Laško, un muso di camoscio dalle corna dorate sull'etichetta apposta a bottiglie e lattine, oltre che nell'omonima opera lirica composta nel 1921 dal musicista Viktor Parma, triestino di nascita. Proprio come l'animale mitico, protagonista della leggenda, stava a guardia del tesoro occultato lungo le pendici del Triglav, allo stesso modo anche la sua effige scolpita, il Kip Zlatoroga, sembra sorgere a presidiare l'ingresso verso una dimensione incantata e fiabesca. Infatti, proseguendo la nostra escursione, avanziamo con la nostra automobile superando la statua raffigurante la mitica capra dalle corna dorate e costeggiando la riva meridionale del Bohinjsko Jezero. La via è accompagnata sul lato opposto rispetto alla costa lacustre dallo stretto nastro di asfalto di una pista ciclopedonale, il centro abitato lascia il posto alla macchia verde della vegetazione che accoglie la strada avvolgendola gradualmente in una sorta di canale. Lungo il tragitto, la vista incrocia lungo la sponda del lago alcuni punti sui quali sono lasciate a riposare alcune canoe, difficili da non notare con i loro colori accesi e le estremità acuminate: avevamo già potuto apprezzare poco prima, quando la vista era ancora aperta sulla superficie del lago, che le sue acque sono abitualmente frequentate da numerosi canoisti. Poco più avanti superiamo un ampio parcheggio disposto sui due bordi della carreggiata: è questo uno dei punti in cui poter abbandonare l'automobile per compiere escursioni o camminate. In effetti, macinato ancora qualche chilometro, addentrandosi ulteriormente nel paesaggio boschivo, la strada incrocia un piccolo agglomerato di tende da campeggio, posizionato a breve distanza dalla corsia carrabile e separato da essa solamente da un basso guardavia di legno, mentre poco prima del parcheggio avevamo scorto oltre la vegetazione le più ampie tende attrezzate di un centro scout.
Da qui in avanti ci lasciamo alle spalle le sponde del Bohinjsko Jezero e proseguiamo lungo la stretta strada a doppia corsia di marcia che si spinge all'interno di un magnifico bosco di alti faggi, pregevole frammento del preziosissimo ambiente custodito dal Triglavski Narodni Park. Il percorso avanza per altri 4km immerso in questo incantevole scenario, fino ad arrivare, in capo a circa 8km complessivi a partire dalla Cerkev Svetega Janeza Krstnika, ad uno spiazzo aperto nel bosco presso il quale si colloca un'area di sosta per le automobili. Posteggiamo il nostro automezzo dopo aver pagato la tariffa di accesso al parcheggio custodito e proseguiamo a piedi il nostro itinerario. Qui il paesaggio si arricchisce della presenza delle montagne, rocciose e percorse da venature verdi di vegetazione, che circondano su tutti i lati il sito nel quale ci troviamo. Sullo spiazzo sorgono anche due punti ristoro, separati l'uno dall'altro da poche decine di metri: in particolare, presso il più grande dei due, il Planinski Dom Savica, un vero e proprio rifugio di montagna, è possibile trovare piatti caldi di buona fattura. Testato personalmente! Iniziamo la camminata subito dopo aver notato sopra una pietra posta al centro del parcheggio una targa riportante la scritta "Umrlemu partizanu 1945", traducibile nell'italiano "Al partigiano caduto 1945", umile e semplice memoriale alle lotte di resistenza che probabilmente si svolsero in questi territori boscosi durante la II Guerra Mondiale: pur con le proprie modeste dimensioni, la targa assume notevole carattere evocativo in sinergia con il contesto rude, silenzioso ed indomito dentro il quale è calato.
Imbocchiamo il sentiero che si allontana dall'area di sosta per approfondirsi all'interno del bosco. Il percorso inizia subito a salire ma non abbiamo alcuna difficoltà a coprire i primi 200m: Amelia cammina tranquilla ed autonoma, Lidia invece ci segue come al solito adagiata nel proprio marsupio. Arriviamo in pochi minuti ad una piccola capanna in legno, adagiata sul fondo di un piccolo avvallamento, nella quale è collocata la biglietteria ed un minuscolo negozio di souvenir. Accanto alla casupola, una fonte d'acque ed alcuni tavoli affiancati da panche offrono la possibilità di una prima sosta lungo il sentiero. Siamo freschi e curiosi di scoprire quanto ci aspetta più avanti, le nostre borracce sono ancora piene: non indugiamo e pagato il biglietto d'ingresso superiamo il cancelletto di legno della biglietteria e continuiamo la camminata. Partendo da qui, ad accogliere primo fra tutti il nostro passaggio è un corto ponticello di pietra sospeso sopra le acque del torrente Mala Savica. Ci lasciamo alle spalle questo piccolo fiume le cui sponde rocciose ne rendono inquieto il decorso. Il sentiero prosegue sopra una pista di facile percorrenza, ombreggiata ed articolata a tratti in gradoni (in tutto 553) che facilitano la salita. Ad intervalli regolari qualche panca di legno offre riposo a chi ne avesse bisogno e nonostante la ripetitiva presenza di cartelli che suggeriscano in un'appariscente grafia rossa di non abbandonare la via principale è pressochè impossibile perdere l'orientamento lungo il percorso. La salita è abbordabile anche dai bambini, tanto che Amelia, sei anni di pura e incrollabile volontà, compie il percorso senza aiuto e senza affanno. La camminata risulta davvero gradevole, impreziosita dallo splendido scenario boschivo dentro il quale il sentiero è immerso e dalla presenza del torrente Velika Savica che accompagna la pista scorrendo poco più sotto nella propria gola rocciosa, a tratti visibile allo sguardo oltre il bordo roccioso e la vegetazione. Posso senza dubbio affermare che questa escursione costituirà uno dei momenti che dopo il rientro a casa ricorderò con maggior piacere dell'intero viaggio sloveno. Copriamo in questo modo una distanza di circa 600m per giungere infine ad un minuto padiglione di legno calato sul sentiero, marca di confine che interrompe il bosco per concedere il palcoscenico ad un'altra imponente e maestosa attrice. Non ci soffermiamo molto presso la piccola struttura s che concede ombra e tregua dalla fatica ad un numero di persone veramente troppo alto per le sue ristrette dimensioni. Ne oltrepassiamo il perimetro ed imbocchiamo la scalinata in pietra che costeggiando la parete montana si insinua all'interno di una conca rocciosa.
Al suo interno si riversa la Slap Savica: questa cascata, con il proprio salto di ben 78m di altezza, è la terza attrazione più visitata di tutta la Slovenia. Ne ammiriamo tutto il magnifico splendore raggiungendo il margine della scalinata in pietra, chiusa da una bassa cancellata di metallo: siamo ad una distanza di poche decine di metri metri dalla cascata, in un punto lievemente rialzato dal quale i visitatori si accalcano per scattare fotografie, cercando di superare in altezza la testa di chi li precede. Francamente stento a comprendere come uno spettacolo tanto incantevole quanto autentico possa suscitare reazioni diverse dallo stupore più sincero. La particolare conformazione a forma di "A" della Slap Savica, frutto della scriminatura operata sulle acque dal decorso di canali sotterranei e dalle rocce della montagna che dividono la portata in due rami, uno maggiore ed uno minore alto 25m, la rende inconfondibile agli occhi di chiunque abbia avuto occasione di osservarla da vicino. Lo bellezza di quest'opera d'arte naturale ha attraversato i secoli affascinando teste coronate e letterati. Nel 1808 a rimanerne ammaliato fu Giovanni d'Asburgo-Lorena, arciduca d'Austria e fratello dell'imperatore Francesco II d'Asburgo-Lorena, nel corso della visita che compì in questi luoghi, evento ricordato da una lapide commemorativa posta sotto lo spazio coperto del padiglione in cima alla scalinata di pietra. A subirne il fascino fu anche il vate sloveno per eccellenza, France Prešeren, il quale dopo averla ammirata compose tra il 1835 ed il 1836 il poema "Krst pri Savici", la storia romantica di un giovane eroe guerriero di nome Črtomir e del suo amore per Bogomila, una bella fanciulla di fede cristiana che gli è preclusa a causa della differenza di credo religioso, essendo egli seguace del paganesimo slavo. Come ogni favola a lieto fine che si rispetti, la narrazione si conclude con la conversione di Črtomir al cristianesimo compiuta attraverso il battesimo nelle acque proprio della Slap Savica. Il contesto offerto dalla cascata si presta in effetti perfettamente a drammi poetici ed a racconti surreali. Incastonata nel compatto massiccio roccioso del monte Komarča nel cui spessore a lato del bacino d'acqua si scorge una vecchia via ferrata scavata nella pietra, posizionata ad un'altitudine di 836m s.l.m., la cascata è alimentata attraverso un sistema di grotte carsiche e canali sotterranei dalle acque del Crno Jezero (il Lago Nero), situato pochi chilometri più a nord ad un'altitudine di 1319m s.l.m.: tale origine invisibile ed occulta contribuisce sicuramente all'aura misteriosa e suggestiva che la cascata emana. A sua volta la Slap Savica costituisce la sorgente dell'omonimo fiume Savica che da qui origina in due rami, la Mala Savica che rappresenta il segmento inferiore e la Velika Savica che rappresenta invece quello superiore ed il cui esordio è raccolto nel piccolo bacino smeraldino ai piedi della cascata stessa, destinati ad unirsi dopo un tragitto di poco meno di 1km in un unico corso d'acqua, la Savica appunto, nei pressi dell'area di sosta che ci ha accolto all'inizio del nostro percorso a piedi. Da qui l'acqua continua ad avanzare proseguendo la propria corsa per appena 3km prima di gettarsi nell'ampio bacino del Bohinjsko Jezero, dentro il quale va a perdersi: occultata dal bosco per buona parte della strada che abbiamo percorso in automobile per arrivare al punto di partenza del sentiero, la Savica si era rivelata fugacemente al nostro sguardo solo per un breve scorcio a lato del parcheggio dal quale abbiamo cominciato la nostra marcia. La nostra escursione si conclude: ritorniamo indietro sui nostri passi portando nelle tasche un altro prezioso ricordo di questo viaggio meraviglioso.
Ad appena 4km di distanza da Bled si trova un'altra famosissima attrazione slovena. A generarla è ancora una volta un fiume, nel caso specifico il Radovna, un breve corso d'acqua che dopo appena 13km di decorso si immerge nella Sava: nonostante le sue esigue dimensioni, ancora oggi essocostituisce una fonte di acqua potabile, oltre che di pesce, per gli abitanti della regione circostante. Circa a metà del suo percorso, questo fiume scorre all'interno della Soteska Vintgar, una breve quanto meravigliosa gola rocciosa generatasi circa 10.000 anni fa' dall'azione erosiva della ritirata del ghiacciaio che nel lontanissimo passato occupava questo luogo. Il sito costituisce il punto di accesso più vicino al Triglavski Narodni Park partendo da Bled. Venne scoperta nel 1891 da Jakob Žumer, sindaco del vicino villaggio di Spodnje Gorje, e dal tirolese Benedikt Lergetporer, cartografo e fotografo, trasferitosi nel 1883 a Bled dive aprì il primo studio fotografico della regione. La scoperta della Soteska Vintgar fu pressochè casuale e fortuita dal momento che i due escursionisti navigando lungo il Radovna in direzione nord, sfruttando un livello eccezionalmente basso delle acque del fiume, superando tratti di difficile percorrenza al limite dell'impraticabilità oltre i quali si aprì davanti ai loro occhi per la prima volta lo scenario della meravigliosa forra. La bellezza di questo pittoresco passaggio scavato nella roccia fu talmente lampante che già pochi anni più tardi, nel 1893, vennero predisposti i primi percorsi turisti, lunghi appena 500m e predisposti su sentieri, ponti e passerelle di legno. Non si hanno notizie certe sulle origini del nome che venne attribuito alla gola: probabilmente l'appellativo Vintgar venne tratto dal vocabolo tedesco weingarten, vale a dire "vigneto", in riferimento ai terreni coltivati a vite che all'epoca erano ampiamente presenti nei dintorni; secondo altre teorie più improbabili e partendo dalla stessa etimologia, la denominazione deriverebbe dal fatto che la forma della sezione della gola ricorderebbe quella di un calice.
Per raggiungere l'ingresso della Soteska Vintgar impieghiamo circa un quarto d'ora appena: partiamo da Bled, ne costeggiamo il limite settentrionale, proseguiamo per alcuni chilometri in direzione nordovest fino ad attraversare il piccolo centro abitato di Spodnje Gorje, un agglomerato di poco meno di un migliaio di abitanti. Ci servono due tentativi per riuscire ad accedere al sito: la prima volta, dopo aver parcheggiato l'automobile a 700 m di distanza dalla destinazione e presso un prato sul retro di quella che appare una villetta privata situata a lato della via, il parcheggiatore ci avvisa che il numero di visitatori consentito per l'ingresso alla gola è saturo e ci potrebbero volere ore di attesa per poter entrare, senza garanzia di riuscirci. Sapevamo che sarebbe stato meglio prenotare gli ingressi via web il giorno precedente alla visita, ma a causa di un problema di utilizzo della nostra carta di credito sulla piattaforma di acquisto online non eravamo riusciti a concludere l'operazione.
Ci riproviamo il giorno successivo, partendo di buon mattino e sfruttando le precarie condizioni meteo che annunciano un cielo nuvoloso con possibilità di pioggia, una bazzecola per gente come noi abituata all'umidità lombarda. Questa volta siamo più fortunati, oltrepassiamo il parcheggio a cui eravamo approdati il giorno innanzi, procediamo penetrando all'interno del territorio del villaggio di Podhom (poco più di 300 abitanti) e precediamo in discesa sui tornanti che ci indirizzano verso il parcheggio principale, quello più prossimo all'ingresso della gola. Planiamo nella valle del Radovna che superiamo valicando un corto ponticello, costeggiamo l'argine del fiume ed infine abbandoniamo l'automobile in un piccolo parcheggio sterrato, le cui esigue dimensioni unite all'ampio numero di visitatori che quotidianamente raggiunge questo luogo ne spiega il sistematicamente rapido riempimento. Ad animare questo spazio di sosta, oltre al passaggio del flusso in tonalità verde acqua del Radovna, sorgono due piacevoli elementi: il più appariscente è l'edificio che ospita la Gostilna Vintgar, un piacevole ristorante dove si possono gustare piatti caldi di buona fattura, in particolare dell'ottimo pesce e l'universale pizza. Un'opzione molto comoda e facilmente accessibile per chiunque intenda visitare la Soteska Vintgar evitando di pranzare al sacco, resa più conveniente anche dal buono sconto di 5€ ottenuto utilizzando l'attiguo parcheggio a pagamento (tariffa fissa di 10€) e spendibile proprio presso il ristorante. A questo si aggiunge una minuta piattaforma ludica in legno per i bambini, ausilio sempre utile ed apprezzato da chi si muove con piccoli viaggiatori al seguito, ma soprattutto al margine del parcheggio è situato un piccolo recinto dentro al quale sono ospitate alcune capre. Attraverso un distributore a monete posto accanto alla staccionata è anche possibile procurare dei chicchi di mais che i bambini possono divertirsi a consegnare alle voraci fauci degli ovini. Un'occasione di curioso intrattenimento e svago inatteso che i bimbi possono cogliere prima o dopo aver terminato l'escursione.
Ci lasciamo alle spalle il ristorante con il recinto degli animali ed iniziamo la visita della Soteska Vintgar pieni di entusiastica attesa che, anticipo già, non verrà delusa. Dal parcheggio un brevissimo tragitto di circa 200m, affiancato dal Radovna che scorre sulla destra, conduce alla biglietteria, collocata all'interno di una sorta di unità prefabbricata stretta, bassa e squadrata. Non abbiamo difficoltà ad acquistare i nostri ingressi: la maggior parte dei visitatori li procura online con largo anticipo per evitare di essere respinti una volta giunti sul sito a causa dell'alta affluenza di persone, proprio come è successo a noi il giorno precedente. Sfiliamo con affettata indifferenza davanti all'esigua folla ferma in una piccola area di attesa fornita di alcune sedute posizionata davanti alla baracchino della biglietteria: ogni biglietto acquistato via web possiede un orario di ingresso preciso e non è consentito accedere al sito prima del tempo stabilito. Superiamo anche un piccolo chiosco presso il quale vengono vendute bibite e spuntini. Oltrepassiamo il tornello che da accesso al percorso attraverso la gola e ci fermiamo alla postazione presso la quale ci vengono forniti i caschetti che obbligatoriamente dovremo tenere in testa per tutta la durata della visita, anche le bambine, nonostante per Lidia, due anni di età appena compiuti, non sia disponibile una misura adatta.
Il primo tratto del sentiero si svolge sul margine sinistro della gola, seguendo il profilo della roccia che la compone e digradando progressivamente fino a planare su una passerella di legno. Da qui il percorso continua sopra uno stretto ponte ligneo che sposta il cammino sul lato opposto della gola. Questa primissima porzione, ombreggiata ed animata dall'umida frescura del Radovna, si propone come apprezzabile preludio allo spettacolo che da qui a poco incontreremo. Il sentiero scende ulteriormente ad un piano più prossimo al fiume che offre alla vista segmenti più quieti a passaggi più impetuosi e vivacizzati dalla presenza di rapide. L'acqua di colore verde brillante cattura fin dal principio la scena pretendendo un ruolo da protagonista che in effetti le spetta di diritto: è proprio il Radovna ad alimentare la gola ed a modellarne da millenni la forma con pazienza e costanza. Le pareti rocciose che delimitano la forra, profonda fino a 250m, appaiono subito imponenti, frastagliate in infinite forme diverse e costellate da una vegetazione che all'interno di questo luogo conta circa 600 specie diverse di piante. Ma è l'acqua del fiume con il suo movimento incessante ed imprevedibile, composto da miriadi di ramificazioni e livelli, a rendere vivo il proprio giaciglio di pietra. Continuando lungo le passerelle di legno che proseguono il cammino sul lato della gola, giungiamo a quella che a mio parere è la parte più suggestiva della Soteska Vintgar: spostandoci su ponti di legno che guidano il percorso ora su un lato ora sull'altro della gola, le pareti di pietra si alzano alte e lo spazio tra loro si fa angusto, lasciando alla luce appena uno spiraglio per penetrare un poco verso il fondo a rendere più vividi i colori ed i riflessi dell'acqua senza arrivare ad illuminarla pienamente. Ad osservarne i tratti, sembra che lo Scultore d Paesaggi abbia voluto in questo luogo aiutare il fiume a scorrere scavando a colpi di scalpello il più meraviglioso dei passaggi. Le passerelle lignee proseguono sinuose assecondando il profilo dei limiti rocciosi della forra, immerse nelle infinite sfumature di tonalità delle rupi e della flora punteggiante che le ricoprono. Lungo questo passaggio, in un punto dove la gola appare particolarmente stretta, la passerella si apre in una piccola piattaforma sulla quale è collocata una panchina e sopra di essa, sulla superficie della parete in una rientranza della roccia, è posta una targa commemorativa intitolata al nome di Jakob Žumer, scopritore del sito.
Proprio per la stretta vicinanza delle pareti rocciose che quasi si toccano per formare una galleria, il tratto appena percorso prende il nome di Žumrove Galerije. Più avanti la gola si apre in ampiezza e la pista cala ulteriormente fino quasi a raggiungere il livello del fiume, prosegue abbandonando le passerelle di legno e spostandosi su un sentiero sterrato e piano che corre sul lato destro del Radovna. Avanziamo su questa traccia per alcune centinaia di metri accompagnati dal fiume che nel suo moto perenne compie repentine evoluzioni, fino ad incontrare il Most Bojinjske Železnice, il passaggio sospeso della ferrovia che incrocia il sentiero ad un'altezza di 33,5m collegando i due lati della gola che in questo punto raggiunge un'ampiezza di 53m. Realizzato tra il 1904 ed il 1906 su progetto dell'architetto Robert Schonhofer, questa struttura rappresenta attualmente il più grande ponte in pietra ad arco singolo completamente conservato presente in Slovenia. Serve efficacemente ancora oggi la linea ferroviaria lunga complessivamente 144km che collega le città di Jesenice e Gorizia, porzione di una più ampia infrastruttura pensata dal potere asburgico per mobilizzare merci e persone dalle regioni centralo del continente europeo verso il Mare Adriatico: se si è abbastanza fortunati può capitare di imbattersi nel transito del convoglio ferroviario lungo il ponte percorrendo il sottostante sentiero lungo le Soteska Vintgar, ma non è il nostro caso. Superiamo velocemente il Most Bojinjske Železnice, silenzioso ed imperturbabile, passando sotto il suo arco.
Poco più avanti il sentiero si allarga in uno spiazzo accolto su un lato di una conca delimitata dalle pareti di pietra e costeggia una piccola diga posta sul decorso del Radovna, poco più di una grossa chiusa posta su uno sperone di roccia emergente dal letto fluviale, deputata a veicolare l'acqua del fiume verso una vicina centrale idroelettrica, costruita nel 1903 per fornire energia destinata alla costruzione della ferrovia e tuttora in funzione. Il cammino termina pochi passi più in là nel punto in cui trova la propria sistemazione la Slap Šum, la più alta delle sole tre cascate fluviali slovene con i suoi 13m di salto, adagiata all'interno di un avvallamento a forma di anfora formato dal decorso della gola. Superati i tornelli che chiudono il tragitto di 1,6km del sentiero turistico attraverso la Soteska Vintgar, restituiti i caschetti agli annoiati inservienti che porgono ai passanti ampi cesti per la loro raccolta, l'ultimo brivido di questa meravigliosa escursione è concessa dalla sosta lungo lo stretto ponte di legno che sovrasta la cascata poco sopra le acque del fiume, le quali esauriscono la propria impetuosità andandosi a gettare più in basso all'interno di una quieta piscina naturale. La prima struttura di questo ponte risale al 1878. In questo punto, accanto ai tornelli che sanciscono il termine della visita e all'imbocco del passaggio sospeso sopra la cascata, si trova anche una piccola caffetteria ospitata all'interno di una casupola di legno presso la quale ci fermiamo per una breve sosta: consumiamo dei succhi di frutta seduti ai tavolini collocati di fronte alla caffetteria sopra una corta piattaforma, proprio accanto alla Slap Šum che ammiriamo ancora per pochi altri istanti, assaporando la bellezza del paesaggio che abbiamo appena attraversato e la soddisfazione per aver portato a termine un'altra stupenda esperienza di viaggio.
Dopo aver fatto sgranchire le gambe alla piccola Lidia liberata dal marsupio, con Amelia ancora in forze per completare l'itinerario, riprendiamo il cammino imboccando la via del ritorno verso il punto di partenza. Qui ci si propone una scelta tra due vie differenti: la prima oltrepassa il ponte sospeso sulla cascata e prosegue per circa 2,5km nella boscaglia lungo la riva sinistra del Radovna, percorso più breve ma più ripido; la seconda invece rimane sulla riva destra del fiume, si lascia alle spalle la baracca della caffetteria e si inerpica su una breve quanto impegnativa salita al culmine della quale prosegue piuttosto in piano, allontanandosi dal fiume ed inoltrandosi all'interno del bosco. Quest'ultimo è il tragitto più lungo ma anche più agevole ed è proprio questo sentiero quello che abbiamo ovviamente scelto di percorrere.
Procediamo quasi zigzagando lungo la pista che sale progressivamente verso l'alto ripiegandosi più volte su sè stessa protetta all'ombra della vegetazione: stiamo procedendo lungo le pendici della collina Hom, alta appena 834m, che con il suo profilo contribuisce a dare forma alla Soteska Vintgar. Nel 2014 questi boschi furono oggetto di un'importante opera di bonifica dopo che una grande parte del suo patrimonio arboreo subì i danni di una rovinosa gelata: grazie a questa difficile opera di conservazione, ad osservarne oggi gli spazi l'ambiente si mostra in tutto il suo originario splendore. Da qui in avanti il cammino si rende più facile ed attraversare questo quieto ambiente boschivo risulta alfine piacevole e gratificante. Percorriamo immersi in questo scenario circa 1km prima di arrivare alla Cerkev Svetega Katarina, una piccola chiesa compatta dalla cui traccia anonima emerge solo il basso campanile con cupola a cipolla, circondata inoltre su tutti i lati da un basso recinto di pietra: la costruzione di questo tempio risale al XV secolo ma la sua struttura fu rinnovata nel corso del XVI secolo e del XVIII secolo.
Qui il sentiero si apre ed usciamo dalla macchia boschiva. La pista piega sulla destra e sfila di fronte ad una modesta area ristoro. Ci spostiamo verso il margine della collina presso il quale si apre alla nostra vista il paesaggio sulla valle sottostante: in questa posizione una concentrata pittrice dipinge sulla propria tela il bellissimo paesaggio offerto da questo pregevole punto di veduta. Superiamo una bassa staccionata attraversando un cancelletto di metallo e continuiamo a camminare: il sentiero prosegue sulla costa della collina ai margini del bosco, costeggiando prati erbosi presso i quali pascolano capre e bovini. Sotto di noi si intravede ai piedi dell'altura il piccolo villaggio di Zasip, un agglomerato di abitazioni ed appena un migliaio di abitanti: menzionato per la prima volta in documenti storici dell'XI secolo, il suo nome deriva dalla locuzione slovena arcaica za sipi, letteralmente "dietro il colle", in riferimento alla sua posizione geografica. Tale particolare collocazione, all'interno dell'ampia vallata creata millenni fa' dalla retrazione dello stesso ghiacciaio che diede forma anche al Bohinjsko Jezero, gli valse addirittura la citazione da parte del vate France Prešeren come l'Altare della Gorenjska. A discapito però del suo nome, ancora oggi gli abitanti di questo piccolo centro urbano sono soprannominati "Prgarji", dall'abitudine antica delle donne del luogo di essiccare e macinare una varietà locale di pere chiamata appunto Prge, per miscelare successivamente il prodotto ottenuto con farine di cereali per creare una sorta di pane. Le pere utilizzate per produrre questo particolare alimento sono note anche con il nome di Tepka, dal termine sloveno tepsti che significa "picchiare", denominazione assunta a seguito dell'ordine intransigente ed alquanto crudele emanato nel XVIII Secolo dall'imperatrice Maria Teresa d'Austria di fustigare coloro che non ottemperavano al suo ordine di piantumare e coltivare in questi territori ampi pereti come misura di contrasto ai periodi di carestia che spesso interessavano questa regione. Nonostante questo risvolto truce, la tradizione di cucinare piatti con pere essiccate o farine di pere sopravvive forte ancora oggi a Zasip, tanto da mantenere in auge il soprannome storico con il quale sono noti i suoi abitanti. Osserviamo dall'alto il villaggio in mezzo al quale spicca la cupola rossa del campanile della Župnijska Cerkev Svetega Janeza Krstnika, la chiesa locale risalente al XIII secolo e restaurata in stile barocco nel corso del XVIII secolo. Più lontano, all'orizzonte, scorgiamo anche i profili di Bled affiancato dal Blejsko Jezero ed ancora più in là i rilievi delle Caravanche.
Accompagnati da tale pregevole vista seguiamo il sentiero che corre lungo il ripido declivio della collina. Superiamo altri cancelletti di metallo che concedono il passaggio oltre basse staccionate, poi la pista piega a sinistra e raggiunge una ripida discesa ghiaiosa che ci richiede l'ultimo sforzo prima di terminare la camminata, dopo un'ultima breve scalinata, giungendo al parcheggio da cui eravamo partiti. Siamo statu fortunati: nonostante il cielo plumbeo, non una goccia di pioggia si è abbattuta su di noi mentre abbiamo camminato. Dalla Slap Šum abbiamo percorso circa 4km lungo quello che viene chiamato Poti Kralja Triglava, vale a dire il Sentiero del Re del Triglav. Ma chi è il detentore del curioso titolo associato al nome di questo sentiero? Ad essere proclamato, per decreto popolare, sovrano della prima tra le montagne slovene fu Albin Belar, passato alla storia tra i confini nazionali come pioniere della sismologia e delle comunicazioni radiofoniche. Nato a Lubiana nel 1864, dopo aver fondato nella capitale slovena il primo osservatorio sismologico di tutto l'ampio Impero Austro-Ungarico, nel 1919 stabilì il proprio laboratorio all'interno di una villa privata di sua proprietà e situata a Podhom, nelle vicinanze della Soteska Vintgar, dove visse per undici anni. Nel corso della propria esistenza, mise a punto nuovi strumenti di misurazioni degli eventi sismici ed un avveniristico prototipo di radioricevitore tascabile, guadagnandosi una discreta fama diffusa a tal punto da attirare le attenzioni persino di Alessandro I Karađorđevic, re di Jugoslavia. Un aneddoto passato agli annali, forse reale forse romanzato, racconta di come Belar, avvisato dell'arrivo del monarca giunto a fargli visita, si trovasse in una locanda a bere con degli amici ed esortato a non far attendere l'aristocratico visitatore chiese retoricamente ai suoi compagni "Chi è più grande, il re del Triglav o il re di Jugoslavia?". La risposta, ovviamente favorevole al primo, giustificò la calma altera con la quale Belar esaurì il proprio boccale di birra lasciando attendere il proprio ospite come la più comune delle persone, senza peraltro troppo garbo. La sua passione per la montagna gli valse in effetti il soprannome che con tanta fierezza Belar contrappose in importanza alla corona jugoslava e che la gente comune gli attribuì spontaneamente: fu ardito scalatore ed instancabile escursionista, inoltre si dice abbia scalato il Triglav più di 50 volte. Il suo rapporto con l'ambiente alpino fu viscerale, quasi simbiotico, non solo in conseguenza dei suoi studi scientifici e naturalistici ma anche in virtù di una passione che attraversò immutata tutta la sua intera vita: fu lui nel 1906 a formulare una delle prime proposte per istituire intorno al Triglav il primitivo nucleo di area naturale protetta che successivamente darà forma al Triglavski Narodni Park. Belar morì nel 1939, ma la sua figura ancora vivida raggiunge il presente ammantata da un alone di leggenda, contribuendo a quell'atmosfera di fiaba che oggi circonda la Soteska Vintgar ed lo splendido territorio che la circonda.
Non è solo il patrimonio naturalistico di cui dispone a rendere la Slovenia un luogo speciale. Sui suoi territori sono distribuite anche tante piccole cittadine, sparse a breve distanza l'una dall'altra come a formare minuscole costellazioni, la cui identità si afferma forte pur senza pretese di appariscenza in un paese che non conosce grosse metropoli, il cui fascino attira la curiosità di visitatori desiderosi di scoprire posti magnifici ma lontani dai riflettori della ribalta. Tra di esse c'è Škofja Loka, cittadina della Gorenjska di circa 12.000 abitanti. La raggiungiamo percorrendo agilmente in automobile la strada che copre la distanza di circa 40k che separa questa località da Bled.
Abbandoniamo il nostro mezzo di trasporto presso un parcheggio (ovviamente a pagamento!) situato in prossimità del centro storico della cittadina. Muniti di zaini e passeggino ci incamminiamo per addentrarci tra le sue vie. A salutare per primo l'inizio della nostra passeggiata è il fiume Selška Sora che proprio all'interno del territorio urbano di Škofja Loka si unisce al tributario Poljanska Sora proveniente da sud per formare il fiume Sora. Il nome stesso della cittadina richiama il forte legame tra il territorio che occupa e l'acqua, riprendendo un termine dello sloveno arcaico che significa letteralmente "terreno bagnato". A determinare il nome della località è anche il fatto che il territorio sui cui sorge appartenne in passato alla signoria dei Loka, per poi divenire possedimento dei vescovi di Frisinga nel corso della seconda metà del X secolo. Per quasi 900 anni Škofja Loka rimase proprietà vescovile, cioè fino a quando nel 1803 passò a far parte dei territori governati dal Ducato di Carniola. Abbiamo appena cominciato la nostra visita e già cogliamo il primo memorabile scorcio di questa meravigliosa cittadina: il Selška Sora ci scorre incontro infilandosi sotto l'arco del ponte sul quale ci siamo fermati ad osservare il profilo della centro abitato al quale il corso del fiume attribuisce profondità ed alcune macchie di vegetazioni lungo le rive donano colore.
Ci lasciamo alle spalle il Selška Sora e terminato di percorrere il ponte carrabile che ci ha dato passaggio siamo subito tra i confini dello Srednjeveško Mesto, il preziosissimo centro storico della città: Škofja Loka possiede infatti uno dei nuclei medievali meglio conservati di tutta la Slovenia, circostanza che le valse nel 1987 il riconoscimento di monumento culturale protetto. Divenuta importante centro commerciale dopo aver ricevuto nel 1248 i diritti di mercato e nel 1274 lo stato di città, a partire dal XIV secolo l'agglomerato urbano di Škofja Loka venne cinto da mura difensive, attributo che comunque non bastò ad evitargli il saccheggio che nel 1457 venne perpetrato dall'esercito guidato da Jan Vitovec, cavaliere ussita e successivamente duca di Celje, il cui nome è già ricorso nel nostro viaggio tra le vicende che popolavano la storia del Blejski Grad. Pochi anni più tardi, nel 1476, la città venne presa d'assedio anche dai soldati ottomani. Nei secoli successivi, il lungo periodo di pace di cui la località godette rese obsolete le mura difensive che furono quindi progressivamente dismesse fino ad essere quasi completamente rimosse nel 1789. Non incontriamo pertanto ostacoli nel penetrare all'interno dello Srednjeveško Mesto e più nello specifico in Spodnji Trg, l'anticamera del centro storico che più che una piazza assomiglia ad un largo vialone: questo luogo ed i suoi dintorni ospitarono in antichità i ceti più umili della popolazione. In effetti anche oggi il piazzale offre molto poco, fatta eccezione per un massiccio caseggiato di ruvide pareti chiamato Krašča, il Granaio, edificato agli inizi del XVI secolo per ospitare gli i depositi deputati alla raccolta ed alla custodia dei tributi pagati in natura dai contadini locali. Oggi l'edificio accoglie invece gli ambienti di un ristorante. Teniamo la destra della via ed abbandonando Spodnji Trg ci inoltriamo in stretti vicoli che gradualmente ci conducono verso l'alto, vale a dire verso i piani nobili della cittadina. Percorriamo appena poche centinaia di metri prima di ritrovarci, quasi inaspettatamente, in Cankarjev Trg: questa piccola piazza ci appare più elegante e distinta rispetto alla sottostante Spodnji Trg, mistura concentrata di nuovo e antico, delimitata su un lato dall'ingresso di un ristorante e su quello opposto dalla facciata vissuta di un vecchio palazzo. Una riproduzione miniaturizzata in metallo della planimetria della città impreziosisce lo spazio della piazza, posta sopra un piedistallo accanto ai tavoli all'aperto di una tavola calda il cui viavai anima il luogo attraverso la corta scalinata che chiude lo spiazzo dando accesso al locale.
Ma la padrona indiscussa di Cankarjev Trg è senza ombra di dubbio la Župnijska Cerkev Svetega Jakoba, la chiesa principale della città intitolata a San Giacomo il Maggiore, posizionata all'estremità orientale della piazza. La prima menzione di questo luogo di culto risale al 1271, epoca in cui probabilmente consisteva solo in una piccola cappella. Venne ricostruita con proporzioni più ampie nel corso del XV secolo, ma l'attuale struttura in stile tardogotico proviene dal XVI secolo, essendo la chiesa stata ricostruita insieme a gran parte del centro storico a seguito del terremoto che nel 1511 rase al suolo un'ingente porzione della cittadina: i lavori per riparare i danni di questo drammatico evento sismico furono condotti grazie all'intervento di Philipp von der Pfalz, vescovo di Frisinga, e nonostante la mole dell'opera da completare ridiedero infine vita a Škofja Loka ed al centro storico. La facciata della chiesa suggerisce molto poco, nonostante il campanile realizzato nel 1532 ed alto 56m, tuttora svettante ad un lato del presbiterio.
Oltrepassiamo la soglia della chiesa dopo essere transitati dal piccolo portichetto che ne protegge l'ingresso, opera del friulano Giovanni Battista Molinaro che la realizzò nel corso del XVIII secolo. L'interno si presenta disposto su tre navate e l'elemento che vi spicca per bellezza è sicuramente la meravigliosa volta a stella, realizzata nel 1471, caratterizzata da fini decori pittorici ed all'incrocio delle nervature dalla presenza di pregevoli bassorilievi scolpiti raffiguranti motivi floreali, stemmi araldici probabilmente riconducibili ai benefattori che finanziarono la costruzione dell'edificio, oppure figure di santi e patroni. La sua superficie è coperta da stupendi affreschi colorati, i quali sorprendentemente furono per lungo periodo, a partire dal XVI secolo, nascosti da uno strato di tintura bianca, fino a quando nel 1931 la volta venne restaurata da Matej Sternen ed i dipinti furono riportati alla luce. Nello stesso periodo Ciril Križnar completò l'opera aggiungendo alcune decorazioni alla volta. Sempre risalente al XX secolo è il trionfale affresco con protagonista Cristo Re riportato sull'arco del presbiterio, frutto del lavoro del pittore Slavko Pengov.
Dietro di esso si apre lo spazio celebrativo con l'altare principale che fu oggetto dell'opera di restauro che Joze Plečnik condusse sull'edificio tra il 1951 ed il 1954. In tale occasione, l'architetto allestì l'altare laterale posto lungo la navata sinistra, posizionò un crocifisso circondato da pietre preziose lungo il pilastro destro dell'arco del presbiterio, realizzò il fonte battesimale e rinnovò parte dell'illuminazione degli ambienti montando alcuni eleganti lampadari. L'aggiunta dell'attuale presbiterio alla struttura, condotta secondo i progetti di Emilijan Cevac, venne portata a termine tra il 1520 ed il 1524: il suo spazio è presidiato dalla statua ammantata d'oro di San Giacomo il Maggiore, patrono della chiesa, circondata da quelle ugualmente vestite di San Pietro riconoscibile dalla chiave che porta in una mano, San Matteo equipaggiato di libro e piuma, San Giovanni con un calice in pugno ed infine San Paolo armato di spada. Poco più indietro, l'abside è illuminata dalle stupende vetrate dai molteplici colori, opera di Stane Kregar che le completò nel 1973. Ai lati dell'arco che precede il presbiterio sono posizionati invece due altari in marmo nero, opera di Mihael Kuš che li scolpì agli inizi del XVIII secolo: quello di destra è abbellito da un dipinto raffigurante Santa Caterina d'Alessandria affiancato dalle statue di Santa Barbara e di Santa Lucia; quello di sinistra invece custodisce il tabernacolo, bellissimo ed unico nella forma che possiede, la cui forma ricercata è impressa con distinta precisione sul bianco marmo di Carrara che lo compone, il fronte decorato da policrome gemme semicircolari, ai suoi lati due piccole statue raffiguranti angeli in preghiera mentre sopra di esso sta una minuta scultura ritraente tre putti nell'atto di suonare alcuni strumenti musicali. La sua realizzazione risale al 1860 circa. E' questo forse l'elemento più sorprendente di tutto il sito, a mio modesto parere.
Un'ultima menzione va all'organo, posto sopra il vestibolo ed illuminato da un piccolo lucernario rotondo che lo sormonta, dotato di 23 registri e creato nel 1932 da Franc Jenek. Non è azzardato affermare che la Župnijska Cerkev Svetega Jakoba rappresenta uno degli edifici che meglio concretizza il carattere di Škofja Loka: non va dimenticato che la cittadina fu per lungo tempo presidio vescovile, e la religione fu pertanto una delle radici più vitali ad alimentare l'esistenza di questa località. Nel 1526 la cittadina fu investita e quasi sorpresa dall'arrivo della dottrina protestante luterana, ferocemente contrastata dalle autorità per mezzo di persecuzioni e roghi di libri proibiti, circostanza che contestualizza uno dei periodi più difficoltosi trascorsi da Škofja Loka confermando al contempo il suo legame indissolubile con la fede cattolica. Al di là del significato storico di cui la Župnijska Cerkev Svetega Jakoba è secolare custode, il suo ambiente magico e non privo di bellezza la rede una delle rivelazioni più sorprendenti del nostro intero viaggio sloveno.
Stimolati nella curiosità da questa scoperta, ritorniamo sullo spiazzo di Cankarjev Trg e proseguiamo la nostra passeggiata nello Srednjeveško Mesto passando senza soluzione di continuità in quello che rappresenta il luogo principale intorno al quale si sviluppa tutto il centro storico cittadino. Mestni Trg è la piazza più importante di Škofja Loka, a discapito delle sue piccole dimensioni oltre che della sua forma piuttosto particolare che la fa assomigliare ad un elegante corridoio più che al salotto buono della città: dalla sua estremità settentrionale, confinante appunto con Cankarjev Trg, a quella meridionale si estende per ben 250m su un ampio viale che si fa più largo nella sua parte centrale. A giudicare dagli elementi che ne determinano l'aspetto, la piazza sembrerebbe invece una galleria d'arte, abbandonando subito quell'aspetto da corridoio che ha condizionato le prime impressioni nell'osservane la forma: il componente che caratterizza maggiormente lo spazio della piazza è il Marijini Znamenje, il Segno di Maria, una colonna mariana con capitello ionico che funge da piedistallo ad una statua con soggetto la Madonna col Bambino, sotto i cui piedi giace un piccolo globo avviluppato da un serpente. La sua conformazione richiama anche la sua funzione: fu realizzato nel 1751 come voto popolare di ringraziamento per la protezione ricevuta nei confronti di morbi e pestilenze. Infatti, nonostante nel 1582 Škofja Loka conobbe la devastazione perpetrata dalla rapida diffusione di un'epidemia di peste, la località fu nel corso dei secoli successivi più volte risparmiata da focolai di malattia che colpirono i territori circostanti. Alla base della colonna che sostiene la Madonna col Bambino si stagliano sui due lati le figure scolpite nella pietra di San Rocco e Sant'Antonio da Padova. L'intero complesso scultoreo poggia su un basamento a forma di altare rialzato dal suolo da due gradini e protetto sul perimetro da una bassa cancellata in ferro battuto. La raffigurazione mariana posta sulla cima del monumento nasconde in verità una vicenda sorprendente: si tratta di una copia in cemento realizzata tra il 1939 ed il 1949, posta a sostituzione dell'originale andato perduto. Sul finire della I Guerra Mondiale, la statua autentica della Madonna col Bambino cadde infatti al suono danneggiandosi irrimediabilmente, spinta dal peso della neve che in inverno si accumulò abbondante sulla sua superficie e cadde dalle soprastanti impalcature del sistema di elettrificazione urbana. Non va scordato a tale proposito che Škofja Loka fu la prima città carniolana a ricevere l'illuminazione elettrica già nel 1894. L'ultimo restauro condotto sul Marijini Znamenje risale invece ad epoca più recente, nello specifico al 2021. A breve distanza da esso sta una piccola fontana in pietra realizzata nel 1883 e decorata con lo stemma cittadino. Quest'ultimo rappresenta su sfondo verde un castello dorato composto da una torre centrale e due torri laterali, al centro del quale è raffigurato il volto di profilo di un moro incoronato: la leggenda narra infatti che sul finire del X secolo d.C. Abraham von Goerz, il vescovo di Frisinga che nel 973 d.C. ricevette dall'imperatore Ottone II di Sassonia il possesso di questa regione, giunse ad attraversare i territori dell'attuale cittadina accompagnato da uno dei propri servitori; aggrediti da un orso che li sorprese nei boschi, fu proprio il servitore ad affrontare coraggiosamente la belva uccidendola e salvando così la vita al proprio padrone. Da allora il suo gesto di temeraria abnegazione è commemorato nel ritratto che ne riproduce il volto sullo stemma cittadino. Su Mestni Trg si affacciano anche pregevoli edifici storici: tra questi spicca sicuramente la Homanova Hiša con la propria distinta facciata abbellita da bei dipinti decorativi, parzialmente conservati, con soggetto San Cristoforo ed un gentiluomo medievale, oltre che dall'alto bovindo disposto bizzarramente sull'angolo dell'edificio rivolto verso la piazza. Costruita nel 1511 e restaurata nel suo aspetto attuale nel 1529 dopo aver subito i danni di un terremoto, si dispone nella porzione settentrionale della piazza. Di fronte alla Marijini Znamenje sorge invece lo Stari Rotovž, l'edificio che ha ospitato in passato la sede dell'amministrazione cittadina, dotato di un'ammirevole facciata dalle tinte rosse adornate da bellissimi dipinti murali barocchi raffiguranti colonne corinzie, angeli alati e motivi floreali. Questo palazzo risale al XVI secolo ma i suoi pregevoli decori pittorici furono per lungo tempo coperti per essere infine riportati alla luce in occasione di lavori di restauro condotti sull'edificio nel 1972. L'attuale municipio è ospitato all'interno della Žigonova Hiša, un grande edificio risalente sempre al XVI secolo situato poco più avanti sul limite inferiore dello slargo che la piazza disegna nella sua parte centrale: più imponente nelle dimensiono, si contraddistingue per la facciata di colore chiaro delimitata da bordature nere, nonchè dalle numerose fenestrature che si affacciano sulla piazza. Il resto del perimetro della piazza è occupato dalle facciate di altri più stretti palazzi, stretti spalla a spalla come tanti passeggeri stipati nell'abitacolo di un autobus, le cui tinte variegate compongono nell'insieme un mosaico di colori. Il fascino compresso di Mestni Trg, alimentato dai palazzi e dai monumenti che la abitano, ci apparirebbe i tutto il suo contenuto splendore se non fosse che al momento del nostro passaggio sulla piazza si stanno tenendo dei lavori di restauro, con barriere e camion che ne ingombrano lo spazio ostacolandone la veduta. Pazienza! Anche così non ci è stato difficile percepire il battito di quello che rappresenta il cuore pulsante della cittadina.
Percorsa interamente Mestni Trg, raggiungiamo la sua estremità meridionale che sulla destra si apre in uno slargo, denominato Grajska Pot, delimitato su un lato dalla facciata formale dell'edificio che ospita la sede di alcuni uffici amministrativi ed anagrafici, sul lato opposto in perfetta antitesi la parete di compatta pietra nuda di una taverna. Sullo sfondo l prosegue come proiettata sopra una rampa di lancio: la strada urbana si trasforma in sentiero pedonale, comincia a salire arrampicandosi con gradualità sopra un versante collinare erboso, fino a raggiungere in poche decine di metri il Loški Grad. E' questo il castello cittadino, situato sulla cima di una bassa altura al margine del centro storico: la sua costruzione risale al 1202 e fu ordinata dal vescovado di Frisinga. La fortezza venne comunque ricostruita in stile barocco dopo che il terremoto del 1511 ne intaccò gravemente la struttura, occasione in cui si procedette anche ad un ampliamento dei suoi spazi con l'aggiunta di alcune fortificazioni. Nella seconda metà del XVI secolo venne poi aggiunta anche una torre difensiva centrale, in seguito demolita sul finire del XIX secolo e di cui oggi rimangono solo alcuni resti nel mezzo del cortile interno. Nel 1870 il castello venne acquistato da Fidelis Terpinc, imprenditore e filantropo sloveno originario di Kranj; cinque anni più tardi, alla morte del proprietario, fu la figlia Emilija Frančiška Terpinc-Baumgartner a rilevarne il possesso. Nel 1890 avvenne uno dei passaggi più importanti dell'esistenza del castello: il complesso passò tra i possedimenti della comunità di monache orsoline che all'epoca abitavano un convento posto ai piedi della collina, oggi adibito ad ospitare alcuni appartamenti ed un archivio locale dopo che le monache lo abbandonarono nel 1954. Subito dopo il cambio di proprietà, furono avviati lavori di rinnovamento che le Orsoline affidarono all'architetto Viljemu Treu e che condussero ad un ampliamento degli ambienti del castello ed al collegamento dello stesso con il sottostante complesso conventuale per mezzo di passaggi sotterranei, tutt'oggi esistenti. Negli anni a seguire la fortezza ospitò un convitto ed una scuola femminile, entrambe le istituzioni gestite dalle monache stesse. Diverso fu il destino del Loški Grad durante lo svolgimento dei due conflitti bellici mondiali: se nel corso della I Guerra Mondiale nel castello fu collocato un ospedale militare, con l'avvento della II Guerra Mondiale, più precisamente a partire dal 1941, i suoi spazi non poterono evitare l'occupazione da parte delle forze armate naziste. I tedeschi erano giunti a Škofja Loka il 17 aprile dello stesso anno, preceduti quattro giorni prima dai soldati italiani che lasciarono poi campo libero agli alleati dopo il loro sopraggiungere. Passò poco meno di un mese ed il 6 maggio 1941 vennero arrestati e poi deportati da Škofja Loka i primi cittadini accusati di dissidenza o colpevoli di reati raziali: nelle settimane successive furono ben 26 le famiglie deportate presso campi di concentramento serbi. Fu questo un periodo di terrore e violenza per la città come lo fu per tutto il continente europeo: il 9 febbraio 1944 Škofja Loka vide giustiziati attraverso fucilazione 50 dei propri abitanti, rappresaglia condotta su civili inermi a seguito dell'uccisione partigiana di un soldato tedesco secondo un ignobile ed atroce codice di condotta che anche noi italiani conosciamo purtroppo assai bene. La città venne liberata il 9 maggio 1945, data che vide l'ingresso nelle vie cittadine delle forze armate partigiane. Il termine della II Guerra Mondiale non portò però in dote anche la conclusione della scia di brutale ferocia che ne caratterizzò il periodo: il Loški Grad venne adibito a prigione nella quale furono rinchiusi prigionieri di guerra e detenuti politici, molti dei quali furono giustiziati sommariamente per essere poi seppelliti in fosse comuni disposte nei dintorni del castello stesso.
Oggi la fortezza, come la cittadina circostante, ha recuperato la pace: le sue sale ospitano dal 1959 il Loški Muzej, un museo dedicato all'archeologia ed all'arte. Non abbiamo il piacere di visitarne le esposizioni: raggiungiamo il cortile interno del castello dopo aver portato a termine la salita che conduce al suo ingresso; la calura estiva, il poco tempo a disposizione e la fatica spesa ad inerpicare il nostro passeggino sugli impervi scalini che danno accesso al forte fiaccano senza pietà il nostro entusiasmo. Ci limitiamo così ad approfittare dell'ombra offerta dal cortile, ammirandone lo spazio ampio e silenzioso, indenne dalle grandi folle turistiche che ad onor del vero non abbiamo incontrato nemmeno tra le vie della sottostante cittadina. Ad ogni modo, se siete in cerca di ombra e quiete, potrete trovarle anche ai piedi delle mura del castello, sulla sommità della salita che conduce da Mestni Trg al suo ingresso: qui, sopra uno spiazzo protetto dall'ampia chioma di un tiglio, troverete anche una bella veduta dall'alto sulla città sottostante. Terminata la sosta, riprendiamo comunque il cammino e ci lasciamo alle spalle il Loški Grad ed il suo cortile. Dalla piattaforma panoramica abitata dal tiglio decidiamo di non compiere a ritroso il percorso compiuto all'andata, bensì procediamo lungo lo stesso sentiero che costeggiando le mura del castello scende comodamente verso il centro cittadino.
Il tragitto conduce quasi inevitabilmente ai piedi della Cerkev Marije Brezmadežne, la Chiesa di Santa Maria Immacolata collegata un tempo a quello che fu il convento delle Orsoline, proprio per questo nota ancora oggi anche con il soprannome di Nunska Cerkev, letteralmente "chiesa delle suore". Sorge al culmine di una scalinata alla base della quale, incastonata in una nicchia, sta un piccolo altare con una statua mariana. La costruzione del tempio risale al 1358, ma il suo aspetto attuale, in stile barocco, è dovuta ai lavori di ricostruzione che la struttura conobbe nel 1669 dopo che un incendio la danneggiò gravemente. Attigua alla chiesa la sagoma dormiente dell'antico convento, oggi in stato di parziale degrado, abitato fino da una comunità di monache clarisse fino al 1782, epoca di attuazione della riforma ecclesiastica promossa dall'imperatore Giuseppe II d'Austria che abolì molti ordini monastici nel tentativo di affermare un'autonomia laica contrapposta all'autorità papale, sostituite in seguito appunto dalle Orsoline la cui congregazione era invece inquadrata negli istituti secolari e soprattutto associata all'utilità dell'insegnamento scolastico. Di fronte alla Cerkev Marije Brezmadežne, uno stretto viottolo si insinua nello spazio angusto conteso da due file di caseggiati che si fronteggiano: sulla parete di uno di essi, all'imbocco della via davanti alla chiesa, campeggia una targa che rivela la casa natale del poeta e linguista sloveno Tine Debeljak, la Rojstna Hiša Tineta Debeljaka, che qui visse gli anni della gioventù. Nato nel 1903, scrisse e successivamente pubblicò su riviste le prime opere poetiche durante gli studi universitari. In seguito fu nominato redattore di uno dei giornali cattolici più importanti della Slovenia, lo Slovenec. Nonostante la sua produzione letteraria ed il suo incarico giornalistico, nel 1948 decise di emigrare in Argentina dove negli anni a seguire svolse lavori piuttosto umili, tra i quali quelli di facchino, magazziniere ed operaio presso una fabbrica farmaceutica. Ciò non toglie comunque merito alla sua dote letteraria che lo rese apprezzato esponente della società intellettuale slovena, tanto che dal 1954 al 1979 fu prima vicepresidente e poi presidente della Slovenska Kulturna Akcija, la più importante associazione culturale di emigrati sloveni. Morì lontano dalla patria, a Buenos Aires, nel 1989. Il viottolo su cui si affaccia la sua casa natale prosegue in avanti per alcune decine di metri, fino a sbucare in un più ampio e luminoso slargo posizionato ai bordi della Selška Sora. In questo punto le acque del fiume sono sormontate da uno stretto ponte, lungo appena una quindicina di metri, chiamato Kapucinski Most. Si tratta di un ponte in pietra realizzato nel corso del XIV secolo per ordine di Leopold von Sturmberg, vescovo di Frisinga. E' considerato il più antico ponte presente in Slovenia, oltre che uno degli esemplari più antichi disposti nei territori centrali del continente europeo, preziosi primati mantenuti anche grazie all'eccezionale circostanza che vide il ponte scampare miracolosamente alla devastazione della I Guerra Mondiale e della II Guerra Mondiale, consentendogli di conservare nel tempo la propria struttura originale. Forse a contribuire all'incolumità del Kapucinski Most è stata, ed è tutt'oggi, anche la statua in ferro battuto di San Giovanni Nepomuceno, posta a metà del passaggio su un piedistallo in pietra fregiato con lo stemma cittadino. Oggi il ponte è carrabile ma sul finire del XIX secolo il suo spazio appariva più ristretto, al punto che nel 1888 a causa dell'intenso traffico che vi circolava fu necessario intraprendere su di esso lavori di ampliamento, guidati da Anton Lončarič e Anton Žužek, che portarono ad un allargamento dello spazio transitabile ed alla realizzazione di balaustre in ferro ai margini. I corridoi pedonali originariamente realizzati in legno furono cementati nel 1901; nel 1974 il ponte venne invece restaurato con l'aggiunta di sostegni in cemento armato alla struttura. Questo luogo è custode anche di un particolare evento storico che si verificò nel 1381, quando quello stesso vescovo Leopold von Sturmberg che aveva commissionato la costruzione del ponte giunse a visitare Škofja Loka, per raggiungere la quale si trovo a dove attraversare proprio il Kapucinski Most. Le avverse condizioni metereologiche, con vento e pioggia battente che agitarono la cavalcatura che stava montando, unite alla mancanza di protezioni laterali, realizzate come detto solo cinque secolo più tardi, determinarono l'accidentale caduta dell'alto prelato nel sottostante fiume, nel quale trovò la morte per annegamento. Forse in memoria di questo tragico evento, in occasione dei lavori di ampliamento condotti alla fine del XIX secolo venne posizionata sul ponte la statua di San Giovanni Nepomuceno, patrono degli annegati essendo lui stesso stato martirizzato nel 1393 dopo essere stato gettato in catene nel fiume Moldava presso Praga. Nonostante sia noto anche come Kamniti Most, letteralmente "ponte di pietra", il Kapucinski Most evoca nel nome la propria prossimità con un'altra storica istituzione della città: in effetti, superato il Selška Sora, il ponte dirige senza possibilità di alternativa al Kapucinski Samostan, un monastero cappuccino fondato nel 1707 e tuttora abitato da una comunità di frati francescani.
Ad affacciarsi sulla via che prosegue dal ponte è più precisamente la Kapucinska Cerkev Svete Ane, la chiesa monasteriale, la cui costruzione risale al 1709. Questo complesso era una delle portate principali della nostra visita a Škofja Loka: lo raggiungiamo carichi di curiosità e desiderosi di scoprire gli ambienti che il monastero custodisce. Non abbiamo fortuna: il sito è aperto al pubblico in orari ben precisi, individuati nella mattinata e nel tardo pomeriggio, probabilmente per rendere le visite compatibili con gli impegni e le tempistiche della vita monacale. Peccato! Tra le altre cose, il monastero ospita una delle biblioteche più importanti di tutta la Slovenia, provvista di importanti volumi antichi, alcuni dei quali stampati nel XVI secolo, nonchè di un prezioso manoscritto datato 1721 ed intitolato "Škofjeloški Pasijon". Si tratta della più antica opera teatrale in lingua slovena attualmente conosciuta ed il suo autore è il frate cappuccino Romuald Marušič, che lo compose nel periodo in cui tra il 1715 ed il 1727 ha abitato il Kapucinski Samostan. Il soggetto dell'opera è la Passione di Cristo narrata attraverso 863 versi in rima e la sua prima rappresentazione risale allo stesso anno della sua prima stesura, quando fu messo in scena durante una processione religiosa condotta per le vie di Škofja Loka nel contesto delle celebrazioni per la Pasqua del 1721. A patrocinarne l'allestimento fu l'aristocratico locale Anton Ecker, mentre le decine di interpreti previste dall'opera vennero reclutate su base volontaria tra gli agricoltori della città e dei territori circostanti. All'epoca questi territori erano minacciati dalla piaga della peste ed indubbiamente la fede religiosa era uno degli appigli più forti per alimentare la speranza del popolo: la "Škofjeloški Pasijon" ebbe in tal senso un forte valore aggregativo nei confronti della gente comune e verso una minaccia che non faceva distinzioni tra i ceti sociali. Il testo venne rappresentato a Škofja Loka fino al 1767, poi per quasi 200 anni venne dimenticato per essere allestito nuovamente nel 1936 su iniziativa tra gli altri anche di Tine Debeljak, poi ancora nel 1999, nel 2000, nel 2009, nel 2015 ed ancora più recentemente nel 2022, rispettando la cadenza delle origini che ne dettava l'allestimento ogni sei anni, fatta eccezione per il 2021 quando per necessità legate alla pandemia da COVID-19 la rappresentazione fu rinviata all'anno successivo. Nel 2016 la "Škofjeloški Pasijon" è stata addirittura riconosciuta patrimonio dell'umanità dall'UNESCO. Il luogo in cui venne dato alla luce questo prezioso manoscritto, il monastero con la propria preziosa biblioteca, ci è purtroppo precluso. Non ci resta che ammirare all'esterno la facciata barocca della Kapucinska Cerkev Svete Ane, semplice nella sua bellezza, posizionata sopra una piccola piattaforma rialzata rispetto al piano stradale da una corta scalinata, presidiata da un crocifisso ligneo montato su un piedistallo di pietra e rivolto verso l'ingresso. Terminiamo la visita di Škofja Loka in Kapucinski Trg, un largo viale posto a lato del Kapucinski Samostan dal quale peraltro trae il nome, trafficato da automobili ed occupato da una stazione di bus, un ufficio postale, oltre che da alcuni negozi. Poco più indietro, superata la pensilina che offre riparo ai passeggeri in attesa degli autobus, il Novi Loški Most, stretto pone pedonale di più recente fattura, valica la Selška Sora offrendo a greve distanza una piacevole veduta sul vicino Kapucinski Most.
La densità di luoghi significativi a Kranj è notevole: il suo nucleo centrale, a discapito delle sue dimensioni contenute, offre ravvicinati spunti per racconti popolari o aneddoti storici. In effetti, nonostante i suoi appena 37.000 abitanti circa, questa è la quarta città in ordine di dimensioni di tutta la Slovenia, oltre che il capoluogo principale della regione della Gorenjska. La sua importanza è confermata anche dal titolo informale di capitale slovena delle Alpi che le viene attribuito: il confine occidentale della cittadina è prossimo al versante dell'altopiano Jelovica, mentre poco più a nord il limite è dettato dai rilievi delle Alpi di Kamnik. Il legame tra la città e la montagna si trasmette oggi come ieri anche ai suoi abitanti, basta citare a titolo di esempio Marija Perčič, alpinista nativa locale passata alla storia come la prima donna slovena (la tredicesima donna a livello mondiale) a scalare la cima del monte Everest nel 1990 insieme al marito Andrej Štremfelj, peraltro rappresentando anche la prima coppia sposata a portare a termine l'impresa. Raggiungiamo Kranj da Bled percorrendo poco più di 25km di distanza lungo la comoda autostrada che collega le due cittadine; la località si trova peraltro ad appena una decina di chilometri da Škofja Loka, situata poco più a sud. Penetriamo nel suo abitato dopo aver superato un anonimo ponte sospeso sopra le acque del fiume Sava: questo corso fluviale, lungo ben 947km, nasce nei pressi di Kranjska Gora, a ridosso del confine sloveno con Italia ed Austria, e procede verso sud attraversando la Slovenia, la Croazia, la Bosnia-Erzegovina e la Serbia, terminando la propria corsa gettandosi nel Danubio, di cui rappresenta il primo affluente in termini di volume d'acqua, presso Belgrado. E' il più esteso fiume presente sul territorio sloveno. Il passaggio della Sava segna in modo profondo l'aspetto del territorio intorno a Kranj, disegnando una valle fluviale sui cui bassi rilievi si dispongono le cittadine che la popolano. La regione venne abitata fin dall'età antica e nel corso del I secolo a.C. furono i celti ad occuparla. L'inizio dello sviluppo urbanistico di Kranj coincide però con l'arrivo del popolo barbaro degli sloveni intorno al VII secolo d.C.: in questo periodo venne infatti costruito il primo agglomerato abitativo cinto da mura difensive. Tra il XI secolo ed il X secolo la località divenne invece sede della marca territoriali che nei secoli successivi evolverà nel Ducato di Carniola. A far principio dal XIII secolo, Kranj acquisirà progressiva importanza economica ricevendo i diritti di città con i conseguenti privilegi, prima come polo artigianale ed in seguito, dal XIX secolo in avanti, come centro industriale. Parallelamente a ciò, maturò intorno ad essa anche una crescente considerazione culturale alimenta da illustri personaggi intellettuali che passarono da qui lasciando in eredità arte e conoscenza.
La prima fotografia che riceviamo da Kranj proviene da Slovenski Trg, un ampio piazzale considerato il punto di unione tra la città moderna e la sua parte più antica. Venne allestito nel suo aspetto attuale nel 1961 seguendo i progetti dell'architetto Marjan Tepina ed inizialmente gli fu attribuito il nome di Trg Revolucije convertito in quello odierno dopo la dichiarazione di indipendenza slovena. A caratterizzarne oggi lo spazio sono le tre sculture realizzate tra il 1960 ed il 1961 da Lojze Dolinar, imponenti nelle dimensioni e massicce nella struttura, con soggetto lo sciopero operaio, la lotta partigiana e la rivoluzione. Dolinar fu uno degli scultori più produttivi nel periodo compreso tra i due conflitti bellici mondiali, si stabilì a Kranj dopo il termine della II Guerra Mondiale ed ottenne il prestigioso Premio Prešeren nel 1969, un anno prima della sua morte avvenuta all'età di 77 anni. Proseguiamo a piedi dopo aver abbandonato l'automobile nei dintorni della piazza. Fiancheggiamo la mole della Mestna Knjižnica Kranj, la biblioteca pubblica, ospitata un un edificio dal carattere moderno realizzato negli anni '60 del XX secolo su progetto di Edvard Ravnikar. Davanti alla sua facciata rivolta verso Gregorčičeva Ulica, lungo un basso muretto, sono conservati alcuni murales raffiguranti alcuni episodi raffigurati a fumetti inerenti la leggenda dello Škrat Kranček, personaggio del folclore popolare, probabilmente di derivazione celta, impersonificato da un nano dalla barba rossiccia protagonista di racconti e leggende tra le quali quella secondo la quale questa creatura schiva e riservata vivesse un tempo nei pressi della cittadina custodendo in un luogo segreto un ricco tesoro di monete d'oro.
Più avanti attraversiamo Maistrov Trg, raccolta intorno ai pochi negozi e botteghe che si affacciano sul suo spazio: il nome di questa piazza è tratto da quello di Rudolf Maister, baffuto ufficiale dell'esercito austriaco, vissuto a Kranj durante l'infanzia dal 1883 al 1890. Il suo contributo rivoluzionario nella definizione dei confini jugoslavi al termine della I Guerra Mondiale è considerato un fondamentale apporto ad alimentare quella che decenni più tardi diventerà l'identità nazionale slovena: infatti, nel novembre 1918, nel momento in cui l'Impero Austro-Ungarico era in procinto di crollare, a capo di una milizia costituita da connazionali difese dall'agonizzate potere asburgico i confini di Maribor e dell'intera regione orientale della Stajerska. La sua azione separatista lo condusse ad autoproclamarsi comandante militare della città stiriana in cui era penetrato con il proprio esercito, sottomettendo a tale decisione la maggioranza della cittadinanza che all'epoca era di origine e lingua tedesca. La reazione della popolazione non si fece attendere troppo e circa due mesi più tardi, il 27 gennaio 1919, una folla manifestante si radunò davanti all'edificio municipale per protestare contro l'occupazione militare e richiedere il ritorno tra i confini austriaci. Maister diede ordine di sparare sulla folla provocando in tal modo la morte di tredici persone ed il ferimento di altre sessanta. Secondo alcuni tale brutale azione repressiva fu condotta in reazione al tentativo dei manifestanti di irrompere nel municipio, secondo altri invece fu totalmente arbitraria ed improvvisa. Nelle settimane successive, la condotta epurativa nei confronti della cultura germanica proseguì con la censura di testate giornalistiche, l'esproprio di beni privati, il cambio della toponomastica cittadina ed il divieto di utilizzo in pubblico della lingua tedesca, Nonostante ciò, la storia consegnò alla Slovenia una sorta di eroe nazionale, il cui ricordo a Ktranj è affidato dal 1945 al nome di Maistrov Trg, presso la quale, prima di trasferirsi in una zona diversa della città e successivamente a Lubiana, Rudolf Maister visse alcuni anni tra il 1883 ed il 1887 presso un edificio lungo la cui facciata oggi è posizionato un busto che ritrae il suo volto adornato dagli inconfondibili voluminosi mustacchi.
La piazza segna oggi l'inizio della parte pedonale del centro storico e prosegue senza interruzioni direttamente nella Prešernova Ulica, anch'essa animata dal riflesso delle vetrine e dai colori delle insegne. Lungo il suo decorso è da menzionare la Prešernova Hiša, l'abitazione presso la quale risiedette France Prešeren durante il suo periodo di soggiorno in città: il sito è contrassegnato da una piccola targa commemorativa posta sopra il portone di accesso facciata e dalle bandiere slovena e cittadina collocate lungo la facciata. L'edificio, all'epoca della permanenza del vate era di proprietà del birraio Franz Mayr mentre oggi ospita il Gorenjski Muzej, un museo dedicato alla regione della Gorenjska. Percorriamo a piedi appena 150m prima di arrivare nella più ampia Glavni Trg, la piazza principale della città, attributo confermato anche dal nome stesso del luogo che letteralmente si può tradurre in "piazza principale". Il suo perimetro occupato dalle facciate di eleganti abitazioni medievali e rinascimentali, ciascuna abbellita con differenti decori e colori, giustifica la proclamazione della sito a monumento culturale nel 1983.
Tra di esse a fare da capofila è sicuramente la Mestna Hiša, l'edificio del municipio, disposto nella parte centrale della piazza: la sua struttura rappresenta il risultato dell'unione di quelli che in origine erano due dimore signorili indipendenti, una più antica situata nella parte laterale del complesso e risalente alla prima metà del XVI secolo, una più recente datata XVII secolo comprendente la parte centrale e la facciata con l'ingresso principale aperto sulla piazza. Oggi la Mestna Hiša oltre alla sede dell'amministrazione locale ospita anche mostre d'arte ed uno spazio museale stabile, il Gorenjski Muzej, dedicato alla storia ed alle tradizioni dell'Alta Carniola. Tale destinazione di utilizzo è sostenuta anche dal rinvenimento archeologico di alcune tombe slave e dei resti di un antico focolare celebrativo, reperti risalenti ad un periodo compreso tra il IX secolo ed il il X secolo, in occasione di lavori di restauro condotti sull'edificio nel 1965. Altro esempio di ammirevole residenza signorile disposta su Glavni Trg è la Pavšlarjeva Hiša, situata dirimpetto rispetto al municipio lungo il lato opposto della piazza: si tratta di un palazzo il cui allestimento risale al 1550 circa quale risultato di un'opera di unione di due o forse tre edifici in precedenza separati. La sua facciata vissuta, lungo la quale ancora si scorgono i resti di alcuni affreschi antichi, insieme al pittoresco corridoio porticato disposto ad uno degli angoli inferiori della struttura, attribuiscono a questa costruzione un certo fascino decadente ed evocativo. Dal 1995 qui sono ospitate le sale della Galerija Prešernovih Nagrajencev, uno spazio espositivo dedicato alle opere dei vincitori del Premio Prešeren. Non sono però solo gli edifici antichi ad impreziosire lo spazio di Glavni Trg: al suo limite rivolto verso Prešernova Ulica, leggermente decentrata, sorge la Mestni Vodnjak, una fontana tanto piccola quanto piacevole nelle forme realizzata nel 1837. Gli elementi scolpiti in bronzo dai quali zampilla il getto d'acqua lungo i due lati del monumento sono opera dello scultore Marko Pogačnik e rappresentano i fiumi Sava e Kokra, quest'ultimo affluente del primo nel flusso del quale si getta proprio nei pressi di Kranj. Al centro della fontana svetta un basso obelisco di pietra sulla superficie del quale sono riportate alcuni versi di France Prešeren e sulla cui cima è posto un globo dorato sormontato da un'aquila anch'essa aurea, simbolo della città. L'elemento che si può attualmente ammirare in Glavni Trg è però una copia di un identico monumento datato XVI secolo che in origine si trovava nel punto preciso in cui è posizionata l'attuale fontana.
All'estremità opposta della piazza si staglia invece lungo lo stesso lato occupato dalla Mestna Hiša la sagoma della Cerkev Svetega Kancijana, io principale luogo di culto cattolico della città. Questa chiesa, risalente alla fine del XIV secolo, rappresenta attualmente uno dei migliori esempi di architettura tardogotica di tutta la Slovenia. Ricerche archeologiche condotte sul posto nel 1972 e nel 1984 hanno rivelato che sul sito in cui sorge probabilmente era presente in antichità un arcaico luogo di culto paleocristiano risalente al VI secolo, in seguito sostituito da un primo e più piccolo tempio cristiano preromanico, già citato in documenti storici del X secolo, circondato da un cimitero che nei secoli raggiunse dimensioni tali da occupare una grossa parte dell'odierno centro storico della città. La struttura della chiesa è disposta in tre navate, il presbiterio attuale venne aggiunto nel 1413 mentre la ristrutturazione in stile gotico risale alla metà del XV secolo. Il campanile, alto più di 60m, è inglobato nella facciata che si mostra piuttosto ruvida ed essenziale. All'interno, le volte sono decorate da bassorilievi ed affreschi realizzati intorno al 1461, secondo un modello che richiama alla nostra memoria quanto ammirato all'interno della Župnijska Cerkev Svetega Jakoba di Škofja Loka seppure onestamente in modo meno ricercato e forbito.
L'altare principale e le vetrate colorate sono il risultato del lavoro condotto da Ivan Vurnik nel 1934 e più avanti da Stane Kregar nel 1969, mentre le statue poste al lato del tabernacolo sono opera sempre del XX secolo firmata da France Gorše. Gli ultimi lavori di restauro condotti sulla chiesa risalgono invece al 2004. Glavni Trg si chiude poco oltre la Cerkev Svetega Kancijana e la sua conclusione coincide con il Prešernovo Gledališče, il Teatro Prešernovo, adagiato in uno slargo della piazza disposto proprio sul fianco della chiesa. Attivo del 1945, agi esordi è stato considerato uno dei palcoscenici più sperimentali di tutta la Slovenia, luogo significativo anche dal punto di vista dell'identità nazionale se si pensa che in tempi insospettabili molti dei testi che vi vennero inscenati furono allestiti in lingua slovena. La sua importanza va ben oltre le sue dimensioni che lo attestano come uno dei teatri professionali più piccoli presenti sul suolo nazionale. Le sue origini non potevano però essere più lontane dal suo attuale utilizzo: la sua prima funzione fu quella di centro ricreativo destinato alla popolazione, destinazione che fu resa possibile dai lavori di ristrutturazione commissionati dal parroco locale Anton Koblar nel 1918 su un edificio già esistente. Al suo interno venne adibito un piccolo palcoscenico per le la messa in scena di spettacolo amatoriale, ma all'epoca la struttura deteneva scopi e destinazioni che esulavano dal solo teatro e che toccavano l'ambito sociale e quello politico. Nel gennaio 1919 il caseggiato fu luogo di raduno dei combattenti volontari che alla dissoluzione dell'Impero Austro-Ungarico conseguita al termine dalla I Guerra Mondiale chiedevano la permanenza della Carinzia tra i confini austriaci: la resistenza popolare durò solo pochi mesi, vale a dire fino al settembre 1919, e si distribuì su diverse località disposte al confine austro-sloveno, in contrapposizione armata all'esercito jugoslavo che marciava verso nord nel tentativo di annettere i territori imperiali meridionali. Il Trattato di Sanit-Germain dello stesso anno sancì che la decisione sarebbe stata decretata da un plebiscito popolare che in effetti fu allestito il 10 ottobre 1920 e sancì l'appartenenza della regione all'Austria. Tale fondamentale passaggio storico passò anche per il piccolo Prešernovo Gledališče, il quale solo un ventennio più tardi, nel 1940, fu convertito definitivamente in teatro ed ammodernato nella struttura secondo i progetti di Ivan Vurnik e Dušan Ogrin. I lavori edilizi subirono una battuta d'arresto con lo scoppio della II Guerra Mondiale, lasciando incompiuta tra le altre cose anche la facciata. Finalmente nel 1948 l'opera di restauro riprese slancio grazie all'iniziativa di uno studente di architettura di nome Ferdinand Jocif che contattò ambiziosamente per posta il celeberrimo Jože Plečnik per chiedergli aiuto nel portare a termine il progetto: grazie all'intervento dello stimato architetto, la facciata fu così completata dal costruttore locale Jože Slavec e si consegnò alla popolazione nel 1950. Negli anni successivi sul teatro vennero condotti ulteriori interventi di ampliamento grazie ai quali oggi il suo salone può ospitare fino a 196 spettatori in platea ed altri 56 in galleria. Giungiamo ad ammirarne l'ingresso fornito di un piccolo porticato sostenuto da colonne squadrate, affiancate da bassi ed esili lampioni dotati sulla sommità di lampada sferica. A catturare però maggiormente la nostra attenzione è però un altro elemento collocato sullo spiazzo antistante il teatro: si tratta del Prešernov Spomenik, un imponente monumento dedicato alla figura di France Prešeren, ritratto con lo sguardo severo e la capigliatura fluente, chiuso nel proprio lungo pastrano, una mano a trattenerne il lembo forse nel tentativo di ripararsi dal gelo o forse nel gesto di avvicinare passionalmente il pugno al cuore, proteso in avanti come in procinto di fare un passo deciso verso l'osservatore. La scultura in bronzo vide la luce nel 1952 ed a plasmarla furono gli scultori Frančišek Smerdu e Peter Loboda. Inizialmente il monumento fu apertamente criticato a causa delle sue massicce dimensioni, considerate eccessive, motivo per cui si decise di alleggerire l'ambiente dello spiazzo antistante l'ingresso del Prešernovo Gledališče piantumando di fronte alla statua alcuni alberi. Ciò nonostante, oggi il Prešernov Spomenik è diventato prepotentemente uno dei simboli di Kranj, vero attestato di merito agli artisti che ne hanno concepito la forma, effettivamente nelle proporzioni piuttosto provocatoria. Sicuramente il monumento è stato apprezzato da Amelia e Lidia, impegnate a rincorrersi ridendo tra le corpulente gambe della statua.
Quella di France Prešeren è comunque una presenza permeante il tessuto vitale della città: il nome del poeta non è associato solo al teatro locale e ad una delle vie più frequentate del centro storico, ma anche ad un luogo leggermente discosto dal cuore di Kranj ma la cui voce risuona con un eco profondo sussurrando senza sosta una solennità imperitura a tutta la città. Il Prešernov Gaj sorge circa 250m a nord di Slovenski Trg, in direzione opposta rispetto a Glavni Trg. Si tratta di un parco commemorativo istituito nel 1951 e la cui forma rispecchia i progetti dell'architetto Marjan Šorli: è composto da viali ombreggiati da alberi e circondati da aiuole erbose, silenziosi e pacifici, al centro il sentiero è protetto da uno stretto porticato sorretto da colonne di pietra grezza. Il luogo che occupa questo complesso, al bordo di un anonimo viale residenziale, fu occupato precedentemente e dal 1798 dal cimitero cittadino, posto anticamente al margine delle antiche mura medievali che in seguito vennero progressivamente dismesse fino a scomparire quasi completamente. Le ultime sepolture in questo camposanto vennero effettuate al 1939 e con l'evoluzione del sito a parco commemorativo la quasi totalità delle tombe in esso ospitate furono rimosse, ma alcune di esse vennero mantenute, tra le quali un piccolo mausoleo nel quale è sepolto l'esponente della famiglia di imprenditori locali Ivan Majdič, giustificando la definizione di spazio di memoria attribuita oggi al luogo.
Tra di esse comunque la principale è quella proprio di France Prešeren, il quale morì a Kranj nel 1849. La vita di questo personaggio potrebbe diventare facilmente la traccia per la trama di una pellicola cinematografica. Alla precocissima età di otto anni abbandonò la casa natale per trasferirsi presso uno zio sacerdote a Kopanj, cittadina della parte centro-meridionale del paese. Negli anni di gioventù l'esistenza di Prešeren subì un violento scossone in conseguenza di un evento poco precisato e di cui non si tramandano i particolari, probabilmente però legato alla dimensione affettiva o sessuale, di cui si rese protagonista. Forse anche per questo motivo, terminati gli anni scolastici, Prešeren lascerà non solo la località presso la quale viveva ma addirittura la Slovenia trasferendosi nel 1821 a Vienna dove intraprende gli a studiare in giurisprudenza. In questi anni comincia anche a coltivare l'interesse per la letteratura componendo nel 1824, poco più che ventenne, le prime opere poetiche. Nel 1828 un nuovo trasferimento porta Prešeren a Lubiana dove un anno più tardi comincia la carriera da avvocato. E' questo un periodo di profondo contatto del poeta con l'ambiente culturale più vitale ed ardito della capitale slovena: tra le altre, Prešeren intreccerà una stretta amicizia con l'intellettuale Matija Čop, grande sostenitore e teorizzatore di quella che diventerà la prima letteratura nazionale slovena, indipendente da influenze tedesche e modellata sull'identità popolare, di cui proprio Prešeren sarà riconosciuto in seguito capofila. Nel 1830 venne pubblicata la sua prima raccolta di poesie dal titolo "Kranjska Čbelica" (tradotto in italiano "L'Alveare di Kranj"). Nove anni più tardi, nel 1839, progetta di fondare insieme all'amico Andrej Smole una testata giornalistica in lingua slovena, proposito censurato dalle autorità austriache e stroncato dalla morte di Smole avvenuta improvvisamente nel 1840 durante i festeggiamenti per il suo compleanno sotto lo sguardo tra gli altri invitati anche di Prešeren. Scrittore di versi popolari, Smole aveva da poco compiuto appena 40 anni ma sembra che la vita da lui condotto non eccellesse per misura ed austerità. Il fallimento di parte dei propri programmi, le insoddisfazioni raccolte nello svolgimento della professione di avvocato, insieme alla morte di alcuni degli affetti più cari, tra i quali anche Matija Čop che annegò nella Sava nel 1835, gettarono Prešeren in uno stato di profondo sconforto, tale da spingere il poeta verso l'alcolismo e forse anche vicino al suicidio. Nel tentativo di voltare pagina, nel 1846 si traferì a Kranj, dove visse per solo tre anni, trovandovi la morte l'8 febbraio 1849 all'età di soli 49 anni. I tempi successivi alla propria morte riserveranno al poeta la gloria riconosciuta da innumerevoli attestati di importanza: innovatore nella lingua e nella letteratura, France Prešeren è considerato oggi uno dei padri dell'identità slovena tanto che il giorno in cui ricorre la sua morte è celebrato tuttora come festività culturale nazionale, la settima strofa del suo poema intitolato "Il Brindisi" è attualmente e dal 1991 adottato come testo dell'inno nazionale sloveno, viene infine ritenuto uno dei più importanti poeti romantici europei. La sua effige è stata riportata prima sulle banconota dei Talleri (SIT, in particolare su quella da 1.000SIT) e poi sulla moneta da 2€ dopo che la Slovenia assunse questa valuta nel 2007. La sua vita è trascorsa accompagnata da passione e drammatica intensità, la la sua morte consegnò ai posteri più debiti che lasciti, ma ciò che Prešeren lasciò all'avvenire in termini di opera letteraria incontrò un tale apprezzamento da parte del popolo da indurre una parte di esso ad indire una raccolta fondi poco dopo la sua dipartita per finanziare al vate una degna sepoltura. I contributi giunsero da persone di ogni ceto ed estrazione sociale, non solo sloveni ma anche croati, tedeschi, serbi, cechi e da un inglese. L'iniziativa rese possibile la realizzazione di un monumento funebre che venne completato nel 1851 e consacrato nel 1852: nei tre anni necessari dalla morte del poeta per portare a termine l'opera, le spoglie di Prešeren furono ospitate in una tomba umile e spoglia, disposta ai margini del cimitero che sorgeva accanto alle mura cittadine, nel luogo su cui sorge attualmente il Prešernov Gaj.
All'interno del parco monumentale sorge infatti oggi il Prešernov Nagrobni Spomenik, il Monumento Sepolcrale di France Prešeren, in stile bizantino, lungo la cui facciata sotto la forma aurea di una piccola lira sono incise in caratteri dorati il nome del defunto, le sue date di nascita e di morte, i versi "Ena se tebi je želja spolnila: v zemolji domači da truplo leži" ("Un tuo desiderio si è avverato, deporre le spoglie nella tua terra natale"). Ai piedi del del monumento la base in pietra squadrata si presta alla deposizione di alcune corone floreali sopra un letto di pietre tratte dall'alveo del fiume Sava, soluzione originariamente prevista come temporanea in attesa di essere sostituita con un piano scolpito ,a poggi divenuta di fato definitiva. La presenza delle spoglie di Prešeren e della tomba che le ospita all'interno del perimetro del Prešernov Gaj è tanto importante da conferire il nome del poeta all'intero sito. Dopotutto i personaggi illustri qui non mancano, a partire da Simon Jenko, anch'esso sepolto all'interno del parco commemorativo. Nato a pochi chilometri da Kranj da un'umile famiglia di contadini, costui divenne uno dei più importanti letterati sloveni di tutti i tempi, seppure inizialmente fu avviato in giovanissima età ai voti religiosi frequentando per un periodo il seminario presso Klagenfurt, in Austria. Dopo appena un anno però la sua vocazione lo portò a Vienna, dove abbandonata la scuola seminariale iniziò a lavorare come insegnante per finanziarsi gli studi giurisprudenziali. In seguitò trovò lavoro prima come impiegato in uno studio notarile e poi come avvocato. Tra il 1864 ed il 1866, poi ancora nel 1869, anno della sua morte avvenuta all'età di 64 anni, visse a Kranj. La sua poesia, già coltivata durante gli anni giovanili, caratterizzata da una forte umanità e da una profonda sensibilità, sono considerate un supporto importante a quello che fu il processo di formazione dello spirito nazionale sloveno, merito questo condiviso con il suo vicino di sepoltura France Prešeren. Jenko fu peraltro autore, insieme a Antun Mihanovic e Jovan Đorđevic, anche del testo di quello che sarà dal 1919 al 1941 l'inno nazionale jugoslavo, la cui musica fu arrangiata dal fratello Davorin Jenko insieme a Josip Runjanin. Il monumento tombale a lui dedicato, il Nagrobni Spomenik Simona Jenka, è simile nella forma a quello di France Preseren, anch'esso adornato da una lira dorata e da alcuni versi scritti dallo stesso Jenko che recitano "Ko jaz v gomili črni bom počival, i zelen mah poraste nad menoj, vaselih časov sreče bo užival, imel bo jasne dneve narodmpj" ("Quando riposo nel fitto nero, il muschio verde cresce sopra di me, godrà di momenti felici, giorni limpidi che il mio popolo avrà"). Fu realizzato da Jenez Vurnik il Vecchio ed inaugurato nel 1873, mentre il bassorilievo che raffigura il volto del defunto posto lungo la facciata è opera del figlio Janez Vurnik il Giovane. Non è invece sepolto all'interno del Prešernov Gaj ma è comunque commemorato da un monumento Janez Puhar, l'inventore della stampa fotografica su vetro, la cui memoria è affidata al Nagrobnik Genialnemu Janezu Puharu, una lapide in granito scuro frutto del lavoro di Jernej Kejžar e posizionata sul posto nel 2014. Consacrato sacerdote nel 1838, Puhar passò alla storia per aver ideato una tecnica capace di abbattere i costi di produzione delle immagini fotografiche sostituendo il supporto in argento, fino ad allora universalmente utilizzato, con quello più economico in vetro, riducendo peraltro i tempi necessari di esposizione ed aprendo quindi la strada per immagini più nitide e per una pratica fotografica accessibile a tutti. I procedimenti da lui congegnati sono giunti a noi descritti nero su bianco dal pugno autografo dello stesso Puhar, il quale però probabilmente omise, forse volontariamente, alcuni passaggi importanti necessari ad ottenere i risultati da lui conseguiti, la cui qualità ancora fino ad oggi non è più stato possibile raggiungere. Non si conosce con certezza dove fu sepolto Puhar dopo la sua morte avvenuta a Kranj nel 1864, ma il monumento a lui dedicato presso il Prešernov Gaj ha come scopo quello di celebrarne l'ingegno più che la scomparsa. In precedenza, all'interno del parco commemorativo era già presente dal 1960 una targa scolpita dedicata al sacerdote fotografo e collocata lungo una delle colonne che sostengono il porticato centrale, omaggio di un'associazione fotografica locale all'illustre innovatore. Ultima menzione per quanto concerne il contenuto del Prešernov Gaj va dedicato allo Spomenik Bažovismik Žrtvam, un monumento celebrante le vittime della foiba presso Basovizza. Utilizzata come pozzo minerario carbonifero scavato agli inizi del XX secolo ma presto abbandonata a causa della sua improduttività, questa voragine dislocata nelle vicinanze di una piccola località prossima alla città di Tieste, oggi situata su suolo italiano, fu teatro di un cruento e raccapricciante massacro quando nel maggio del 1945 le milizie titine deportarono qui decine di persone, di nazionalità italiana, tedesca e slovena, accusati di fascismo o anticomunismo, per essere spogliati, seviziati e sommariamente giustiziati. Erano persone di ogni estrazione sociale, civili oppure militari, il cui destino doveva essere la prigionia presso campi di prigionia sloveni, ma che la furia cieca e folle condusse alla fucilazione ed alla successiva caduta nei 200m di precipizio della foiba. Il numero delle vittime uccise in questo modo presso Basovizza non fu tramandato, ulteriore spregio alla vita di colore che persero la vita in tali disumane circostanze, ma una stima formulata sulle misure della profondità del pozzo prima e dopo il massacro, ridotta di una trentina di metri, portano a pensare che i morti sepolti nella voragine siano circa 2.000. I carnefici non furono mai individuati e non subirono alcun tipo di pena: dietro a questo come ad altri episodi simili sta l'ombra dell'OZNA, la polizia segreta jugoslava, i cui incaricati calarono sul territorio di Trieste muniti di liste di proscrizione per arrestare i colpevoli con la collaborazione dei comunisti locali. Un ultimo atto prima di concludere la breve passeggiata attraverso il Prešernov Gaj va dedicata a questo monumento, ricco di significato negli eventi drammatici che commemora. Kranj è una città dall'animo profondo e riflessivo: non c'è modo migliore di concludere la sua visita che passeggiare tra vestigia di poeti e versi di memoria. L'ultima immagine che porto via con me è però quello di una fresca limonata sorseggiata presso il bar Kavarna in Cukrarija situato di fronte allo spiazzo del Prešernovo Gledališče, al riparo da un temporale estivo partito improvvisamente ad interrompere la calura estiva ed a riempire l'aria dell'odore dell'asfalto bagnato.
Il racconto del nostro viaggio in Slovenia sta per volgere al termine, ma non posso concluderlo prima di aver descritto il luogo più magico e stupefacente incontrato lungo tutto l'interno itinerario. A circa un'ora di automobile da Bled, una trentina di chilometri ad est di Kranj, sorge un sito la cui isolata e spartana solitudine alimenta un fascino simile a quello delle ambientazioni di fiabe e racconti fantastici. Un posto al limite del surreale che avvolge con la propria bellezza genuina e ostinatamente sincera il visitatore che si avventura a visitarlo. Un'ambientazione dentro la quale è possibile intravedere distintamente tutta la fantasia poetica di un artista sognatore come lo Scultore di Paesaggi. Per raggiungere questo luogo occorre seguire la direzione verso il villaggio di Stahovica e da qui proseguire verso nord per altri 4,5km fino a raggiungere un parcheggio a dire il vero un po' troppo piccolo considerando che il sito che ci apprestiamo a conoscere richiama attualmente ogni anno circa 80.000 visitatori. Abbandonata l'automobile, basta attraversare la strada, immersa con la sua fascia di asfalto nella vegetazione dei boschi che occupano questi territori, per raggiungere la stazione a valle di una cabinovia. Ci accoglie una coda di persone in attesa che inizialmente scoraggia i nostri intenti, ma nonostante il sole battente di luglio l'attesa si rivela più rapida del previsto, complice anche un piccolo bar con parco giochi attiguo che offre ombra e divertimento ad Amelia e Lidia. Acquistati i nostri biglietti, iniziamo la nostra ascesa. La realizzazione della cabinovia che collega la valle con la vicina montagna iniziò al 1961 e portava la firma di Vlasto Kopač, allievo di Jože Plečnik, che la progettò un anno prima, nel 1960. L'opera venne inaugurata nel 1964 ed oggi rappresenta una delle tre cabinovie esistenti in tutta la Slovenia, quella con tracciato più lungo senza pilastri di sostegno presente in Europa. Il suo cavo di supporto lungo ben 1.668m le consente di coprire un dislivello di 857m a bordo di cabine che possono ospitare fino ad una trentina di passeggeri per volta. Le partenze sono abbastanza continue e frequenti e non dobbiamo attendere molto prima di poter accedere alla cabinovia per iniziare la salita. Il viaggio si dimostra in effetti piuttosto affollato: lo spazio della cabina è quasi completamente occupato da passeggeri, tutti in piedi e pigiati l'uno all'altro. Nonostante il tragitto duri appena una manciata di minuti, non posso certo dire che manchi di adrenalina, soprattutto per chi come il sottoscritto soffre di vertigini. La cabina si allontana progressivamente dal suolo sorvolando i boschi e raggiungendo un'altezza massima da terra di 230m: da questo punto nel 2018, la squadra slovena di pallacanestro acrobatica Dunking Devils ha compiuto uno spettacolare salto con l'elastico dal tettuccio di una cabina ferma a mezz'aria, nel contesto di un programma televisivo statunitense dal titolo "Fly Guys" con protagonisti stuntmen professionisti. Ad ogni modo, malgrado i brividi di paura suscitati dall'altezza, l'esperienza seppur breve possiede davvero qualcosa di spettacolare ed una volta aperti gli occhi, dopo aver superato il primo spaventoso impatto, è impossibile richiuderli, immersi nel paesaggio che ci circonda ed ammirati da un punto di osservazione davvero privilegiato. Arriviamo così alla stazione superiore situata lungo il versante del monte Šimnovec, a 1.412m s.l.m. Una corta ed angusta scalinata ci conduce attraverso la stazione di arrivo verso l'esterno, passando davanti alla sala macchine della cabinovia: l'impianto venne restaurato ed ammodernato nel 2011, mentre nel 2020 vennero sostituite le funi di sostegno, lavori che contribuirono entrambi a rendere la cabinovia più sicura. Da questo punto si aprono due possibili alternative per proseguire il percorso: la prima consiste in un itinerario a piedi su un sentiero in salita, quasi completamente esposto al sole, lungo circa 1,5km e con dislivello di circa 200m, soluzione più lenta ed impegnativa; la seconda invece prevede di coprire l'ultimo tratto di ascesa a bordo di una seggiovia la cui stazione inferiore è situata pochi metri a lato del punto di arrivo della cabinovia. Optiamo ovviamente per quest'ultima alternativa: ci piacerebbe percorrere la distanza a piedi e non siamo tipi da tirarci indietro, ma non vogliamo chiedere troppo alla nostra giornata ed inoltre raggiungere in fretta la cima ci consentirà di condurre con più calma la visita in compagnia delle bambine. Del resto il tempo è tiranno e l'ultimo viaggio in discesa della cabinovia è previsto per il tardo pomeriggio. Il biglietto da noi acquistato a valle comprendeva già l'utilizzo anche della seggiovia, opzione di andata e ritorno, al costo di 26€ per gli adulti e di 15€ per i bambini sopra i 6 anni di età. Pochi passi e già siamo in posizione ad attendere di salire sulla seggiovia: inaugurato anch'esso nel 1964 e progettato sempre da Vlasto Kopač, nel 2023 questo impianto di salita fu ampliato con l'aggiunta di sedili a sei posti. A metà strada incontriamo una fermata intermedia presso la quale è possibile scendere per accedere alla locanda Zeleni Rob, l'unico ristorante presente nei paraggi in altura. Rimaniamo comodamente seduti ai nostri posti sulla seggiovia, ci lasciamo alle spalle la stazione intermedia e pochi attimi dopo raggiungiamo la sommità del percorso: ci troviamo sulla cima del monte Gradišče, a 1.666m s.l.m. Ci accoglie una piattaforma rocciosa che costituisce una sorta di crocevia di molti dei sentieri che percorrono la zona, dominata sullo sfondo dalla stazione superiore della cabinovia. Ad un margine di essa, un piccolo sperone petroso offre un punto di vista panoramico sulla Dolina Kamniške Bistrice, la valle di origine glaciale solcata dal fiume Kamniška Bistrica, affluente della Sava lungo appena 33km. Alle nostre spalle, un piccolo piedistallo di pietra con piano circolare riporta segnate su targhette di metallo i nomi delle montagne che popolano lo sfondo del paesaggio, la cui posizione è segnalate dalla direzione verso la quale sono indirizzate le targhette stesse. Terminato di gustare questa splendida veduta, proseguiamo il nostro cammino valicando la piattaforma che ci ha accolto al termine del nostro viaggio in seggiovia e cominciamo a scendere lungo il suo versante opposto. Il sentiero procede in una discesa piuttosto ripida su pista sconnessa e la vista si apre su un vasto pianoro ricoperto da pascoli erbosi, in lontananza si scorge già un piccolo agglomerato di capanne raccolto nello spazio come semi gettati su un terreno grezzo ed ancora incontaminato: siamo finalmente giunti alla Velika Planina.
Si tratta di un altopiano carsico collocato a 1.611m s.l.m. lungo le pendici delle Alpi di Kamnik. Il suo nome significa letteralmente "grande pascolo" in richiamo all'attività di allevamento che tuttora vi viene svolta: ancora oggi infatti, nei mesi estivi, tra giugno e settembre, gli allevatori beneficiari di questi terreni, circa una sessantina provenienti per la maggior parte da villaggi a valle, raggiungono l'altopiano per condurre il bestiame, principalmente bovini, sui pascoli estesi per ben 5,8km² di superficie, risiedendo per tutta la durata della stagione all'interno di capanne che forniscono loro rifugio. Tale circostanza rende la Velika Planina uno degli insediamenti di allevatori di bestiame in alta montagna più grande di tutto il continente europeo. Percorriamo l'ultimo tratto di sentiero meno ripido che ci separa dal Pastirsko Naselje, il villaggio malgaro, calati in un ambiente disegnato sui profili ondulanti del suolo montano e delimitato ai bordi da isolate macchie boschive di conifere.
La pista continua su una discesa più dolce, contorna un profondo avvallamento simile ad un cratere ed approda infine all'insediamento abitato. Lo scenario che si presenta allo sguardo è quasi surreale: il prato verde diventa un mare immenso interrotto qua e là dalle mille forme diverse offerte dalle rocce sporgenti che emergono dalla terra come scogli; a formare un disegno libero da schemi si distribuiscono su di esso numerose basse capanne dal tetto composto da tavole in legno di abete chiamate šinkel e la cui tipica forma spiovente a breve distanza dal terreno richiama quella di un cappello a cono. Non ci sono strade, non esiste un sistema di illuminazione artificiale degli spazi esterni. La presenza dell'uomo è calata senza scossoni o stravolgimenti nel contesto naturale a configurare un rapporto di simbiosi dentro al quale si intuisce una sorta di rispetto reciproco. Penetriamo nel piccolo villaggio quasi con il timore di alterare questo delicatissimo equilibrio. Le ore diurne incoraggiano l'afflusso sul posto di un numero considerevole di turisti, grossolana stonatura alla pace del luogo, che passeggiano tra le capanne e sfilano accanto alle mucche lasciate libere di pascolare; il suono che giunge alle orecchie è quello del vento accompagnato dal richiamo dei campanacci allacciati al collo del bestiame.
L'insediamento comprende attualmente140 capanne delle quali solo 63 vengono utilizzate come riparo dai malgari durante l'estate. La presenza degli allevatori di bestiame sulla Velika Planina risale al Medioevo come testimonia il rinvenimento sul sito dei resti di una capanna lignea risalente al XV secolo. In realtà, già dall'epoca preistorica l'area era frequentata da esseri umani, come sembrerebbero confermare alcuni rinvenimenti archeologici: qui probabilmente giungevano cacciatori e raccoglitori in cerca di cibo o risorse, istituendo ne tempo un sistema di diritto tribale tramandato oralmente e di cui anche in epoca moderna si sono ereditate tracce. L'apertura al turismo risale invece agli anni '30 del XX secolo, quando si cominciò ad affittare le capanne ai viaggiatori nella stagione in cui non erano utilizzate dagli allevatori: fu questo l'inizio dello sviluppo del luogo come meta ambita soprattutto per la pratica di sport invernali. Durante la II Guerra Mondiale, la Velika Planina fu sottoposta ad un durissimo quanto ignobile assalto: nel 1944 infatti, un manipolo di soldati nazisti irruppe sul posto dando alle fiamme tutte le capanne del villaggio, radendo di fatto al suolo l'intero insediamento. Motivo di tale ferocia era il sospetto che i bovari sull'altopiano collaborassero con i partigiani sloveni, dislocati sulle montagne nelle vicinanze, circostanza che probabilmente corrisponde al vero ma che non giustifica comunque tanta brutale devastazione. La propensione alla resistenza dei malgari locali trova conferma nella vicenda del bombardiere B17 statunitense che il 19 maggio 1944 precipitò colpito dalla contraerea tedesca proprio sulle alture vicine alla Velika Planina. Dei dieci aviatori americani presenti sul velivolo, due persero la vita nell'impatto, due vennero catturati subito dopo dai soldati nazisti, sei riuscirono a fuggire ed a nascondersi con l'aiuto dei partigiani che presidiavano questi territori. Nonostante l'incessante ricerca da parte dei tedeschi, non fu mai scovato il ricovero occulto sulle pendici della Velika Planina presso il quale i sei soldati vennero condotti: tre di essi furono subito in grado di abbandonare il nascondiglio per iniziare il difficile ritorno verso la propria base; due di loro dovettero rimanere per dieci giorni sotto la protezione dei partigiani a causa delle ferite riportate prima di ristabilirsi e poter lasciare il nascondiglio; solo uno, il tenente Otto Hinds, andò incontro alla morte a seguito delle lesioni provocate dall'incidente. Ammesso che i malgari non abbiano partecipato attivamente al recupero ed alla protezione dei fuggitivi, la loro prossimità allo svolgimento dei fatti destò l'interesse dei nazisti che evidentemente non dovette trovare però grossa collaborazione dal momento che la vicenda si concluse con la completa devastazione dell'insediamento malgaro sulla Velika Planina nell'inverno del 1944, pochi mesi dopo la caduta del bombardiere B17. E' probabile che i malgari furono in qualche modo spettatori di ciò che accadde ma decisero di non darne notizia agli occupatori tedeschi e se gli aviatori americani riuscirono a sfuggire alla cattura, forse in parte è anche merito loro.
A conferma di ciò, basta avvicinarsi ad una delle capanne oggi presenti sull'altopiano: non è difficile capire quale dal momento che è l'unica sopra la soglia della quale sventola una bandiera slovena. Al suo interno è ospitato il Preskarjev Muzej, uno spazio espositivo dentro al quale sono raccolti reperti e manufatti che illustrano scorci della vita condotta dai malgari in questi luoghi. A costruire questa capanna fu l'allevatore Andrej Preskar, da cui il nome attuale attribuito al museo, il quale la riedificò dopo il passaggio della devastazione nazista. Le capanne distrutte dai nazisti vennero infatti ricostruite a partire dal 1945 anche se non furono più le stesse: vennero realizzate con una pianta più larga per soddisfare l'esigenza di maggiore comodità dei proprietari e l'aspetto del luogo non sarà quindi mai più lo stesso delle origini. Altre capanne furono ricostruite negli anni '60 del XX secolo in stile più moderno e su progetto di Vlasto Kopač. Preskar fu invece l'unico a ricostruire nel 1945 la propria capanna mantenendo intatta la pianta ovale e riproducendo fedelmente la struttura originaria, motivo per cui oggi essa rappresenta l'unico manifesto esistente della tradizionale architettura di queste costruzioni e per tale motivo è stata destinata ad ospitare un museo. Questo edificio costituisce l'ultimo baluardo di memoria del sistema secondo il quale agli inizi del XX secolo le dimensioni e la disposizione delle abitazioni sulla Velika Planina fossero rigidamente imposte agli allevatori dall'imperatore austriaco, proprietario dei terreni che concedeva in usufrutto ai bovari, il cui diritto a condurvi il proprio bestiame era accuratamente e severamente regolamentato. Raggiungiamo il Preskarjev Muzej risalendo piuttosto a fatica il versante erboso del piccolo avvallamento intorno al quale è disposto il villaggio. Paghiamo i biglietti di ingresso, 2€ per gli adulti e 1€ per i bambini (per la piccola Lidia, poco più di due anni di età, l'ingresso è stato gratuito), alla giovane guida che attende i visitatori sulla soglia. Ed è proprio prima di iniziare la visita guidata del museo che osservando la porta che da accesso alla capanna, in legno rinforzato con placche di metallo che la guida ci spiega essere state ricavate dalle lamiere del bombardiere B17 precipitato in zona nel 1944. Penetrati all'interno della costruzione si presenta al nostro sguardo un primo ambiente di strette dimensioni e distribuito lungo parte del perimetro che serviva per dare ricovero alle bestie durante la notte: tale disposizione contribuiva a tenere caldi gli ambienti oltre che a proteggere gli animali. Sempre in questa sorta di vestibolo veniva accumulata la neve ed il ghiaccio che i malgari raccoglievano dalle vette vicine, compiendo anche lunghi trasporti muniti di grosse ceste, per acquisire una riserva d'acqua per l'abitazione. Superata questa prima stanza si oltrepassa una seconda soglia e si raggiunge il piccolo spazio occupato dal malgaro: una corta branda dove riposare, un grezzo focolare ancora annerito di fuliggine, qualche pentola di metallo in cui cucinare il pasto, qualche mensola sopra la quale riporre i pochi attrezzi necessari, nulla di più, nessuna comodità aggiuntiva rispetto a quanto risulta strettamente utile, nemmeno l'ombra di agio o lusso. La vita degli allevatori di bestiame seguiva i duri ritmi del lavoro e non ammetteva vizi o svaghi; poca ricchezza e poca comodità ma la disponibilità di pace e silenzio deve essere stata merce rara soprattutto se immaginata dal mondo iperconnesso di oggi. Nell'ambiente un tempo abitato dall'allevatore di bestiame oggi sono esposti molti degli attrezzi utilizzati per affrontare la vita sull'altopiano: ciotole, scodelle, qualche manufatto di legno che i bovari intagliavano nel tempo libero, un pettine, una mantella composta da fuscelli secchi utilizzata per ripararsi dalla pioggia e componente distintiva del costume tradizionale degli allevatori locali, già descritto nel 1789 dal naturalista austriaco Balthasar de la Motte Hacquet. A compire lo sguardo sono però soprattutto gli attrezzi impiegati per la produzione del formaggio: era questa un'attività produttiva molto importante per i bovari che frequentavano la zona, tanto da creare nel corso del tempo un prodotto tipico e prodotto esclusivamente in questi pascoli: si chiama Trnič ed è prodotto utilizzando ricotta, panna e sale. I bovari lo producevano nei mesi estivi, nel periodo di permanenza sulla Velika Planina per condurre il bestiame al pascolo, soli, isolati e lontani per la durata di alcuni mesi dalle proprie famiglie. Nacque dalla loro nostalgia l'usanza di produrre un formaggio che veniva successivamente decorato con particolari strumenti di legno, una specie di scalpelli chiamati pisava, per essere dato in dono al termine della stagione, quando gli i malgari facevano ritorno a casa, alle proprie mogli o compagne Ne venivano prodotti due dalla forma identica, spesso somigliante ad un seno femminile o ad una pera, per essere divisi tra i due innamorati. Non di rado regalare un Trnič ad una fanciulla diveniva una seria proposta di matrimonio ed il fatto che la corteggiata accettasse il dono equivaleva ad un assenso. Negli anni questa tradizione divenne un vero tratto distintivo di questo territorio, valicando per il suo connotato semplice e romantico i confini d'origine per diffondersi a distanza come esempio, oggi più che mai prezioso, di come molto spesso la felicità sta nelle piccole cose, come un pezzo di formaggio. Prima di essere consegnate alle fortunate destinatarie, le forme di Trnič prodotto dai malgari venivano immagazzinate e lasciate riposare all'interno della capanna, su alcuni ripiani prossimi alla sommità del soffitto, il quale era aperto alla sommità per ovviare alla mancanza di canne fumarie. La visita non si protrae che per poche manciate di minuti, ma nel complesso vale davvero la pena visitare il Preskarjev Muzej: qui e solo qui è possibile cogliere l'occasione unica ed irripetibile di avvicinarsi in modo tangibile alla storia che ha caratterizzato questi luoghi.
Ci lasciamo alle spalle il museo e ritorniamo a passeggiare nello spazio del Pastirsko Naselje, accompagnati da gruppi di mucche intente a brucare pacificamente l'erba incuranti dei passanti. Sul margine dello stesso lato dello spiazzo intorno al quale si dispone il villaggio, affiancati l'uno all'altro, troviamo due punti la cui presenza è segnalata dagli ombrelloni dai colori sgargianti posizionati sopra i tavoli per ripararli dal sole. Avvicinandoci ci rendiamo resto conto che più che vere attività commerciali, queste piccole mense sono appendici delle abitazioni dei malgari, disposte sul prato dinanzi all'ingresso delle capanne e composti da pochi tavoli sopra i quali vengono serviti taglieri di formaggio e salumi preparati all'interno nella cucina privata dell'abitazione. Sono comunque l'unica alternativa per un pasto decente nei dintorni, dal momento che i pochi rifugi e l'unico ristorante presente sulla Velika Planina sono situati ad una distanza che comporterebbe una discreta camminata sotto il sole estivo di mezzogiorno. Gustiamo il nostro pranzo senza rimpiangere di esserci fermati nel meno affollato de due punti ristoro, nel frattempo osserviamo con interesse il lavoro silenzioso di un vecchio malgaro zoppicante intento a rigirare delle forme di formaggio avvolte in canovacci e distese al sole sopra un piccolo ripiano accanto all'entrata della capanna.
Concluso il pasto, riprendiamo la nostra passeggiata all'interno del villaggio malgaro: attraversiamo lo spazio centrale dell'insediamento dove alcune mucche pasteggiano incuranti (o quasi!) del nostro passaggio e ci inerpichiamo lungo il versante opposto della conca che accoglie l'agglomerato di capanne. Sfiliamo di fronte ad un piccolo crocifisso di legno protetto da una tettoia spiovente e da uno stretto recinto, quest'ultimo probabilmente posato con l'intento di proteggere l'immagine sacra dal bestiame al pascolo. Proseguendo la marcia raggiungiamo con poca fatica un punto leggermente discosto dal resto del villaggio e lievemente sopraelevato rispetto ai dintorni. Qui sorge la Kapela Marija Snežna, la Cappella della Madonna delle Nevi, l'unico luogo di culto religioso presente tra i confini della Velika Planina. Nonostante le sue minuscole dimensioni, questo edificio riveste una grandissima importanza per gli allevatori di bestiame che frequentano questa regione dal momento che consente loro di assistere alla messa durante la loro permanenza estiva sull'altopiano. Prima che la cappella venisse realizzata, si tramanda che i bovari, impossibilitati a scendere a valle per non abbandonare la mandria al pascolo, fossero soliti recarsi presso la locanda Zeleni Rob, a poco meno di 2km di distanza dal villaggio, per sentire il suono della campane delle chiese a valle che richiamavano i fedeli alla messa la domenica mattina, l'unico modo per coltivare il proprio credo durante i mesi vissuti sull'altopiano. Per assolvere alle necessità spirituali del malgari, nel 1939 venne realizzata la cappella su disegno niente poco di meno che di Jože Plečnik. Come tutti gli altri edifici dell'insediamento, anche la chiesetta andò completamente distrutta tra le fiamme appiccate dai nazisti nel 1944, ma venne ricostruita nel 1988 su progetto, ancora una volta, di Vlasto Kopač.
Raggiungiamo la Kapela Marija Snežna con l'intento di visitarne l'interno: dopo essere penetrati all'interno del recinto di legno che la circonda, superiamo la sua soglia e ne scopriamo l'ambiente spoglio e semplice, privo di elementi particolari di decoro. La mia attenzione viene piuttosto catturata da una fune pendente dal soffitto, collegata all'unica campana posta sulla piccola torre campanaria posizionata proprio a sormontare il portale. Memore dell'esperienza vissuta nella Cerkev Marijinega Vnebovzetja di Bled, presso la quale era consentito ai turisti suonare la campana della chiesa, afferro a due mani la fune e con un bello strattone faccio partire la mia scampanellata il cui suono si diffonde subito all'esterno per tutto il Pastirsko Naselje. L'epilogo si dimostra però drasticamente opposto rispetto a quanto accaduto a Bled: un arcigno sagrestano si avvicina a me con aria severa intimandomi di non suonare la campana della chiesetta e, neanche poco velatamente, di abbandonare l'edificio. In effetti comprendo subito dopo che si sta raccogliendo una piccola folla di fedeli in attesa dell'arrivo del parroco per assistere alla funzione religiosa presso la chiesetta: viaggiare porta a confondere un giorno con l'altro e non ho potuto ricordare che il giorno della nostra visita era proprio una domenica. Una figura davvero pessima che però non ci impedisce di sostare ancora qualche minuto all'esterno, sulle panche di legno disposte lungo il perimetro del recinto, per ammirare un'ultima volta la piccola cappella, presidio divino nel luogo in cui nemmeno la tecnologia è riuscita ad arrivare. Spingendo lo sguardo più in là, in direzione opposta rispetto al villaggio malgaro, lo sguardo raggiunge i morbidi rilievi collinari della Mala Planina, letteralmente il "piccolo pascolo", dove si colloca un secondo più piccolo villaggio. A separarci da essa è uno spazio di 2km percorribile a piedi, ma rinunciamo a raggiungerla per cominciare la via del ritorno verso valle.
Attraversiamo a ritroso il Pastirsko Naselje, risaliamo sul margine della conca e ripercorriamo il sentiero sterrato che avevamo seguito per arrivare al villaggio. Nel punto in cui era terminata la ripida discesa su superficie sconnessa che ci aveva condotto su a destinazione dalla stazione a monte della seggiovia, decidiamo di intraprendere un percorso diverso e proseguiamo su un sentiero sterrato, più pianeggiante, che circonda il versante della salita. Al termine di poche centinaia di metri ci troviamo di fronte ad un piccolo chiosco dotata di alcuni sedute all'aperto e presso il quale vengono serviti panini e bibite. Intoro ad esso scorgiamo alcune abitazioni che richiamano nella forma le capanne tradizionali ma di fattura e stile visibilmente più moderni. Da qui il tragitto si fa molto più complesso: inizia una ripida salita che mette a dura prova le nostre gambe ed il sentiero a tratti appare più irregolari a causa di sassi e ciottoli. Arriviamo finalmente alla stazione della seggiovia e da qui in avanti la via del ritorno si volge in maniera decisamente più comoda, nonostante una discesa in cabinovia piuttosto affollato. La visita si conclude cristallizzando ricordi bellissimi di questi luoghi: la Velika Planina è sicuramente una delle destinazioni slovene più particolari e dense di tradizioni, un'occasione imperdibile per conoscere ed apprezzare alcune delle tradizioni di questo bellissimo paese. Mi sento solo in dovere di lasciare in dote due preziosissimi consigli: attenzione al sole, l'altopiano in estate è inondato di luce senza possibilità di particolari ripari; portate della scarpe comode e sacrificabili, anche le mucche potrebbero lasciarvi in dono qualcosa di proprio durante la visita.
Un ultimo sguardo alla propria opera appena data alla luce, creata dal nulla, figlia dello scalpello ed immagine del pensiero. Lo Scultore di Paesaggi ammira silenzioso il proprio lavoro, la testa leggermente reclinata su n lato, le braccia stese sui fianchi ai lati del grembiule ancora coperto dalla polvere rocciosa. Osserva i rilievi di questo paese meraviglioso e straordinario: la Slovenia è custode di una bellezza la cui eleganza racconta un delicato, precario e bellissimo equilibrio con la propria parte naturale, con le proprie origini risalenti alla terra ed alla montagna, ai fiumi ed ai boschi. Lo Scultore di Paesaggi non poteva riuscire meglio nel proprio intento, quello di lasciare in eredità un portale facilmente accessibile attraverso il quale venire proiettati in una dimensione magica ed incantata. Distogliendo lo sguardo dalla propria creazione, ripone gli attrezzi nella propria bisaccia che carica sulla spalla prima di allontanarsi verso orizzonti, in cerca di nuovi paesaggi da scolpire.