07 agosto 2021

MEIRINGEN - Vicini ma Lontani

Sono trascorsi due anni e mezzo dal nostro ultimo viaggio alla scoperta del Mondo. Due anni: un intervallo che sembra una breve sosta ma che in realtà cela una vita intera. I nostri ultimi ricordi di luoghi lontani stazionano lì, indietro, in una parte delle nostre esistenze che mai come oggi dobbiamo chiamare passato. Non il passato dal sapore agrodolce che si evoca con nostalgia ripensando a memorie e ricordi, piuttosto un passato su cui riflettere, meditare e dal quale cominciare quindi ad agire. Nel viaggio che risponde al nome di vita, da questa estate torrida dell'anno 2021 da cui sto scrivendo battendo le dita sulla tastiera, nessun viaggiatore può in coscienza affermare di essere rimasto lo stesso di ieri. Allo stesso modo anche per noi partire per nuove destinazioni assume ora un nuovo significato, una sfida con sè stessi arbitrata da responsabilità e rispetto. Ed è così che pur rimanendo vicini a casa si scopre possibile viaggiare lontani.

Meiringen è una cittadina svizzera situata tra i confini del Canton di Berna e all'interno del Berner Oberland. Per raggiungerla impieghiamo circa 6 ore, ma ne avremmo impiegati almeno un paio in meno se non fosse stato per le code ineludibili che abbiamo incontrato lungo la via. Questa volta abbiamo infatti deciso di spostarci con la nostra automobile: scelta sofferta ma per ora necessaria. Varcato il confine, attraversiamo la dogana, paghiamo il pedaggio autostradale svizzero una tantum del costo di 40€, e la nostra destinazione sembra già a portata di mano, traffico permettendo. Imbocchiamo l'autostrada svizzera A2 e da questa ci spostiamo sulla strada principale Hauptstrasse 11: dalla dogana alla meta finale abbiamo circa 180km da macinare. Se vi capitasse mai di percorrere questo tragitto, prestate attenzione al paesaggio nei pressi della località di Andermatt, mentre si attraversa il Canton Uri. Qui si narra che in passato si svolse un leggendario duello tra uomo e diavolo: la tradizione racconta che il passaggio attraverso questa porzione di valle fosse particolarmente complicato per gli abitanti del luogo, i quali faticavano a trovare una soluzione per raggiungere agevolmente e senza pericolo il lato opposto della gola. Il diavolo, venuto a conoscenza della circostanza, comparve un giorno alla popolazione, proponendosi di costruire lui stesso un ponte sospeso sulla valle per consentire il passaggio, a patto però che, in contraccambio, la prima anima ad attraversare la struttura divenisse di sua eterna proprietà seguendolo per sempre negli inferi. Gli abitanti del posto discussero a lungo sulla validità della proposta, ma alla fine accettarono l'offerta. E così il diavolo diede appuntamento loro per il giorno seguente all'alba. Trascorsa la notte, sorto un nuovo giorno, gli esseri umani ritornarono sul luogo dell'apparizione e lì trovarono nuovamente il diavolo, e dietro di lui un ponte di pietra a cavallo della gola. Il diavolo si rivolse quindi agli uomini per riscuotere il proprio tributo, e fu così che il capo del villaggio, fattosi avanti, esaudì la richiesta del demonio: dalle sue spalle fece avanzare un caprone che per primo attraversò il ponte. Il diavolo capì allora di essere stato ingannato ed andò su tutte le furie: decise di distruggere il villaggio scagliandovi sopra una pesante roccia erratica distaccatasi dalla montagna e posatasi poco lontano. La catastrofe era ormai certa, ma venne scongiurata dall'intervento di una pia donna che, intuite le intenzioni del diavolo, gli impedì di compiere i propri propositi incidendo il simbolo di una croce sulla roccia stessa. In verità, il passaggio attraverso questa porzione di valle in passato fu realmente problematico, ed ancora oggi a lato dell'autovia nei pressi di Andermatt sorge il Teufelsbrücke, il Ponte del Diavolo, sospeso sul torrente Reuss che scorre a lato del nastro d'asfalto, accolto nel ventre della valle Schöllenenschlucht. Il primo passaggio che consentisse lo spostamento da un lato a quello opposto della valle non fu però un ponte, bensì una scalinata in pietra che permetteva la discesa lungo il versante roccioso della montagna: dal termine di provenienza latina scalineae deriva probabilmente l'appellativo attuale Schöllenen attribuito alla valle. Questa prima soluzione venne poi sostituita, nella prima metà del XIII secolo, da una passerella di legno sostenuta da catene. Nel 1595 venne realizzato un più sicuro ponte in pietra, il quale nel 1707 fu danneggiato, insieme alla passerella lignea, da una piena del sottostante torrente e distrutto infine da un'alluvione nel 1888. Già dal 1707 venne dato incarico all'ingegnere svizzero Pietro Morettini di realizzare un nuovo passaggio, questa volta attraverso un tunnel di 64m di lunghezza scavato a valle direttamente nella roccia della montagna, opera conclusa nel 1708: questa costituì la prima galleria della storia realizzata su una strada alpina. Tuttavia, nel 1799 una battaglia tra le truppe napoleoniche e l'esercito russo apportò ingenti danni al passaggio e ciò condusse nel 1820 ad iniziare i lavori per un nuovo ponte che venne ultimato dieci anni più tardi, ponte ancora oggi utilizzabile dal traffico non motorizzato. Nel 1958 venne infine realizzato l'attuale passaggio autostradale dotato di una galleria attraverso il massiccio roccioso. A memoria della leggenda che caratterizzò questi luoghi, nel 1950 l'artista urano Heinrich Danioth dipinse lungo la parete rocciosa, l'immagine stilizzata di un diavolo affiancato da un caprone, rappresentazione ben visibile anche di passaggio in automobile lungo la via all'imbocco della galleria. Da Andermatt a Meiringen il tragitto sulla Hauptstrasse 11 richiede più di un'ora, tempo a dire il vero ben speso a giudicare dal paesaggio che circonda chi si trova a percorrere questi tratti di strada. Come una navicella spaziale lanciata a gran velocità nello spazio, si viene proiettati improvvisamente nel cuore dell'Haslital, regione corrispondente alla porzione superiore della valle del fiume Aare. Versanti montani ricoperti da conifere ed immersi a tratti in un vapore di nuvole, panorami aperti e spazianti sopra una valle ampia e verdeggiante sulla quale i raggi del Sole pomeridiano sembrano planare lievi come foglie portate dal vento, scenari di una bellezza imprevista e semplice come l'improvvisa veduta sul piccolo Steinsee che compare a lato della via, la strada che scorre in disparte quasi timorosa di disturbare il silenzio di questo spettacolo così inatteso: questo è lo scenario che ci sorprende nell'attesa di raggiungere la destinazione. Il nome di questa regione, abitata per la prima volta da popolazioni barbare, principalmente frisone o scandinave migrate da nord tra il IV secolo d.C. ed il VI secolo d.C., deriva da quello del baliato imperiale di Hasli, un'antica enclave del Sacro Romano Impero che godette in epoca passata di particolari privilegi liberali, essendo stata proclamata reichsfrei, vale a dire un'entità territoriale soggetta direttamente all'imperatore senza intermediazione di signori o principi locali. Il baliato di Hasli mantenne le proprie concessioni di diritto ed autonomia fino al 1311, anno in cui venne ceduto da Enrico VII di Lussemburgo, re di Germania, al casato dei Weissenburg: nonostante un tentativo di rivolta condotto senza successo dalla popolazione nel 1334, questo evento di fatto pose fine all'esistenza del baliato, sebbene in seguito, passando sotto i possedimenti della città di Berna, il territorio recuperò parte dei propri privilegi perduti. Il nome Haslital attraversò indenne cinque secoli fino al 1833, anno in cui l'appellativo venne convertito in Oberhasli a designare un nuovo distretto federale svizzero: il distretto venne poi abolito nel 2009, ma dal 2007 alla regione turistica corrispondente ai territori di Brienz, Meiringen ed Hasliberg venne riattribuita la denominazione storica di Haslital, che mantiene tutt'oggi. Capitale del baliato di Hasli prima e del distretto di Oberhasli poi fu, dalla loro nascita alla loro dissoluzione, sempre la città di Meiringen.

Abitata fin dall'epoca medievale, Meiringen ebbe nei secoli il pregio di essere l'unica città mercato della zona, ed in effetti molto frequentata fu la sua fiera annuale, tenutasi dal 1417 e dal 1490 divenuta mercato con frequenza settimanale. La sua notorietà fu tanto consistente da attirare i ricchi commercianti lombardi che giungevano qui per acquistare soprattutto capi di bestiame, cavalli e prodotti caseari: la prossimità della cittadina ai valichi montani la rendeva infatti un passaggio strategico per lo spostamento di persone e merci. Va da sè che proporzionata alla sua fama crebbe nel tempo anche la sua ricchezza. Oltre all'attività commerciale legata alla compravendita di beni
 nel contesto del mercato locale, la vocazione rurale dei territori circostanti fu molto forte, e ne è testimonianza il fatto che ad amministrare le attività produttive della zona erano in origine sei baüert, vale a dire gruppi di contadini locali associati nell'agricoltura e nell'allevamento del bestiame. La ricchezza generata dal florido commercio condusse inevitabilmente ad una progressiva crescita della popolazione, e ciò portò, al principio del XIX secolo, ad un inesorabile impoverimento generale cui seguirono ingenti migrazioni, principalmente verso il continente nordamericano. A partire da questo importante svincolo storico, ed in particolare dagli anni '80 del XIX secolo, Meiringen convertì la propria vocazione da rurale a turistica, sviluppandosi come importante meta vacanziera invernale in virtù della sua vicinanza alla montagna e quindi a numerose stazioni sciistiche: la posizione strategica della città calata in mezzo ai valichi montani che un tempo aveva fruttato molta fortuna in termini mercantili, oggi ancora una volta eleva il luogo a destinazione ambita, questa volta per merito del suo stupendo paesaggio. Nell'ultimo secolo e mezzo il turismo si è sempre mantenuto vivace e costante a Meiringen, nonostante i due conflitti mondiali che inevitabilmente determinarono un calo della domanda. Fatto sta che oggi sono ancora molti i viaggiatori che, d'estate e d'inverno, arrivano a visitare la città, che oggi conta circa 4.600 abitanti, ed i suoi dintorni. Anche noi siamo stati attirati dalla fama di Meiringen, a dirla tutta non tanto dalle sue ricchezze storiche e paesaggistiche quanto da quelle culinarie. Ma procediamo per gradi. Dopo un viaggio più lungo del previsto, raggiungiamo infine, sul finire della serata estiva, la nostra destinazione. Alloggeremo all'Hotel Victoria, situato nella zona centrale della città, sebbene, essendo io stesso abituato a vivere in un piccolo centro rurale, sono portato a pensare che per cittadine delle dimensioni di Meiringen sia un po' pretenzioso parlare di centro, visto che non esiste una vera e propria periferia. Ad ogni modo, l'Hotel Victoria si colloca di fronte alla piazza principale dell'abitato ed ai bordi della locale stazione ferroviaria. Non mi sento comunque di consigliare l'albergo, e non me ne vorranno i gestori della struttura: prezzi elevati, camere pulite ma non memorabili come farebbe pensare il loro costo, personale abbastanza freddo, ristorante inavvicinabile. C'è da dire, ad onor del vero, che nulla è economico qui, come del resto in tutta la Svizzera, anche se le origini rurali del posto non lo farebbero sospettare: il nome stesso Meiringen suggerirebbe una realtà più confidenziale, semplice e tradizionale, derivando probabilmente (anche se non con certezza) dall'unione dell'antico appellativo personale tedesco Megiher con la desinenza germanofona -ingun, a formare una parola composta che letteralmente significa "popolo di Megiher". Chi sia questo Megiher non è dato sapere, ma non si annovera certo tra le mie seppur scarse conoscenze di alta società o di finanza tra i vari Onassis e Rockefeller. Uno dei pochi aspetti positivi offerti dall'Hotel Victoria risiede invece nella Gästekarte Haslital, una specie di lasciapassare turistico che viene rilasciato gratuitamente a tutti gli ospiti e che offre agevolazioni e sconti sulla maggior parte delle attrazioni turistiche della zona: è sufficiente registrare i propri dati su una piattaforma web indicata dall'albergo prima dell'arrivo per disporre del documento, procedura offerta (credo) anche da tutti gli altri alberghi locali. Ad ogni modo, la camera che ci è stata assegnata non ci trattiene più di tanto: siamo arrivati a pomeriggio inoltrato e già una parte del nostro prezioso tempo ci è sfuggita dalle mani. Non perdiamo altri minuti e ci rimettiamo in pista. E' ormai sera ma mettiamo a tacere la lombalgia da automobile e lasciamo prevalere la curiosità. L'Aareschlucht è una gola scavata dal fiume Aare nella roccia del massiccio calcareo Kirchet: è qui che il fiume non ha trovato una via alternativa per procedere oltre con il proprio decorso e l'unica possibilità a sua disposizione è stata quella di scavare un passaggio attraverso la roccia calcarea. Il risultato è uno spettacolare palcoscenico creatosi dal fiume per mettersi in mostra.

Il sito si trova in vicinanza dall'abitato di Meiringen, a meno di 1km di distanza; è sufficiente un viaggio in auto di pochi istanti per raggiungerlo, anche se, con la luce solare, è facile arrivarci anche a piedi. I percorsi scavati dall'Aare in questo punto sono in realtà ben sette, ma solo uno di essi è visitabile, e precisamente il più recente. Il tragitto turistico, inaugurato nel 1889, misura complessivamente 1,4km di lunghezza ed è allestito su una combinazione di passerelle di legno montate su telai metallici e di gallerie scavate nella roccia. Nel punto più stretto la gola è larga appena 1m, mentre la parte più alta si eleva a 180m sopra il livello del fiume. Il sito è accessibile tutti i giorni da aprile a novembre a partire dalle ore 08:30 fino alle ore 17:30, ma nella stagione estiva, tra luglio ed agosto, offre anche un'eccezionale apertura serale fino alle ore 22:00 che consente di visitare la gola dopo il calare del Sole. Un'occasione da non perdere: non tutto il male viene per nuocere ed il nostro ritardo dovuto al traffico stradale ci concede l'opportunità perfetta per ammirare la Gola dell'Aare in versione gran galà. Raggiungiamo l'ingresso ovest della gola, quello più prossimo a Meiringen: normalmente l'accesso al sito è concesso da entrambe le estremità del percorso, ma durante le aperture serali viene mantenuto attivo solo l'accesso sul lato ovest, mentre quello sul lato est, compreso il tratto terminale delle passerelle su questo versante, viene chiuso al pubblico. Presso l'ingresso occidentale è disponibile un ampio parcheggio per le automobili e contestualmente alla biglietteria è possibile trovare anche un chiosco di souvenirun piccolo ristorante con tavoli anche all'aperto ed una piacevole area giochi per i bambini: la costruzione del ristorante e del chiosco risale al 1928 e la loro ristrutturazione fu compiuta nel 1987. Non incontriamo coda alla biglietteria, paghiamo il costo del biglietto (10CHF scontato del 20% per possessori di Gästekarte Haslital, ingresso libero per bambini sotto i 6 anni di età) e penetriamo nell'abbraccio di roccia plasmato dal fiume.

Il primo tratto del percorso si svolge su una stradina sterrata posta a lato dell'Aare che ci scorre silenzioso accanto. In questa prima porzione incontriamo anche la singolare presenza di uno stretto ed alto edificio, come una specie di vecchia rimessa, che una scritta posta lungo la facciata definisce invece come una pasticceria: al nostro passaggio la troviamo chiusa e non so se sia aperta durante l'orario diurno, ma il pensiero di assaporare qualche dolciume prima di addentrarsi nell'Aareschlucht devo ammettere che mi ha solleticato. Superato questo punto si giunge subito al principio della gola vera e propria: l'ingresso è costituito da una breve galleria che consente di immergersi nella parete calcarea del Kirchet. Poco oltre il percorso prosegue su alcune passerelle esterne e qui veniamo accolti da un altro elemento: il rumore costante e poderoso delle acque del fiume che si agitano nelle strettoie disegnate nella roccia. Proseguendo più avanti, il camminamento si divide su due tragitti ed è possibile continuare sia esternamente lungo le passerelle a lato del fiume sia internamente attraversando un budello di gallerie. Oggi quest'ultima opzione è facilitata dalla presenza dell'illuminazione elettrica, la cui predisposizione risale al 1912. Lo spettacolo è particolare e l'impressione che ne deriva è quella di assistere ad una curiosa danza tra le acque del fiume e la roccia della montagna, in un'abbraccio tra elementi di diversa natura, solidi e liquidi, complementari ed opposti. La musica è quella dello scroscio dell'acqua che incontra il silenzio della roccia, le luci sul palcoscenico sono quelle del crepuscolo con l'aggiunta di qualche colore che la mano dell'uomo ha posizionato qua e là ad enfatizzare il ritmo.

Si rimarrebbe interminabili momenti ad ammirare questo magico incontro, se non fosse che il sito è a dire il vero piuttosto affollato, anche se non proprio congestionato. E nonostante ciò è comunque possibile percepire l'incanto di un luogo che costituisce un punto di incontro tra gli interpreti della natura, e da questo incontro scaturisce armonia. Circa a metà del percorso, la melodia del fiume si arricchisce di un nuovo strumento e a lato della gola si incrocia lo Schräybach, una bassa cascata, tipico esempio di erosione meccanica: l'acqua piovana, arricchita di minerali ed acida, scava la propria via attraverso la roccia calcarea per tuffarsi più in basso nel letto fluviale, in un processo in continuo divenire che giorno dopo giorno gradualmente riduce sempre di più il salto della cascata.

Ci troviamo qui nella Grossen Runs, il punto più aperto della gola con una larghezza di 40m da parete a parete: qui il fiume trova più spazio e si concede un po' di tranquillità, approfittandone per depositare sabbia e ciottoli a formare una stretta spiaggetta situata ai piedi delle passerelle. Arrivati alla fine del percorso, un cancelletto di ferro sbarra il proseguimento lungo le passerelle, occorre tornare indietro, la visita è terminata troppo presto. Alcuni suggerimenti utili: per visitare al meglio l'Aareschlucht è importante vestire scarpe comode e chiuse, insieme a vestiti impermeabili, dal momento che il percorso è piuttosto umido e dalle pareti rocciose cala un'incessante pioggia di gocce d'acqua che prima che possiate terminare la visita vi inzupperebbe da testa a piedi. Un'ultima doverosa raccomandazione: nel percorrere la gola prestate attenzione a non disturbare il Tatzelwurm, una creatura mitologica alpina, simile ad un drago con una testa di felino dotata di lunghe zanne avvelenate e posta su un lunghissimo collo affusolato, zampe fornite di artigli acuminati e ventre di serpente. Le leggende locali narrano infatti che questa bestia si nasconda in alcune caverne segrete e nei cunicoli di roccia all'interno della gola, pronto ad aggredire chiunque osi importunarlo: proprio la sua capacità di muoversi sinuoso, rapido e silenzioso attraverso il dedalo di strettoie rocciose della montagna giustifica il suo nome che letteralmente, tradotto dal tedesco, sta a significare "verme con le zampe". Oltre a possedere un morso estremamente velenoso, si dice che il Tatzelwurm sia in grado di difendersi emanando dal proprio corpo anche uno straordinario calore, tanto da fargli attribuire dalla tradizione popolare la capacità di tramutare la sabbia in vetro al proprio passaggio. La figura del Tatzelwurm detiene un legame particolare con la Gola dell'Aare, ed il merito va attribuito ad una narrazione folkloristica che racconta di come una creatura simile vivesse nascosta nei pertugi di roccia sulle montagne di questa regione. Il mostro spesso terrorizzava le popolazioni locali attaccando le fattorie e cibandosi del bestiame. Nessuno osava affrontare la creatura per ucciderla, ma un giorno, un tale di nome Heinrich von Winkelried, cavaliere decaduto ed esiliato dopo essersi macchiato dell'onta di aver commesso omicidio, si fece avanti offrendosi di dare la caccia al mostro. In cambio chiese la propria libertà ed il perdono che gli avrebbe concesso di fare ritorno tra gli uomini onesti. La gente fu combattuta dalla proposta del cavaliere, ma alla fine accettò e fu così che Heinrich von Winkelried si mise in viaggio armato della propria spada e di una lancia acuminata per scovare il Tatzelwurm. Cercando di stanare la bestia, il guerriero perlustrò numerose caverne e galleria sulle montagne, fino a quando finalmente la sua ricerca giunse al termine e davanti a lui si stagliò la figura del temibile verme feroce. Il Tatzelwurm non si lasciò invitare e subito aggredì il cavaliere, ma questi, con un'abile mossa, riuscì prima a trafiggere la creatura con la propria lancia poi ad infilzarla con la propria spada, ed il mostro morì. Heinrich von Winkelried, fiero della propria vittoria, fece subito ritorno al villaggio, ed appena fu in vista dei primi abitanti, in segno di trionfo sollevò la spada sopra il capo. E fu allora che una goccia di sangue del mostro, rimasta sul filo della lama, cadde sulla mano dell'eroe, il quale, stroncato dal mortale veleno, stramazzò al suolo. Alla fine aveva comunque trovato la libertà che tanto bramava, anche se in un modo diverso da quello che immaginava.

Come spesso succede con le credenze popolari, questa storia, tramandata di decenni in decenni, alimentò stravaganti fantasie nella testa della gente del luogo, tanto che ancora nel XX secolo non furono pochi gli avvistamenti di Tatzelwurm presso le montagne dell'Haslital riportati dalle cronache locali. Ed è per questo che oggi il Tatzelwurm rappresenta la mascotte dell'Aareschlucht: visitando il sito non vi sarà difficile imbattervi nella figura stilizzata del mostro riportata un po' ovunque, su cartelli, manifesti e decorazioni. Ad ogni modo non abbiamo avuto la fortuna, durante la nostra visita, di incontrare il Tatzelwurm in carne ed ossa, purtroppo. Così abbandoniamo il sito infradiciati ma tutti interi. A salutare il termine di questa nostra prima sortita a Meiringen è proprio il fiume Aare, che occorre superare sul dorso di un breve ponte per avere nuovamente accesso al centro abitato: nato da due ghiacciai (l'Unteraargletscher e l'Oberaargletscher) sulle Alpi Bernesi, è questo uno dei maggiori fiumi svizzeri con decorso interamente su territorio nazionale, drenando ben il 43% del suolo svizzero e sfociando dopo un tragitto di 295km nel Reno. Il legame tra il fiume e la valle qui è estremamente forte, basti pensare che nel 1550 una serie di esondazioni provocarono la distruzione di alcuni villaggi della zona e solo trecento anni più tardi, tra il 1866 ed il 1880, il problema delle alluvioni generate dall'Aare fu risolto deviando il corso fluviale: tra le cause dei disastri rientra soprattutto l'intensa opera di disboscamento a cui era sottoposta la zona con il fine di estrarre e lavorare il ferro, materiale prezioso per l'epoca e di cui la regione risultava ben fornita. Non è in effetti difficile avvertire questa connessione naturale tra i luoghi e l'acqua: sotto il nostro sguardo, il passaggio discreto dell'Aare presso la cittadina, al tramonto, completa perfettamente un paesaggio già di per sè notevole. La giornata volge al termine, la cena si rivela più complicata del previsto e non sono ancora rintoccate le ore 21:00 che già non si trova più un tavolo dove sedersi per mangiare. A quanto pare qui si cena prima che il Sole abbia terminato la sua discesa oltre l'orizzonte, visto che la maggior parte dei ristoranti e delle tavole calde in città ci informano di aver già chiuso la cucina. Proviamo a trovare un pasto anche presso il ristorante del nostro albergo, ma rimaniamo molto, ma molto, delusi: il glaciale cameriere ascolta la nostra richiesta, consulta il proprio orologio da polso e sospirando ci concede la grazia di un tavolo dove sederci. Non è nemmeno da dire che ce ne andiamo poco dopo senza nemmeno disturbarci di avvisarlo: qualche calciatore famoso credo potrebbe arrivare a paragonare la sua gentilezza ed ospitalità ad un bidone dell'immondizia. Fortunatamente troviamo una pizza ed una birra presso il vicino Restaurant Bahnhöfli, situato proprio di fronte alla stazione ferroviaria. Ritorneremo in questo ristorante anche il giorno successivo: consigliato il Rösti, niente male! Il resto della nottata scorre tranquillo, Meiringen giace tranquilla senza fare alcun rumore e dalla finestra della nostra camera d'albergo la città illuminata da poche luci dorme serena circondata dalle montagne.

Il mattino successivo decidiamo di visitare un'altra delle perle naturali della zona. Forse non sono in molti a sapere che Meiringen è nota anche per essere stata il luogo in cui il celeberrimo investigatore Sherlock Holmes trovò la morte. Non si sa come sia che il suo padrino letterario, lo scrittore britannico sir Arthur Conan Doyle, scelse proprio questi luoghi per ambientare la dipartita del proprio eroe. Ciò che invece è noto e documentato da certezza storica è che l'autore visitò Meiringen ed i suoi dintorni nel 1892, accompagnato dall'amico sir Herny Lunn, ed evidentemente il luogo suscitò tanto fascino nell'uomo da indurlo ad ambientare qui uno dei suoi racconti. La mente di Conan Doyle partorì la figura dell'astuto investigatore durante uno dei suoi primi incarichi lavorativi come medico presso un piccolo studio situato alla periferia di Porthsmouth, in Inghilterra, dopo un temporaneo impiego come medico di bordo in navigazione: si ritiene che sia proprio a tributo dell'arte medica che lo scrittore attribuì al proprio personaggio uno spiccato intuito ed una capacità deduttiva fuori dal comune. Stando agli appunti originali dello stesso Conan Doyle, il nome del protagonista dei propri racconti originariamente sarebbe dovuto essere Sherrinford Holmes, mutato in seguito in Sherlock Holmes dallo stesso autore si dice per merito di un giocatore di cricket, da cui il nome divenuto poi tra i più celebri della letteratura fu tratto. Conan Doyle fu in effetti grande appassionato di questo sport, tanto che tra il 1899 ed il 1907 partecipò come giocatore ad una decina di gare con il club del quartiere Marylebone di Londra. Dalla scelta del nome in poi, le caratteristiche attribuite da Conan Doyle a Sherlock Holmes hanno reso questo personaggio tra i più iconici, divertenti e sorprendenti dell'intera storia della letteratura mondiale: tutto ciò che lo descrive nelle pagine a lui dedicate definisce una figura allo stesso tempo realistica e da sogno, una specie di supereroe atipico dotato di qualità straordinarie rese credibili da una fisionomia ordinaria. Ammetto che, da buon divoratore di romanzi, tra i quali molti gialli, ho sempre avuto un debole per Sherlock, e ammetto che lo considero il personaggio poliziesco meglio riuscito tra tutti quelli che popolano le pagine di libri e romanzi: mi ha sempre colpito in particolare la sua capacità di discernere le conoscenze utili da quelle futili, e ricordo sempre con molta curiosità un episodio di un racconto in cui, durante un dibattito, Holmes afferma con sicurezza l'immobilità del pianeta Terra ed il moto orbitario del Sole intorno ad essa. Alla puntualizzazione di chi gli fa notare il superamento della teoria tolemaica a favore di quella copernicana, Sherlock precisa che tale informazione non gli è di nessun aiuto nella risoluzione dei suoi casi. Al contrario, con ragionamenti e deduzioni al limite del razionale (ma sempre logici), sarebbe in grado di dire con precisione il contenuto delle tasche di un individuo osservando semplicemente il suo modo di allacciare le stringhe delle scarpe. Francamente è difficile arrivare a comprendere come tutto ciò sia potuto essere stato partorito dalla mente di un uomo, ma Conan Doyle nella figura di Sherlock creò la propria fortuna: oggi non c'è nessuno che non conosca questo personaggio, ma ci fu un momento in cui la fama della propria creatura, giunta a livelli stellari, mise a dura prova il proprio autore, tanto che lo stesso Conan Doyle, decise di decretarne drasticamente la morte tra le pagine di un racconto del 1893 intitolato "L'Ultima Avventura" (titolo originale "The Final Problem"). E qui torniamo al nostro viaggio.

Tempo di una rapida (e scarsa) colazione presso il nostro albergo e ci dirigiamo verso la vicina Reichenbachfall: si tratta di una serie di cascate generate dal torrente Rychenbach presso la località Schattenhalb, a circa 1,5km di distanza da Meiringen. Il percorso in auto non richiede che pochi attimi, abbandoniamo l'auto presso il parcheggio condiviso tra una clinica privata ed una specie di centro sportivo, e ci dirigiamo verso l'ingresso. A pochi passi si colloca la base della Reichenbachfall-Bahn, una funicolare inaugurata già nel 1899 con lo scopo di servire una centrale idroelettrica situata nei pressi delle cascate. Il destino di questo breve mezzo su rotaia è indicativo di quello dell'intero sito: nel corso della prima parte del XX secolo, la gestione della funicolare cambiò diversi proprietari e fallì prima nel 1903 e poi nel 1907, quando l'infrastruttura era ancora in fase di costruzione; più avanti, con lo scoppio della I Guerra Mondiale, il sito venne chiuso per mancanza di visitatori. La sua fortuna è legata a doppio filo con la figura di Sherlock Holmes, dal momento che solo con l'avvento del turismo, a partire dalla metà del XX secolo, l'attrazione riuscì a trovare un grande successo, grazie ai numerosi viaggiatori appassionati di giallistica che giungevano qui come in pellegrinaggio sulle orme di Sherlock. In virtù di ciò, oggi il funzionamento della Reichenbachfall-Bahn è completamente finalizzato al turismo e formalmente slegato da quello della centrale idroelettrica.

Non lo è il ciclo delle cascate invece: occorre infatti prestare attenzione al periodo in cui si decide di visitare il sito, dal momento che nei mesi invernali la potenza della cascate risulta completamente assorbita dal fabbisogno della centrale ed il volume di acqua sui salti risulta quindi praticamente azzerato. Non è il nostro caso, saliamo a bordo del convoglio ed i vagoni di legno rosso della funicolare in una manciata di minuti ci conducono alla base delle cascate: il tragitto copre 714m di lunghezza su un dislivello in altezza di circa 240m, con una pendenza massima del 58%. In cima al percorso si apre la prima terrazza con vista sul salto maggiore, il quale misura in altezza circa 90m. Lo spettacolo è molto bello, impreziosito da un punto d'osservazione privilegiato. Di fronte a noi, sull'altro versante della cascate, a metà altezza scorgiamo la sagoma di una piccola stella bianca affrancata alla parete rocciosa della montagna: è lì che ci dirigiamo. Da qui parte un sentiero in salita che inizialmente costeggia il profilo montano per poi aggirare la cascata su un lato addentrandosi nella macchia boschiva.

Il complesso della Reichenbachfall comprende un totale di sette salti, i quali coprono cumulativamente un dislivello in altezza di circa 250m, mentre nel punto più ampio il tragitto disegnato dalle acque arriva a misurare 40m in larghezza. La salita lungo il sentiero è facilitata da alcuni scalini in pietra e non è per nulla impegnativa: anche Amelia, con il suo minuscolo zainetto sulle spalle, si cimenta con successo nel percorso.

La via conduce in breve su altre terrazze che concedono diverse pregevoli vedute sui salti. Più avanti si raggiunge il punto più alto della cascata: è qui che si attraversa il torrente su uno stretto ponte di metallo e l'impressione è quella di camminare quasi sulle acque della cascata, ben visibili sotto i piedi attraverso la superficie traforata della passerella. Passati sull'altro versante, il sentiero comincia a scendere e qui francamente si fa anche più impervio, fangoso e piuttosto ripido, anche se nulla di impossibile. Una leggera svolta verso sinistra conduce ad una porzione esposta di sentiero. Qui il cammino finisce a fondo cieco proprio di fianco al salto principale: siamo nel punto esattamente speculare rispetto all'arrivo della funicolare da cui siamo partiti, sul versante opposto. E qui infatti, sopra le nostre teste lungo la superficie rocciosa della montagna, troviamo la Sherlock Holmes Absturzstelle, la stella di metallo bianco che abbiamo seguito come una stella polare lungo il nostro cammino. E' questo il punto in cui, per convenzione, Sherlock Holmes trovò la morte per mano del proprio acerrimo nemico, il professor James Moriarty. Qui la realtà si fonde nuovamente con la fantasia. Nella narrazione del racconto "L'Ultima Avventura", ambientato nel 1891, Conan Doyle mette il proprio segugio sulle orme del famigerato criminale: è questo il primo ed ultimo racconto in cui compare la misteriosa figura di James Moriarty, sebbene Holmes affermi nel corso della narrazione di aver seguito le sue tracce già in altri numerosi casi in precedenza. Definito dallo stesso Sherlock come il "Napoleone del Delitto", Moriarty è un astuto malfattore celato dietro le fattezze di un distinto ed attempato genio della matematica, a capo di un'intricata organizzazione criminale capace di compiere, per lucro o per libidine, ogni sorta di efferatezza. Tanto geniale è Sherlock quanto diabolico è Moriarty, è lo stesso Holmes a definire il proprio avversario individuo di intelletto pari al proprio, e ciò fa di lui la nemesi perfetta dell'investigatore, il suo alter ego, il suo principale antagonista. Ormai incastrato e sconfitto da Sherlock, prossimo alla cattura da parte della polizia londinese, disperato e perduto, Moriarty giura vendetta al proprio giustiziere, il quale, sfruttando eccellenti doti da trasformista e travestimenti insospettabili, fugge da Londra nel tentativo di evitare lo scontro.

Ed è così che Holmes giunge, in compagnia dell'amico Watson ed a seguito di un intricato viaggio, in Svizzera, a Meiringen. "Risalendo la Valle del Rodano, e poi, uscendo a Leuk, ci dirigemmo al Passo della Gemmi ancora ricoperto di neve, e via Interlaken, arrivammo a Meiringen", questo è il tragitto che Conan Doyle fa compiere ad Holmes e Watson tra le pagine de "L'ultima Avventura". Holmes spera di essere finalmente sfuggito alla ritorsione di Moriarty, ma non può immaginare che il suo avversario è ben più vicono di quanto possa pensare: isolato con l'inganno da Watson, l'investigatore si trova ad affrontare il nemico corpo a corpo proprio presso la Reichenbachfall. Moriarty raggiunge Holmes lungo le impervie pareti rocciose della cascata; qui, nel punto in cui oggi è collocata la stella bianca di cui parlavamo poc'anzi, si scatena una frenetica lotta, conclusa con la tragica caduta dei due contendenti nella voragine aperta sulla cascata. Holmes e Moriarty hanno alfine trovato la morte...o almeno così sembra. A rendere ancor più vivido questo evento tradotto in mille sfumature diverse dalla fantasia di milioni e milioni di lettori, sotto il punto in cui si trova la Sherlock Holmes Absturzstelle, una targa evocativa ed un piccolo mazzetto di fiori in tessuto, deposti da appassionati ammiratori del celebre investigatore, ricordano il mortale combattimento tra due tipi opposti di intelligenza umana, un'atipica lotta tra il bene e il male. Per chiunque abbia sognato almeno una volta le avventure di Sherlock, questo posto è veramente imperdibile, quasi sacro.

E fu così che Conan Doyle decise prematuramente di sbarazzarsi del proprio eroe. Finalmente libero...se non fosse che i lettori, dopo aver letto il racconto, montarono una pressante protesta nei confronti dell'autore, cosa che lo indusse a scrivere un nuovo romanzo, "Il Mastino dei Baskerville" del 1902, ambientato in epoca precedente rispetto a "L'Ultima Avventura", per accontentare la domanda del pubblico, fino addirittura a contemplare la resurrezione ne "L'Avventura della Casa Vuota" del 1903: Sherlock si sarebbe salvato, a differenza di Moriarty, grazie al Bartitsu, un'antica arte marziale mista che combina stili asiatici ed europei ed ideata dall'inglese Edward William Barton-Wright tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX secolo (il nome rappresenta in effetti l'unione del cognome del suo inventore con la parola Jujitsu, riferita alla celebre arte marziale giapponese). Grazie alla conoscenze che l'investigatore aveva di questa disciplina, riuscì a sfuggire dalla morsa dell'avversario scampando così alla mortale caduta che invece inghiottì Moriarty. Nei tre anni seguenti (il racconto è ambientato nel 1894) Holmes viaggiò attraverso la Svizzera, la Francia, l'Italia e l'Asia fino a compiere la propria trionfale ed inattesa comparsa nuovamente a Londra. Strano, esotico, ma efficace. Curioso fu che nel narrare le gesta di Holmes, Conan Doyle nel proprio racconto scrisse il nome dell'arte marziale in modo errato chiamandola Baritsu: tale imprecisione fu forse scelta ragionata frutto di timore nei confronti di eventuali diritti d'autore, forse fu invece risultato semplicemente di un refuso tipografico, forse fu conseguenza di un errore di comprensione dello stesso Conan Doyle nel recepire il nome, circostanza sostenuta dal fatto che sia lo scrittore sia Barton-Wright per un certo periodo lavorarono entrambi per la rivista Pearson's Magazine e, sulla base di ciò, può essere che Conan Doyle attinse l'idea ascoltando i discorsi del collega, anche se fraintendendo la giusta pronuncia. Cosa ancora più strana è che il Bartitsu non conobbe grande successo negli anni successivi e rimase in gran parte sconosciuto, mentre il Baritsu involontariamente inventato da Conan Doyle, che immagino mai abbia praticato un'arte marziale in vita sua, a partire dal racconto poliziesco cominciò ad avere un seguito e a crescere come una disciplina da combattimento indipendente.
 
Dopo aver catturato un ultimo sguardo sulla Reichenbachfall ci rimettiamo in cammino lungo la discesa verso valle: nonostante avessimo acquistato già all'andata il biglietto per il ritorno sulla Reichenbachfall-Bahn decidiamo di proseguire il cammino lungo il lato sul quale ci troviamo rinunciando a tornare sui nostri passi per raggiungere nuovamente la stazione della funicolare. Ci discostiamo dalla cascata e ci addentriamo nuovamente nella macchia boschiva. Il sentiero è abbastanza semplice, anche se a tratti un po' sconnesso ed abbastanza ripido, ma la discesa non si dimostra molto difficoltosa. Così, in capo ad un quarto d'ora, raggiungiamo gradualmente l'abitato di Schattenhalb, dapprima sbucando su un sentiero posizionato sul costone rilevato di un pascolo, poi scendendo su una stretta strada asfaltata fino a giungere al punto di partenza, vale a dire la stazione a valle della funicolare. Il percorso a piedi ed il piccolo sacrificio di aver rinunciato alla comodità della funicolare ripagano con un meraviglioso panorama, nel corso della discesa lungo la collina, sulla valle sottostante.

Ma il culto della figura di Sherlock Holmes a Meiringen non si ferma solo al luogo della sua epica lotta contro il proprio antagonista. Il fulcro attorno al quale si sviluppa l'intera cittadina conduce ancora una volta alla figura letteraria del celebre investigatore. E difatti, la piazza principale, distesa tra l'altro proprio di fronte all'ingresso del nostro albergo, è Conan Doyle Place, un tributo al creatore di Sherlock, uno spiazzo piuttosto raccolto, delimitato da file di alberi e dalle facciate di alcune strutture alberghiere, circondato dalle strade silenziose su cui transitano rade automobili.

Al centro della piazza spicca la
Sherlock-Holmes-Denkmal, una statua in bronzo a grandezza naturale raffigurante Sherlock, opera dello scultore inglese John Doubleday che la realizzò nel 1988: per un occhio attento e conoscitore delle vicende dell'investigatore, sulla superficie bronzea della scultura sono celati 60 indizi, uno per ciascuno dei 60 casi che compongono l'intera carriera narrata nella letteratura ufficiale di Holmes. Dietro all'effige del personaggio letterario, un po' in disparte a dire la verità, si trova, sempre sulla piazza, il Melchior-Anderegg-Denkmal, un monumento dedicato a Melchior Anderegg, celebre guida alpina, pioniere dell'alpinismo, nato poco fuori Meiringen nel 1828. E' un vero peccato che questa statua sia messa leggermente in secondo piano rispetto alla prima, considerando che questo personaggio nativo della zona fu il primo scalatore di molte cime alpine occidentali, segnò vie di salita sconosciute prima, e segnò in definitiva con la propria opera la disciplina dell'alpinismo nella storia. Insomma lo si può considerare a tutto diritto come uno dei personaggi storici più importanti dei dintorni, soprattutto alla luce dell'importante tradizione montana che caratterizza questa regione. Figlio di agricoltori del luogo, decise di non seguire le orme della famiglia e ancora giovanissimo andò a lavorare come inserviente presso una pensione. Intrapresa la strada dell'alpinismo divenne guida estremamente nota nell'ambiente, tanto da legare spesso il proprio nome a molti notabili inglesi che giungevano sulle Alpi con l'intenzione di scalare vette e salire cime: tra di essi si cita spesso Leslie Stephen, critico letterario e padre della scrittrice britannica Virginia Wolfe, ritratto insieme a lui nel monumento posto in Conan Doyle Place. Anderegg fu, tra le altre cose, anche il primo cittadino svizzero ad ottenere la licenza di guida alpina, nel 1856, insieme ad un tale di nome Christian Almer originario del villaggio svizzero di Grinderwald. Morì nel 1914, e proprio nel centenario della sua morte, nel 2014, fu collocata sulla piazza di Meiringen la statua che ne commemora le gesta, opera della scultrice locale Clarissa Kessler.

Dietro queste due sculture, a poca distanza, affacciato sulla piazza, si colloca lo Sherlock Holmes Museum, uno spazio museale interamente dedicato alla figura di Sherlock. In verità lo spazio in sè ha qualcosa di veramente particolare: il museo è infatti ospitato all'interno di una vecchia chiesa di culto protestante sconsacrata. In effetti Meiringen fu una delle prima città svizzere ad accogliere la professione della fede anglicana dapprima all'interno della taverna Zum Wilden Mann (oggi divenuta il vicino Parkhotel du Sauvage), in seguito presso una chiesa vera e propria costruita nel 1867. L'esistenza di questo edificio religioso non fu semplice fin dai primi anni, visto che già nel 1876 l'immobile, a causa di dissesti finanziari, entrò tra i possedimenti del vescovo di Londra. Più tardi, nel 1879, la chiesa scampò miracolosamente ad un incendio che distrusse buona parte della cittadina, ma nel 1891 un secondo incendio la rase al suolo. Furono i proprietari del Parkhotel du Sauvage a rilevare i ruderi ed a commissionare la nuova costruzione del tempio, opera che si concluse a breve distanza di tempo, già nel 1891. Con l'avvento dei due conflitti bellici, il turismo nella zona si contrasse molto ed i fedeli anglicani che frequentavano la chiesa divennero piuttosto pochi: le funzioni religiose divennero sempre più rare ed il tempio cadde in disuso. Dal 1937 e per molti anni l'edificio fu utilizzato come deposito di bottiglie vuote per il Parkhotel du Sauvage, mentre durante la II Guerra Mondiale venne utilizzato anche come refettorio per i poveri. Nel 1974 la chiesa anglicana venne rilevata dall'amministrazione di Meiringen e fu messa sotto tutela: per circa 10 anni venne utilizzata a scopi scolastici. Nel 1990 fu ristrutturata e grazie al progetto dei coniugi architetti inglesi John Reid e Sylvia Reid venne riconvertita a museo. Lo Sherlock Holmes Museum fu inaugurato nel 1991 con il patrocinio della Arthur Conan Doyle Society di Londra ed alla presenza di Jean Conan Doyle, la figlia minore di sir Arthur. Jean, nata nel 1912, era un tipetto mica da scherzarci, tanto che fu per trent'anni ufficiale dell'aviazione britannica femminile e che durante la II Guerra Mondiale svolse anche incarichi di spionaggio internazionale. Il motivo che la collocò nel 1991 sul luogo dell'inaugurazione del museo intitolato al personaggio letterario inventato dal padre risiede nel fatto che Jean, dalla morte del fratello maggiore Adrian avvenuta nel 1970 in poi, fu esecutore letterario delle opere di Arthur Conan Doyle. Prima di Adrian, a gestire il lascito letterario di sir Arthur fu Jean Elizabeth Leckie, madre di Jean e Adrian, che morì nel 1940. Nulla della propria enorme fortuna letteraria venne invece lasciato dall'autore alla prima moglie, Louise Hawkins, morta nel 1906, ed all'unica figlia Mary nata da questo matrimonio. Quando si dice parenti serpenti. Per quanto concerne invece i diritti d'autore sulle opere con protagonista Sherlock Holmes, dopo la morte di Adrian furono spartiti tra la figlia minore e le vedove dei due fratelli maggiori, Anna Andersen coniuge di Adrian e la principessa georgiana Nina M'divani coniuge di Denis Percy Conan Doyle, morto nel 1955. Le tre donne non trovarono mai un accordo sulla gestione dei diritti letterari ed i ricorsi ad avvocati ed aule di tribunale furono molteplici. A fare peggio però fu Nina M'divani, la quale nel 1970, dopo essersi risposata in seconde nozze con il segretario del defunto marito, tale Anthony Harwood, utilizzando un ingente prestito bancario fondò la Baskerville Investments Ltd con lo scopo di acquisire buona parte dei diritti dalle cognate, cosa che in effetti fece, salvo poi nel 1976 dichiarare bancarotta ed essere costretta a cedere i diritti alla banca cui si era affidata per il prestito, banca che infine vendette i diritti stessi a lady Etelka Duncan, la cui figlia gestì questo patrimonio fino al 2014. I diritti residui rimasti nelle mani di Jean Conan Doyle vennero trasferiti, con la sua morte avvenuta all'età di 84 anni nel 1997, alla Royal National Institute for the Blind, ente benefico britannico dedicato alla tutela di circa 2 milioni di non vedenti in tutto il Regno Unito. Il motivo di tale gesto tanto magnanimo si crede risieda in una malattia che colpi precocemente gli occhi di Jean compromettendone gravemente la vista.

L'associazione vendette in seguito tutti i diritti ai discendenti di Arthur Conan Doyle, nessuno di essi diretto dal momento che i tre figli di sir Arthur non generarono prole. Ma torniamo al nostro viaggio ed allo Sherlock Holmes Museum: anche noi, come Jean Conan Doyle in occasione della sua inaugurazione, siamo davanti all'ingresso del museo in attesa di entrare. Spero solo che quando toccò all'anziana Jean Conan Doyle il meteo fosse più ragionevole, dal momento che una fitta pioggia fredda si abbatte su di noi durante l'attesa. La chiesa sconsacrata che ospita il museo è di minuscole dimensioni, ma conserva ancora un certo fascino sacro e solenne, con il suo profilo affilato, la piccola torre campanaria appuntita posta in cima alla facciata, le fila di basse finestre a sesto acuto lungo i fianchi. All'interno ci accoglie una stretta biglietteria: paghiamo l'ingresso (50% di sconto per i detentori della Gästekarte Haslital) alla gentile impiegata dietro il bancone ed entriamo nel museo vero e proprio. La sala principale si trova proprio di fronte alla biglietteria, in quella che in origine era l'unica navata della chiesa. Oggi al posto di panche ed inginocchiatoi sono collocati al centro della stanza alcuni pannelli informativi, taluni forniti di supporti video, pensati per accompagnare il visitatore tra informazioni e curiosità relative al mondo partorito dalla fantasia di sir Arthur Conan Doyle. La prima comparsa di Sherlock Holmes nel panorama letterario avvenne nel 1887 con la pubblicazione del primo romanzo dedicato alle sue vicende, "Uno Studio in Rosso". In seguito, i romanzi con protagonista Sherlock creati da Cona Doyle furono tre: "Il Segno dei Quattro" del 1890, "Il Mastino dei Baskerville" del 1902 e "La Valle della Paura" del 1915. Oltre a questi, a completare il repertorio si annoverano oggi 56 racconti brevi con protagonista il detective londinese. Tutte le storie scritte vengono narrate in prima persona dal personaggio del dottor John Watson, braccio destro di Sherlock nonchè suo fidato collaboratore, confidente e in definitiva unico amico, data la proverbiale misantropia caratterizzante la figura dello stesso Holmes. A questa caratteristica in difetto non giunge in aiuto nemmeno il fatto che Holmes abbia tra le pagine un fratello maggiore, Mycroft Holmes, alto funzionario governativo, citato per la prima volta nel racconto "L'Avventura dell'Interprete Greco" (1893). Fanno eccezione alla voce narrante di Watson i racconti "Il Mistero della Gloria Scott" (1893), "Il Cerimoniale dei Musgrave" (1893), "L'Avventura del Soldato Sbiancato" (1926) e "L'Avventura della Criniera del Leone" (1926), narrati in prima persona dallo stesso Sherlock (i primi due dettati dal protagonista in forma di memorie giovanili allo stesso Watson), oltre a "L'Avventura della Pietra di Mazarino" (1921) raccontata invece in terza persona. Le origini del personaggio di Sherlock Holmes vengono lasciate in una sorta di nube di mistero da parte dell'autore: di lui si trae dai racconti l'immagine di un uomo di circa 60 anni, amante della buona musica tanto da essere eccellente violinista, esperto schermidore, pugile niente male, abile trasformista in grado di assumere differenti atteggiamenti e sembianze a seconda delle necessità investigative, individuo eccentrico e a volte sopra le righe come testimonia la sua abitudine al consumo di morfina e cocaina, ma soprattutto impareggiabile pensatore ed implacabile oppositore del crimine. Tra le notizie che lo riguardano elencate sui pannelli del museo, ecco emergere alcune figure emblematiche che completano ed arricchiscono la scenografia dei racconti sherlockiani come discrete macchie di colore: Toby, il cane segugio utilizzato spesso da Sherlock nella raccolta degli indizi; Mrs Hudson, la governante dell'abitazione di Sherlock la cui pazienza, unica tra tutte, arriva a sopportare forse il peggior inquilino di Londra; Irene Adler, musa e sirena di Sherlock, comparsa per la prima ed unica volta nel racconto "Uno Scandalo in Boemia" (1891) in cui l'investigatore aiuta il principe ereditario di Boemia a districarsi dai ricatti della stessa Adler, la quale, per la cronaca, alla fine beffa furbescamente lo stesso Holmes (scusate lo spoiler). Completano l'esposizione alcuni supporti video riferiti alle citazioni cinematografiche relative al personaggio di Sherlock: dal 1903, anno di uscita della prima citazione cinematografica in "Sherlock Holmes Baffled", del regista statunitense Arthur Marvin (il cortometraggio dura appena 35 secondi), ad oggi, le pellicole con protagonista Sherlock Holmes sono state decine.

Terminata la visita della prima sala del museo, un'ultima occhiata alle belle vetrate decorate poste sullo sfondo di quella che originariamente costituiva l'abside della chiesa e riattraversiamo la biglietteria per dirigerci sulla sinistra lungo una breve scalinata che conduce ad un piano interrato. Lungo la scalinata sono esposte altre curiosità, tra le quali mi colpiscono in particolare un'esposizione di francobolli dedicati alla figura di Sherlock Holmes emessi dalle poste britanniche nel 1993 ed una copia del ritratto di sir Arthur Conan Doyle eseguito nel 1927 da Henry Gates (l'originale è custodito alla National Portrait Gallery di Londra). Giunti al piano inferiore, lo spazio ristretto non ci consente una visita calma e agevole: la stanza è veramente angusta e le persone ferme ad ascoltare le audioguide ammirando le esposizioni sono veramente tante. Abbiamo giusto il tempo per apprezzare, tra gli oggetti esposti dietro le vetrine, una riproduzione di una divisa da poliziotto inglese della stessa epoca nella quale sono ambientate le storie di Sherlock, ed accanto ad essa quella di una divisa da gendarme svizzero degli anni '10 del XX secolo: la prima equipaggiata con il classico manganello da bobby, la seconda con una più esotica sciabola. Ma soprattutto, dietro una parete di vetro, ammiriamo una riproduzione estremamente accurata del salotto vittoriano londinese abitato da Sherlock e descritto nei suoi romanzi: si tratta dell'unica replica fedele del luogo letterario collegato dall'investigatore. In effetti la dovizia di particolari è piuttosto realistica e minuziosa, il risultato che ne risulta è a dire il vero impressionante. Le carte sono sparse sul tavolo come se fossero appena state consultate. Le poltrone abbandonate al centro della stanza sembrano essere state appena sospinte nell'impeto di un'improvvisa intuizione. L'elegante tappeto che copre il pavimento pare aver sopportato innumerevoli passi condotti sue e giù da pensieri e congetture. Sullo sfondo, un violino lasciato sul divano. Sembra che Sherlock sia appena uscito dalla stanza per mettersi sulle tracce di qualche più o meno astuto criminale. Devo ammettere essere particolarmente evocativo per chiunque abbia sfogliato almeno una volta le pagine di un racconto con protagonista Sherlock Holmes. Nell'universo letterario costruito da Conan Doyle, l'appartamento abitato dall'investigatore veniva collocato al 221B Baker Street a Londra. Proprio l'abitazione occupata da Sherlock costituisce il pretesto per l'incontro tra l'investigatore ed il fedele aiutante: Watson incontra per la prima volta Sherlock nel romanzo "Uno Studio in Rosso" mentre, correva l'anno 1881, è in cerca di una sistemazione di ritorno dal servizio militare in Afghanistan, svolto come medico di campo per l'esercito coloniale britannico, circostanza che lo vide peraltro ferito in battaglia. Imbattendosi nel 221B Baker Street Watson incontra Holmes, dando così principio ad una delle collaborazioni tra personaggi più riuscite nella storia della letteratura: Watson parteciperà a tutti i romanzi ed a tutti i racconti scritti da Conan Doyle, ad eccezione de "L'Avventura del Soldato Sbiancato" e "L'Avventura della Criniera di Leone", nei quali il personaggio non compare nella narrazione. Curiosità vuole che ai tempi dell'ambientazione dei racconti sherlockiani, l'indirizzo 221B Baker Street non esisteva ancora, la via terminava infatti al civico 85; solo successivamente, verso gli anni '30 del XX secolo, venne ampliata e al 221B Baker Street si installò l'istituto di credito Abbey Road Builnding Society. Dal momento che si parla di Sherlock, altre due precisazioni credo che siano doverose. La celebre esclamazione "Elementare Watson!" attribuita al personaggio di Holmes non venne in realtà mai pronunciata dall'investigatore all'interno dei racconti ufficiali, seppure il personaggio esclami "Elementare!" nel racconto "Il Caso dell'Uomo Deforme" (1894) ed affermi "Interessante, anche se elementare!" nel romanzo "Il Mastino dei Baskerville": la frase "Elementary, my dear Watson!" è invece lanciata alla ribalta dal cinema ed appare per la prima volta nel film "The Return of Sherlock Holmes" del 1929, regia di Basil Dean e con Clive Brook nei panni del protagonista a rendere celebre per la prima volta quello che diventerà un motto universalmente conosciuto. Ad essere completamente onesti però, e senza nulla togliere al cinema, la nascita della frase risale al teatro, e precisamente al drammaturgo statunitense William Gillette, uno dei primi e più celebri interpreti del detective, il quale nel 1899 (ben 30 anni prima di Clive Brook), nel dramma teatrale "Sherlock Holmes", pronunciò per la prima volta la battura "Elementary, my dear Watson!": è inoltre interessante notare che l'opera venne scritta dallo stesso Gillette con la supervisione e collaborazione di Arthur Conan Doyle. Da questa circostanza in poi, Gillette vestì in teatro i panni di Holmes per circa 1.300 volte, e la frase da lui coniata divenne un simbolo della cultura popolare, tanto che in alcune traduzioni italiane dei racconti di Sherlock, la riga "Elementare Watson!" viene inserita per scelta del traduttore nonostante non compaia nel testo originale. La classica immagine di Sherlock, diffusa nell'immaginario comune, vestito con il deerstalker (una sorta di cappellino da cacciatore, spesso in tweed, con doppia visiera, utilizzato nelle aree rurali inglesi soprattutto per la caccia al cervo) ed impegnato a fumare la pipa calabassa (una specie di pipa ricurva) è a sua volta apocrifa, non comparendo mai ufficialmente nei testi attribuiti a Conan Doyle, dove il personaggio fuma indifferentemente la pipa ed i sigari, e veste un berretto di stoffa non meglio precisato. Indovinate piuttosto da chi venne coniato questo costume: ma da William Gillette ovviamente, ancora lui. Anche qui però va precisato che la prima immagine di Holmes con berretto e pipa proviene dal giornalismo, quando l'illustratore britannico Sydney Paget disegnò in questo modo, nel 1893, la figura del detective per la rivista inglese The Strand Magazine: si dice che Paget si sia ispirato all'abbigliamento usuale utilizzato dal fratello Walter per delineare la propria figura illustrata di Sherlock, e che questa creazione fu del tutto casuale, dal momento che l'editore della rivista intendeva assumere proprio il fratello Walter come illustratore, ma la lettera di incarico venne spedita all'indirizzo sbagliato pervenendo appunto a Sydney Paget. Una rara raccolta di riviste del The Strand Magazine è custodita proprio allo Sherlock Holmes Museum, insieme a presunti berretti, pipe e lenti di ingrandimento appartenute a Sherlock. Alcune di esse sono vendute come souvenir anche presso la biglietteria del museo : la tentazione di portare con sè un ricordo della piacevole visita è forte, ma meglio viaggiare con il bagaglio leggero.

Abbandoniamo il museo e usciamo di nuovo sulla Conan Doyle Place. La pioggia si è un poco placata e possiamo passeggiare un po' nei dintorni. A completare il paesaggio della piazza è impossibile non notare l'elegante facciata in stile art nouveau del vicino Parkhotel du Sauvage, ad onor del vero non l'unico hotel ad affacciarsi sullo spiazzo, ma forse quello con la memoria storica più importante: basti citare che fu costruito intorno al 1880, che probabilmente ospitò sir Arthur Conan Doyle durane il suo soggiorno in Haslital, e che lo stesso Sherlock Holmes, nel racconto "L'Ultima Avventura", prima di affrontare Moriarty sulle Reichenbachfall occupò una camera presso questo albergo. Nel racconto il nome dell'hotel è trasposto in Englischer Hof, ma è facile riconoscerlo nell'attuale Parkhotel du Sauvage, mentre il padrone della pensione nella narrazione risulta essere il personaggio fittizio di un tale di nome Peter Steiler. Al di là della connessione con il personaggio di Holmes, l'aspetto dell'albergo mantiene ancora oggi un certo fascino, distinto ed antico, arricchito dalle belle vetrate lungo la facciata che consentono la vista diretta sul ristorante interno.

Tutti i viaggi custodiscono almeno una sorpresa inattesa. Senza ombra di dubbio, la scoperta sorprendente ed inaspettata del viaggio a Meiringen è costituita dalla St. Michaelskirche, la chiesa riformata intitolata a San Michele, che visitiamo nella tregua concessa dal maltempo. Situata ai margini della cittadina, posta ai piedi della montagna, questa chiesa si trova un po' in disparte rispetto al restante centro abitato, come a voler pudicamente celare il proprio valore. Ma basta compiere una breve passeggiata lungo una delle arterie stradali principali della città per raggiungerla e scoprirla, e certo ne vale la pena. Vi arriviamo percorrendo la Kirchgasse, la quale termina il proprio decorso sbattendo contro una piccola costruzione posta ai margini di una bassa recinzione in pietra: si tratta della Zeughauskapelle, la Cappella dell'Armeria, costruita nel 1486 su commissione di Urlich Hürnl con la funzione di ossario, ed utilizzata poi come arsenale con l'avvento della Riforma Protestante e la susseguente secolarizzazione degli edifici sacri a patire dal 1528, circostanza da cui deriva il nome attuale. Questa cappella venne riadibita ad uso ecclesiastico solo nel 1892 e venne ristrutturata tra il 1980 ed il 1982. Oltrepassata questa, pochi scalini proiettano all'interno di uno spiazzo sul quale il sentiero di ghiaia si interseca con aiuole verdi.

Sulla destra si estende l'area dedicata al cimitero, mentre di fronte si innalza la figura imponente della 
Glockenturm, il campanile, alto ben 45m: separato dal resto della chiesa, eretto intorno al XIII secolo in severo stile romanico, si slancia come un dito appuntito dal suolo verso il cielo. Costruito probabilmente in origine con funzioni più difensive che religiose, oggi ospita sulla sua cima quattro campane, protette da una cuspide ottagonale a forma di piramide sulla cui estremità è collocata una sfera d'oro sormontata dall'effige dell'aquila, simbolo dell'Haslital. La torre venne ristrutturata in epoca moderna tra il 1960 ed il 1989, e più recentemente è stata riaperta al pubblico nel 2010 dopo essere stata sottoposta ad importanti lavori di bonifica, indirizzati soprattutto a riparare i danni perpetrati dall'umidità sulla struttura del terzo inferiore della costruzione. Da ammirare il bell'affresco con soggetto San Cristoforo, ridipinto da Arnold Brügger nel 1938, posizionato lungo la facciata sud. Proprio ai piedi dell'affresco, di fronte al campanile, sono oggi sistemate altre due campane: una di esse, risalente al 1351, risulta attualmente essere la più antica campana dell'intero Canton di Berna; la seconda, del 1480, venne sostituita insieme alla prima a causa di crepature lungo la superficie metallica. Superata la Glockenturm, all'estremità dello spiazzo recintato, si erge la St. Michaelskirche, il corpo della chiesa principale, come a voler nascondere sè stessa dallo sguardo di chi giunge cercandola. Questo tempio, di professione protestante, viene menzionato per la prima volta in documenti storici nel 1234, epoca in cui Heinrich VII von Hohenstaufen, re di Germania, donò l'edificio all'Ordine di San Lazzaro, ordine cavalleresco fondato originariamente nel XII secolo come semplice confraternita cristiana e divenuto ordine monastico vero e proprio nell'XI secolo per essere infine soppresso nel 1830. La vocazione dei monaci lazzariti era destinata principalmente all'assistenza dei malati e dei feriti, e ne è testimonianza la costruzione a loro opera di un lebbrosario presso Gerusalemme, all'interno del quale la loro carità, nel corso delle guerre crociate, contribuì a curare e guarire sia soldati cristiani sia guerrieri saraceni. L'influenza di questo ordine monastico nell'Haslital è testimoniato anche dallo stemma araldico della regione: un'aquila nera su sfondo giallo vestita di una corona simbolo del legame tra i Lazzariti ed il re di Germania, consolidato dalla regale donazione ai monaci della St. Michaelskirche. Questo simbolo ricorre un po' ovunque nei luoghi di queste zone. Presso Meiringen i Lazzariti furono attivi solo per un breve periodo, tuttavia sufficiente a rendere significativo il loro contributo nei termini del vissuto storico della chiesa locale. Qui prestarono opera come guide spirituali e nella cura dei malati, sebbene non sia accertato storicamente se nei pressi della città gestirono anche un ospedale rivolto all'assistenza dei pellegrini ammalati. Ciò che invece è certo è che già nel 1272 cedettero la St. Michaelskirche al vicino monastero agostiniano di Interlaken, il quale ne detenne la proprietà fino al 1528.

L'aspetto esterno attualmente offerto dall'edificio risale ai lavori di ristrutturazione in stile barocco condotti da Abraham Dünz I tra il 1683 ed il 1684. Incuriositi dall'anima della costruzione che sembra voler sfuggire al nostro interesse per rimanere nella propria sorniona solitudine, ci avviciniamo alla chiesa costeggiando uno dei suoi lati, per poi scoprire, lungo la facciata, un accesso principale frontale raggiungibile direttamente dalla via antistante Bei der Kirche. In questo modo il fronte del tempio sembra sfuggire alle nostre prime occhiate, protetto anche da un pesante porticato ligneo che come un velo ne cela la metà inferiore. Occorre distanziarsi un poco per comprendere appieno i profili dell'edificio, ed anche in questo la St. Michaelskirche sembra esprimere la volontà di allontanare più che attirare i visitatori, antifona di una profonda vocazione del tempio ad una assoluta quiete meditativa. La stessa vocazione si intravede anche nella forma della facciata, semplice e spoglia con un unico piccolo rosone centrale, ma soprattutto si respira una volta entrati all'interno. Il silenzio si annuncia materiale appena varcata la soglia, la profondità della navata conduce all'altare maggiore in un mare di luce proiettato dalle fenestrature laterali, il calore del legno disposto ubiquitariamente dalle assi del pavimento alle colonne che separano le navate fino al soffitto accoglie il visitatore invitandolo a soffermarsi. Navata: mai termine fu meglio utilizzato come in questa chiesa. Infatti, la volta delle tre sezioni in cui è suddiviso lo spazio richiama chiaramente lo scafo di una nave, regalando anche l'impressione al fedele di essere accolto al sicuro all'interno della pancia di un'imbarcazione governata da una mano invisibile e sovrannaturale. Fu il falegname locale Melcher Gehren a realizzare il soffitto ligneo della chiesa nei lavori che sul finire del XVII secolo interessarono l'edificio: costui, avendo acquisito nel corso della propria esperienza anche una formazione come carpentiere navale presso Amburgo, progettò e realizzo la copertura della St. Michaelskirche proprio come lo scafo di una nave rovesciata, con le travi collegate con cunei e fissate con chiodi di legno. A sostegno di ciò, posizionò dodici grandi pilastri lignei, sei per lato, per sorreggere la volta, creando così la suddivisione a tre navate dello spazio. Il risultato è davvero particolare: credo non esista un'altra chiesa nel Mondo pari in aspetto a questa, e tale impressione contribuisce non poco all'ammirazione che induce il visitatore quasi a camminare in punta di piedi con l'intento di non disturbare il riposo di un luogo tanto peculiare da avvertirne chiaramente lo spirito.

L'abside si innalza di poco rispetto alle navate ed ospita un altare discreto sormontato sullo sfondo da un magnificente organo a canne, opera del bernese Johann Sutern del 1789. Sui due lati dell'organo si posizionano due vetrate colorate lungo le pareti dell'abside: sono opera di Ernst Linck del 1915, raffigurano Mosè e Cristo con la Croce, e vennero realizzate a sostituzione di precedenti vetrate andate distrutte nel corso dell'alluvione che colpì la regione nel 1762. Il fonte battesimale disposto ad un lato dell'altare, in stile gotico ed in arenaria, risale probabilmente al XIV secolo, ad eccezione del coperchio in rame sormontato dalla figura di un'aquila risalente invece al 1949. Il pulpito disposto sul lato opposto, anch'esso ligneo e sorretto da uno dei pilastri, mantiene ancora oggi le fattezze originali della sua realizzazione, avvenuta nel 1684, ad eccezione della pittura grigia che lo ricopriva in origine e che venne rimossa nel 1973. Lungo la parete sud è collocata una targa riportante il testo del Credo Cristiano, mentre su quella nord un pannello espone in lettere d'oro i Dieci Comandamenti: entrambe queste opere furono realizzate da Christian Stucki e da Hans Victor Stucki nel 1683. Ma il patrimonio storico più prezioso custodito dalla St. Michaelskirche si trova sul fondo, in un angolo tra la parete sud e quella ovest, proprio accanto al portale di ingresso: qui, lungo le pareti interne della chiesa, sono conservate alcune pitture murali originali risalenti al XIII secolo. Ci si passa accanto quasi senza notarle, coperte dallo stesso velo di silenziosa discrezione che sembra incantare l'intero edificio. Questi affreschi stanno lì, con i colori un po' confusi e sbiaditi dal passaggio degli uomini, spezzettati dal tempo che ne ha mangiato alcune porzioni, le immagini difficili quasi da distinguere. Eppure sono stati tratteggiati da una mano di 700 anni fa', ed ancora oggi ne testimoniano l'estro, la fantasia e la volontà di tramandare nei secoli un messaggio imperituro. Disposti a decorazione di una piccola assemblea composta da poche panche e sparuti sedili, in ossimorica compagnia di un vecchio mangianastri (probabilmente una piccola area destinata ad ospitare all'interno della chiesa le riunioni dei parrocchiani), le pitture murali concedono al visitatore un confronto diretto e senza filtri con la storia antica: sorprendentemente infatti a loro conservazione non è stata posta alcuna protezione. Quando si visita un museo, o si ammira per il Mondo una celebre opera del passato, la storia tiene conferenza ma raramente concede una vicinanza stretta e diretta; qui invece la sensazione è quella di sedersi ad un tavolino con la storia a sorseggiare un buon tè caldo. Verrebbe voglia di toccare la parete con un dito per scoprire se si venga proiettati indietro nel passato, ma il rispetto dovuto all'opera inestimabile non concede e non deve concedere questo tipo di libertà. L'autore della rappresentazione pittorica è ignoto, ma il protagonista della raffigurazione è il personaggio biblico di Mosè, raffigurato in differenti pose e situazioni, forse anche disteso ubriaco sotto le fronde di un albero, seppure a causa del deterioramento della superficie è francamente difficile distinguere chiaramente i soggetti.

Dopo alcuni istanti spesi ad ammirare i preziosi affreschi, riguadagnamo l'esterno della chiesa e ci troviamo di nuovo sul sagrato, sotto il porticato. Per un osservatore attento, alla destra della facciata ed a ridosso di questa, si apre una corta scalinata che conduce sotto il livello della chiesa. L'ingresso è libero e non custodito, e percorrendo il breve tragitto si viene proiettati nel sottosuolo alla base del tempio, indietro di parecchi secoli nel tempo. Qui infatti sono custoditi i resti delle costruzioni precedenti della chiesa, scoperti casualmente in occasione di scavi condotti per opere ristrutturatorie nel 1915 ad una profondità di 5m sotto il livello del suolo. Solo 90 anni più tardi, l'opera di scoperta e conservazione dei resti fu finalizzata con l'apertura del sito al pubblico. Oggi, percorsa la scalinata aperta sul sagrato, attraverso un breve corridoio si costeggiano le fondamenta dell'edificio odierno e si viene accompagnati in un palcoscenico antico di secoli, composto da ancestrali altari in pietra, camminamenti di lastre rocciose e spesse pareti di massi. Tale proscenio testimonia origini più antiche di quanto si pensasse per la chiesa. Inoltre, queste rovine documentano, prima di ogni altra cosa, il rapporto conflittuale tra i corsi fluviali locali e l'edificio, così come per l'intera regione circostante: ricorrenti esondazioni fluviali causarono infatti nei secoli numerose alluvioni che danneggiarono profondamente gli edifici e rimodellando i paesaggi. Nelle fondazioni della chiesa è possibile riconoscere i segni di ben sette alluvioni differenti: dopo ogni alluvione, il tempio distrutto veniva ricostruito sulle macerie del precedente, consentendo di innalzare la chiesa sempre ad un livello superiore, più al sicuro da eventi esondivi. Proprio questa continua opera di ricostruzione sulle rovine precedenti ha consentito di tramandare nel tempo in uno stato di sorprendente conservazione i resti delle chiese antiche. Contestualmente a ciò, sono riconoscibile oggi nei resti le tracce di 13 costruzioni differenti, seppure con tutta probabilità siano presenti tracce più antiche ma poco distinguibili rispetto alle rovine riconosciute di epoca più antica. I rilievi più datati risalgono ad un periodo compreso tra il IX secolo ed il X secolo: in questa fase la chiesa era di piccolissime dimensioni e comprendeva un'unica navata. Nel corso dei primi 30 anni del XIV secolo, la chiesa venne ampliata con la costruzione di una nuova abside e nuove pareti di confine: di questo periodo giungono a noi abbondanti testimonianze arricchite da un prezioso altare in pietra. I resti più significativi risalgono però al periodo lazzarita: tra di essi, alcune stanze con funzioni di magazzino aggiunte lungo la parete nord (1234 circa) ed una piccola navata laterale lungo il lato sud (1234 circa). Nel contesto di quest'ultima, spicca un bellissimo altare di roccia perfettamente conservato nella sua forma: contemporaneo a questo è il maggior innalzamento del fondo dell'edificio su precedenti macerie, ben 3,5m, opera ben visibile dalla stratigrafia del suolo esposta dietro teche di vetro in un angolo del sito. Intorno al 1480 la chiesa venne ulteriormente ampliata alle dimensioni odierne, con la realizzazione di un'ultima spaziosa abside, quella attuale, dotata di un coro tardogotico: in tale occasione, il fondo della chiesa venne innalzato di quasi mezzo metro, alla posizione attuale. Il tempio fu votato all'Arcangelo Michele in epoca medievale e fino al 1722 questa chiesa fu l'unica chiesa parrocchiale presente nell'intero Haslital. Nata come tempio cattolico, con la Riforma Protestante la St. Michaelskirche venne convertita al protestantesimo, nonostante una forte opposizione della popolazione locale stroncata dall'imposizione del nuovo credo da parte della città di Berna, la quale all'epoca governava quest'area. In età susseguente alla riqualificazione barocca eseguita da Abraham Dünz, nel 1762 la chiesa fu invasa da una piena che portò all'interno dell'edificio 3.000m² di macerie: il tempio fu poi ristrutturato sempre in stile barocco. Nuovi lavori di restauro vennero condotti sull'edificio tra il 1971 ed il 1973. Ipotesi più simili forse a leggende che a realtà storiche fanno risalire le origini di questo luogo a radici addirittura ancestrali: sembra infatti che sul sito fosse disposta in tempi antichissimi una struttura di pietre rituali celtiche dedicate allo svolgimento di riti pagani; le pietre, secondo la tradizione popolare sarebbero poi state trasportate nel 1840 a Berna dove furono utilizzate per la costruzione del Nydeggbrücke. La St. Michaelskirche custodisce insomma tesori preziosi, come il più improbabile dei forzieri: se il desiderio è quello di scoprire qualcosa di inatteso a Meiringen, basta aprire questo scrigno per non rimanere delusi. Parola mia!

A fare il paio con la St. Michaelskirche nel delineare il tragitto di Meiringen attraverso i secoli, sorge a meno di 1km dalla chiesa la Restiturm, un'antica torre fortificata oggi in rovina. La raggiungiamo dopo uno spuntino a base di pane e formaggio acquistati presso il piccolo mercato di prodotti locali che la domenica mattina mette in mostra le proprie bancarelle nella Conan Doyle Place. Consumiamo il nostro pasto presso un gradevolissimo parco giochi per bambini immerso in una macchia verde situata nelle vicinanze della locale stazione a valle della cabinovia, a ridosso della Alpbachallee. Da qui superiamo su un ponte il torrente Alpbach e continuiamo a camminare sulla Underem Gfell fino a superare anche il ruscello Milibach: entrambi questi corsi d'acqua si ricongiungono all'Aare presso Meiringen. Dalla Underem Gfell proseguiamo in leggera salita immergendoci nella macchia boschiva situata ai piedi della montagna, proiettandoci sullo sterrato della Restiweg. Proseguendo poche decine di metri si raggiunge la Restiturm, che sorge sul margine del sentiero.

Alta circa 80m, eretta intorno al 1250 su commissione di Peter von Resti, questa torre in rovina svetta sul limitare del bosco con il quale poco manca che si fonda completamente ed indistintamente. Con tutta probabilità, in origine questa costruzione fu parte di un più ampio complesso fortificato, oggi scomparso quasi totalmente: ai tempi, il castello che dominava questo complesso era la residenza del casato cavalleresco dei Resti, stirpe aristocratica originaria dell'Haslital e vassallo degli Asburgo. Tale antica funzione si evince anche dalla posizione strategica oggi occupata dalla torre, leggermente rialzata rispetto alla valle sottostante a dominarne l'intera veduta: da qui era sicuramente possibile amministrare le rotte commerciali, controllare i transiti e difendere facilmente il territorio. Lo stato di decadenza attuale e la scomparsa di ampie parti di fortificazioni sono la risultante del progressivo abbandono cui il sito andò incontro a partire dal XVI secolo, dopo che gli edifici che lo componevano vennero più volte ristrutturati nel corso dei secoli, in particolare tra il 1390 ed il 1400. Fortunatamente la torre sopravvissuta all'inesorabile corrosione del tempo fu oggetto di attenti restauri condotti da Emanuel Jirka Propper nel 1914, poi più avanti ancora nel 2004, e grazie a questa opera di cura e rinnovo il sito è oggi accessibile liberamente ai visitatori. Arrivati sul posto, ci avviciniamo alla Restiturm e percorriamo una stretta scalinata di pietra collocata esternamente, lungo il perimetro, nella parte posteriore. Questa conduce, attraverso una porzione terminale costituita da passerelle in metallo, all'interno della torre. Da qui le passerelle metalliche proseguono su vari livello e permettono di salire fino alla cima della costruzione. Ad onor del vero, lo stato di conservazione del sito lascia alquanto a desiderare: al nostro passaggio, sul fondo della torre sono accumulati rifiuti di ogni genere, risultato probabilmente della vicina presenza di un'area ristoro all'aperto, attigua alla torre e munita di griglie a legna, evidentemente utilizzata da fruitori poco interessati alla storia locale. I ponti di metallo, posizionati all'interno della torre in occasione dell'ultimo restauro, insieme ad alcuni cartelli esplicativi appesi alle pareti, accompagnano il visitatore attraverso i vari piani che in origine componevano l'interno della torre, la quale oggi appare completamente cava: dai piani più bassi dove venivano stipate le provviste, a quelli destinati all'armeria ed al corpo di guarnigione, ai piani nobiliari più elevati, su in alto fino alla cima dove dal culmine mancante del tetto crollato si coglie una piacevole vista sull'abitato di Meiringen e sulla valle circostante. La visita merita una manciata di tempo (meno di quanto si possa prevedere), un po' per il valore storico del luogo, soprattutto per il panorama che concede. Il tempo che si risparmia nella veloce escursione alla Restiturm lo si può impiegare in attività più gratificanti. Volete un consiglio? Presto fatto! Tornando nel centro abitato di Meiringen, sulla Bahnofstrasse si affaccia il Frutal Versandbäckerei, una pasticceria tradizionale abbastanza rinomata localmente e non solo. Perchè vale la pena visitarla? Semplice. Perchè Meiringen è la patria della Meringa.

Questo famosissimo dolce a base di albumi d'uovo e zucchero, secondo la tradizione popolare, venne inventato proprio in questa cittadina svizzera, all'inizio del XVIII secolo, da un pasticcere svizzero (ma di origini italiane) il cui cognome era Gasparini: l'intento del creatore era quello di conquistare con questo dolce il cuore di Maria Leszczynska, promessa sposa a Luigi XV di Borbone, re di Francia. Evidentemente Gasparini doveva essere un romantico e senza ombra di dubbio, vista la difficoltà nel trascriverne il nome dell'amata, doveva risultare più facile cimentarsi in cucina piuttosto che indirizzare alla dama una lettera d'amore. La neonata creazione culinaria avrebbe preso quindi il nome del luogo in cui fu realizzata per la prima volta. Da allora, la fama della Meringa percorse in lungo ed in largo l'intero pianeta, attraversando con enorme successo i secoli: Elisabetta I regina d'Inghilterra la ribattezzò con l'epiteto "Kiss" per descriverne la dolcezza piena e soddisfacente; Maria Antonietta d'Asburgo-Lorena, regina di Francia, adorava mangiarne a volontà e si cimentava direttamente nella sua preparazione in cucina; i colonialisti francesi esportarono addirittura la Meringa ad Haiti verso la metà del XIX secolo, dal momento che l'isola caraibica era il maggior fornitore di zucchero del paese europeo, e si dice che la danza Merengue nata qui debba il nome proprio al dolce svizzero. Le origini della Meringa comunque non trovano tutti gli storici d'accordo, dal momento che alcune teorie attribuiscono l'invenzione del dolce alla britannica Elionor Fattiplace, la quale nel suo manoscritto "Elionor Fattiplace's Receipt Book" del 1604 descrive una ricetta chiamata White Bisket Bread la cui preparazione sarebbe sovrapponibile a quella della Meringa: in tal caso, il nome con cui conosciamo oggi il dolce sarebbe stato attribuito successivamente ricollegandosi alla vicenda postuma di Meiringen, oppure diversamente deriverebbe dal latino melinus, che significa "mielato", ad evocazione dell'estrema dolcezza della pietanza. Ad ogni modo, e qualunque siano le sue origini, se si capita a Meiringen non si può non assaggiare il dolce che in queste zone è divenuto un vero simbolo. A sostegno di ciò non è da dimenticare che proprio alla cittadina di Meiringen è assegnato il record di Meringa più grande della storia, ottenuto dopo che nel 1985 ne venne preparata una lunga 2,5m, larga 1,5m e alta 70cm, realizzata con 2.000 uova, 120kg di zucchero e 60l di panna montata.

Avevo ricevuto la raccomandazione del Frutal Versandbäckerei prima della partenza, contattando l'ufficio del turismo locale. La pasticceria prepara un'ottima Meringa da decenni, vale a dire dal 1974, anno della sua fondazione ad opera di Susanne ed Andreas Frutiger, ed oggi esporta il proprio prodotto in tutto il Mondo. Ammetto di essere particolarmente goloso di dolci e non potevo abbandonare Meiringen senza prima aver assaggiato una Meringa. Così, all'ora dello spuntino pomeridiano, ci presentiamo davanti alla pasticceria: sulla sinistra si apre la porta dello spaccio presso il quale ogni giorno è possibile acquistare dolci freschi (tra i quali un curioso biscotto al cioccolato farcito intitolato al Tatzelwurm), sulla destra si accede invece ad uno spazioso bistrò. Ci sediamo ad un tavolo ed ordiniamo la nostra Meringa. Devo ammettere che nonostante il mio smisurato amore per i dessert, ciò che ci viene servito supera grandemente le mie capacità: una torta con base di Meringa sormontata da uno strato più che generoso di gelato alla vaniglia, tutto in porzioni a rischio coma diabetico. La Meringa risulta buona, ma il peso specifico della fetta è veramente mostruoso. Come se non bastasse, a completare la presentazione viene servito anche un assaggio di panna montata a lato della torta. Mangiare questo dolce dà tante soddisfazioni, ma colma la misura per i successivi tre o quattro mesi. E' uno di quei dolci che sai di mangiare facendoti del male. Dal mio punto di vista, ne vale comunque la pena. Fatto ritorno a casa, mi sono poi cimentato anche io nella preparazione della Meringa seguendo il metodo tradizionale, vale a dire modellando il preparato a cucchiaio e non con la sac-a-poche, prassi introdotta solo agli inizi del XIX secolo dal celebre pasticcere francese Marie Antoine Carême. E' così che ho scoperto che a volte preparare dolci è altrettanto soddisfacente che mangiarli.

Capita che deviazioni obbligate dalla direzione pianificata regalino scoperte piacevoli ed inattese. Ne è prova inconfutabile il viaggio di ritorno che abbiamo compiuto lasciandoci alle spalle Meiringen. Il tragitto all'andata ci aveva riservato impreviste difficoltà: nei pressi di Airolo l'autostrada svizzera era bloccata e siamo stati costretti a imboccare strade secondarie la cui viabilità mostrava anch'essa importanti interruzioni. Il risultato è che siamo rimasti imprigionati in un dedalo di viottole, dai quali sembrava non potessimo trovare via d'uscita. Poi il misericordioso consiglio di un gelataio, presso il quale dopo giri interminabili abbiamo deciso di fare sosta, ci suggerisce di imboccare la via verso il Gotthardpass, il Passo del San Gottardo. Ed è così che eravamo giunti sulla Hauptstrasse 11 e quindi alla nostra destinazione. Per il ritorno decidiamo di seguire lo stesso percorso, ma con una variante: al bivio di Innertkirchen imbocchiamo la Hauptstrasse 6, ed è così che ci addentriamo attraverso il Grimseplass, il Passo del Grimsel. Questo valico alpino collega il Canton di Berna con il Canton Vallese, affiancando durante il suo percorso di circa 32km sia l'Aare sia più avanti il fiume Rodano: tale caratteristica rende questo passaggio lo spartiacque continentale tra il Mare del Nord ed il Mar Mediterraneo. Il primo utilizzo documentato del passo risale al XIV secolo, epoca in cui cominciò a svilupparsi attraverso di esso una rotta commerciale tra l'Haslital e la Lombardia, sebbene già in epoca romana probabilmente fosse conosciuto e venisse utilizzato per valicare le Alpi. La mulattiera per i traffici mercantili venne abbandonata nel 1882 a favore del trasporto ferroviario, e dal 1884 venne intrapresa la costruzione della pista asfaltata. La via serpeggia attraverso le pareti rocciose, immergendosi a tratti in banchi di nuvole, salendo progressivamente sempre più in alto. A circa 20km di distanza da Innertkirchen, superata la località Guttannen, si raggiunge il Räterichsbodensee: questo lago artificiale, generato dalla diga omonima Staumauer Räterichsboden inaugurata nel 1950, con un coronamento di 456m di lunghezza ed un volume idrico di circa 27.000.000m³ di un azzurro denso, sfila silenziosamente a lato della via attirando la nostra curiosità. Lungo la superficie della diga è riprodotto un murales su larga scala, opera di Pierre Mettraux del 2007. Siamo ad un'altitudine di 1.757m s.l.m.

Pochi chilometri in salita più avanti il paesaggio si apre emergendo dalle pareti rocciose che fino a questo punto hanno racchiuso da vicino il nastro di asfalto, e sulla destra si apre la vista sul Grimselsee, il più importante lago artificiale della regione in termini di produzione di energia idroelettrica, creato dalle dighe Staumauer Spitallamm (alta 114m) e Staumauer Seeuferegg (alta 42m): realizzate entrambe nel 1932, imbricano insieme un volume di 101.000.000m³ di acqua. Siamo ora a 1.909m s.l.m. Ai margini del Grimselsee, ben visibile anche dalla strada, sorge il Grimsel Hospiz, albergo dalle origini antiche, come testimonia il fatto che viene citato in documenti ufficiali già nel 1142 come primo hotel che abbia aperto i battenti in Svizzera. A costruire l'edificio fu probabilmente un minatore, il quale vi collocò originariamente la propria abitazione. Con il trascorrere dei secoli, la struttura divenne ostello per i poveri ed i viandanti, e nel 1852 subì anche ingenti danni a causa di un incendio doloso. Nel 1932, dopo essere stato spostato e ricostruito per fare posto al bacino idroelettrico delle dighe, l'hotel divenne celebre per essere la prima struttura alberghiera in Europa fornita di riscaldamento elettrico: un vero precursore dei tempi! Ristrutturato tra il 2008 ed il 2010, il Grimsel Hospiz, con la sua struttura squadrata e le inconfondibili persiane rosse alle finestre, ospita oggi una sistemazione di lusso per viaggiatori esigenti. Superato il Grimselsee, una serie di tornanti proietta più in alto consentendo belle vedute sulla porzione di strada appena percorsa e sui laghi.

Circa 5km più in alto si raggiunge il Totensee, piccolo lago naturale amplificato in bacino artificiale a seguito della costruzione nel 1950 della diga omonima, la Staumauer Totensee. Il nome del lago deriva dalle vicende che nel 1211 portarono alla morte dei soldati bernesi guidati dal duca Bethold V von Zähringen per mano dell'esercito vallese: il condottiero fondatore della città di Berna aveva mire espansionistiche sul Canton Vallese, ma incontrò una strenua resistenza locale guidata da Landrich von Mont, vescovo di Sion. Sconfitti presso Ulrichen, 16km più a sud, i soldati invasori si radunarono presso un piccolo lago sul Passo del Grimsel, ma qui furono raggiunti dai difensori che ne fecero carneficina. Il piccolo lago venne battezzato Lago dei Morti, in tedesco Totensee. Con un volume di 2.600.000m³, questo specchio lacustre segna oggi il confine tra il Canton di Berna ed il Canton Vallese. Anche la diga qui posizionata, come tutte le altre dislocate sul Grimselpass, sono gestite dalla società svizzera di fornitura di energia elettrica Kraftwerke Oberhasli. Ci troviamo ad un'altitudine di 2.165m s.l.m., siamo sul tetto del Grimselpass, il suo punto più alto, contrassegnato a lato delle sponde del Totensee da un piccolo agglomerato di edifici che costituiscono un punto di ristoro per i viandanti.

Ci lasciamo alle spalle il Passo del Grimsel ed il suo paesaggio fatto di rocce ed acqua, la cui aspra bellezza contrasta con una curiosa notizia in cui mi sono casualmente imbattuto durante alcune ricerche informative: sembrerebbe che la zona sia protagonista di alcuni studi sperimentali condotti nel sottosuolo sul tema dello stoccaggio di rifiuti radioattivi. Non ho conferma della veridicità della notizia, ma l'impressione è senz'altro sorprendente. Poco oltre, il panorama si apre sulle profonde vedute della Hochtal Goms, l'Alta Valle di Goms, a cui vale la pena dedicare una breve sosta per ammirarne il panorama. Proseguiamo il viaggio sulla Hauptstrasse 19 e ci lasciamo guidare in discesa lungo il percorso del Furkapass, il terzo valico stradale alpino più alto della Svizzera (2.436m s.l.m. al punto più alto). Qui la via si fa più stretta e complicata, la carreggiata a tratti appare angusta e poco protetta sul bordo stradale, occorre rallentare il passo per incrociare senza problemi il traffico automobilistico che risulta più fitto del previsto. Il carattere avventuroso della strada è testimoniato anche dal fatto che lungo il suo tragitto venne ambientata una scena del film "Goldfinger" del 1964, con Sean Connery nei panni dello 007 James Bond lanciato a bordo della propria Aston Martin DB5 sui tornanti del passo. E così, non c'è da stupirsi se prima di raggiungere la località Realp, si incrocia una porzione del Furkapass ribattezzata James-Bond-Strasse.

Da qui, in capo ad una quindicina di chilometri, dopo il trapasso della Hauptstrasse 19 nella Hauptstrasse 2 nei pressi di Hospental, raggiungiamo il Gotthardpass, il Passo del San Gottardo. Situato a 2.106m s.l.m., lungo circa 17km, è questo uno dei più importanti valichi alpini, confine simbolico tra il Canton Ticino a sud ed il Canton Uri a nord. Deve il proprio nome a San Gottardo di Hildesheim, vescovo benedettino, vissuto in Germania a cavallo del X secolo e beatificato nel 1131 da papa Innocenzo II. Nonostante sia il passaggio più breve per valicare questo tratto alpino, il Gotthardpass non fu molto utilizzato fino al XIII secolo, periodo in cui vennero costruiti passaggi e ponti che ne resero più agevole l'attraversamento. Fino a questa data, a questo passo furono preferiti valichi differenti in virtù di una maggiore sicurezza e facilità di transito con carri per il trasporto delle merci: il primo attraversamento in carrozza avverrà solo nel 1775 ad opera del geologo inglese Charles Greville, seppure a tratti il mezzo dovette essere smontato e trasportato a mulo. A partire dal 1182, gli abitanti delle valli circostanti, uniti sotto l'alleanza sancita dal Patto di Torre, condussero una rivolta che ebbe la conseguenza di liberare il territorio dai signori locali, consegnandone il governo alla sola comunità ecclesiastica: fu eretta sul passo una cappella votata a San Gottardo, da cui deriverà il nome del passo stesso, ed oltre a ciò una rete di ostelli ed ospedali dedicati all'accoglienza ed alla cura dei pellegrini. La liberazione di questa regione culmina con l'indipendenza dagli Asburgo, ottenuta a suon di monete guadagnate dalla comunità urana per mezzo dei dazi di passaggio attraverso il valico. Nei secoli successivi il Passo del San Gottardo, per la sua importanza strategica, divenne oggetto di disputa da parte di diversi signori e notabili, tra i quali anche il vescovo di Milano, pur riuscendo a mantenere sempre la propria indipendenza, difesa soprattutto dai valligiani urani. A partire dal XVIII secolo vennero apportate alla via importanti migliorie, con la creazione della prima galleria e l'abbandono definitivo della passerella in legno che fino ad allora costituiva l'unica rischiosa possibilità di passaggio attraverso il valico. Solo con gli anni '30 del XIX secolo venne creata infine la prima strada carrozzabile. Oggi il valico è facilmente percorribile lungo la striscia di asfalto che lo penetra attraversando un paesaggio inaspettatamente bello, celato sul culmine della salita, composto da piccoli laghi alpini (i maggiori dei quali sono il Lago San Carlo, il Lago della Piazza ed il Lago dei Banchi), dominato da altissime pale eoliche (il Windpark Gotthardpass) che giocano a nascondino con le nuvole lasciando intravedere le proprie propaggini come giganteschi fiori di metallo che giocano con la nebbia ed il Sole. Il paesaggio improvvisamente si apre, raggiungere il Passo del San Gottardo è veramente come prendere finalmente una piacevolissima boccata di aria fresca: il Sole non è più interrotto dalle montagne, la vista può spaziare più libera, il riflesso sulle acque lacustri riscalda l'animo.

Se all'andata il valico ci accoglie con il suo miglior aspetto, soleggiato e nitido, durante il viaggio di ritorno ci riserva un'immersione nello spessore di una nebbia fitta ed umidissima, composta da un'unica enorme nube che avvolge il passo per intero. Vedere ad un metro di distanza risulta già complicato, dall'automobile si fatica ad intravedere i bordi della carreggiata e quando proseguiamo a piedi bastano pochi istanti per infradiciarci i vestiti. Un'umidità che rimane attaccata come colla, sembra di nuotare sott'acqua dentro un'immensa e fosca piscina. Persino per dei lombardi doc come noi non è facile orientarsi nella giusta direzione ed ammetto che più di una volta abbiamo smarrito la strada. Questa volta ci siamo fermati sul passo per visitare il Sasso San Gottardo. Realizzato dai militari svizzeri a partire dal 1941 (seppure alcune fortificazioni minori esistessero già dalla I Guerra Mondiale), è questa un'opera nata come comprensorio militare sotto il nome di Sasso da Pigna, appellativo derivante dal massiccio roccioso all'interno del quale è contenuto: segreta e quasi invisibile, la struttura è infatti scavata nella profondità della roccia della montagna che compone una parte dell'area del Gotthardpass. La sua costruzione non fu affatto semplice: il luogo risultava impervio ed inospitale, furono impiegate diverse decine di operai costretti a percorrere periodicamente un cammino di quattro ore da Andermatt per raggiungere il cantiere, per di più nei turni notturni nella completa oscurità, gli incidenti furono frequenti e costarono la vita a due uomini. Nonostante tutto, finalmente nel 1945 la costruzione del complesso venne ultimata, con una spesa complessiva di 10 milioni CHF. La funzione del sito era quella di proteggere il passo e le valli circostanti tramite una copertura d'artiglieria. Lo stabilimento sopravvisse poi al termine della II Guerra Mondiale che ne aveva decretato la nascita e rimase in funzione per diversi decenni a seguire: solo nel 1998 la base militare venne dismessa e lo spazio fu progressivamente riconvertito a museo, il quale venne inaugurato ufficialmente nel 2012. Parcheggiata l'automobile nel parcheggio antistante l'ingresso del museo, a fatica per la fitta nebbia che avvolge l'intera area del valico, acquistiamo il biglietto presso un piccolo baracchino posto davanti all'entrata, più simile ad un food truck di salsicce e salamelle. Il portale di accesso al museo si apre direttamente nella roccia della montagna e proietta all'interno di un tunnel dritto, buio e gelido che sembra non finire mai: eppure questa è solo una piccola parte dei 2,4km di gallerie che complessivamente compongono la superficie di 8km² della base.

A metà strada, all'interno di una stanza laterale, un modellino in scala delinea come una moderna scultura il percorso delle galleria della base. Ai lati del tunnel, lungo le pareti sulle quali si aggrappa la fitta umidità che permea l'ambiente, alcune targhe riportano nomi e cognomi di persone sconosciute: il museo offre infatti la possibilità ai visitatori di adottare una porzione di galleria dietro donazione di un contributo economico volontario. A tratti, ai bordi del percorso si stagliano portelloni metallici tanto pesanti quanto antichi, vestigia inossidabili della primordiale funzione del sito. Al termine della galleria, il primo spazio espositivo è occupato da "Reduit" un'installazione opera di Tullio Zanovello che tramite la proiezione di immagini e suoni narra i miti antichi che riguardano il Passo del San Gottardo. Tra di essi si fa riferimento anche alla leggenda di Sennentuntschi: tre pastori vivevano soli nei pressi del Gotthardpass, ma sopportavano male la completa solitudine in cui erano costretti a condurre le loro giornate; decisero così di creare una bambola di paglia che chiamarono Sennentuntschi. Un giorno la bambola magicamente si animò e assunse sembianze di carne ed ossa. I pastori, felici per il prodigio, le diedero da mangiare tutto il loro formaggio e da bere tutto il loro latte, trascorrendo in sua compagnia tutta l'estate. Quando sopraggiunse l'autunno i pastori dovettero scendere a valle ma Sennentuntschi chiese ad uno di loro di rimanere in sua compagnia sulla montagna. I pastori tirarono a sorte ed il vincitore fu felice di rimanere in compagnia della bella fanciulla. Ma quando gli altri due compagni stavano scendendo già a valle lungo il sentiero, girando lo sguardo indietro verso il rifugio videro la fanciulla scuoiare il loro compagno per stenderne la pelle ad asciugare sul tetto della costruzione. Macabro! "Reduit" è la settima macchina artistica realizzata da Tullio Zanovello, la più grande tra quelle di sua creazione. Sicuramente interessante, ma per un visitatore come me digiuno di lingue germaniche, la traduzione in tedesco è risultata francamente un ostacolo insormontabile. Superato questo spazio si giunge in una nuova area il cui pezzo forte è costituito da una sala dedicata all'esposizione di cristalli giganti: quelli esposti, del peso di 1,5t, furono rinvenuti nel 2008 da Franz von Arx ed Elio Müller. L'esposizione riprende il tema della ricerca del cristallo, storica tradizione della montagna svizzera. Illuminati da fasci di luce, all'interno di una teca di vetro, i cristalli giganti esposti in questa sala del museo suscitano un'impressione che astrae dal freddo contesto circostante.

Superata anche questa zona, si prosegue in un altro ambiente dove troviamo una piccola area ristoro presieduta da un operatore del museo che, dopo breve attesa, ci conduce alla stazione a valle della corta ma ripidissima ferrovia, chiamata Metro del Sasso, che ci conduce ad un livello superiore del comprensorio, 80m più in alto. Questo collegamento su binario affiancò nel 2012 i 475 gradini utilizzati quotidianamente dai soldati per muoversi tra i due livelli della base; in precedenza, al posto della ferrovia, era prevista in equipaggiamento solo una piattaforma per il trasporto delle merci tramite sistema di funi. E' sul piano superiore che è tuttora esposta la parte più conservata dello stabilimento militare. Sulla sinistra della stazione di arrivo un corto corridoio conduce nelle sale di un acquartieramento composto da dormitori, servizi igienici e da sale dedicate alla vita quotidiana delle truppe. Al centro dello spazio, uno stretto antro con un vecchio telefono appeso alla parete costituisce l'unico mezzo di comunicazione con l'esterno che i circa 500 soldati di stanziamento avevano durante la loro permanenza nel sottosuolo della base. Attraverso una corta scala si giunge ad un piano rialzato, più piccolo e con camere meno affollate, riservato agli ufficiali. In fondo ad esso la sala radio. Gli ambienti appaiono ottimamente conservati, arricchiti da esposizioni di uniformi, elmetti e persino armi ordinatamente riposte nelle rastrelliere. Terminata la visita di questa sezione, tornando sui nostri passi verso l'origine, dalla stazione di arrivo della ferrovia proseguendo diritto sulla sinistra si raggiunge un'ampia camerata riservata ad un'esposizione sulla figura del generale Henri Guisan, comandante in capo dell'esercito svizzero dal 1939 al 1945: fu costui l'ideatore della strategia del cosiddetto Ridotto Nazionale, un sistema difensivo strategico atto ad organizzare le risorse belliche svizzere con il fine di consentire una pronta ritirata sull'arco alpino delle truppe ed una rapida difesa del territorio di confine in caso di invasione straniera nel corso della II Guerra Mondiale. Con la capitolazione francese del 1940, la Svizzera, neutrale verso il conflitto bellico, era accerchiata lungo tutto il confine dalle forze nazifasciste e temeva pertanto un'invasione da parte delle nazioni ostili. La costruzione della fortezza Sasso da Pigna fu una delle misure contestuali adottate dalla Svizzera nell'ambito di questa strategia difensiva. Per tali motivi strategici, la base militare venne dotata di cannoni prima di calibro 10,5cm, poi dal 1944 di calibro 15cm, capaci di coprire un raggio di oltre 23km e puntati costantemente sul confine italiano, pronti a fare fuoco in caso di violazione della frontiera. Oggi lo spazio museale storico, nel tratto terminale del corridoio oltre la sala d'esposizione su Guisan, annovera due postazioni operative d'artiglieria che ospitano ciascuna i cannoni originali, fortunatamente in disarmo: la mole di acciaio assemblata per bombardare e devastare fa onestamente un certo effetto, blocca la saliva in gola. Impressionante anche notare l'intricato apparato di trasporto con catene e carrucole deputate alla carica del cannone, nonchè i carrelli utilizzati per il trasporto delle munizioni. In una stanza separata, il centro di controllo del fuoco riporta ancora sulle tavolate gli strumenti utilizzati per dirigere il tiro dei cannoni. Oltre a quelli visitabili, altri due cannoni di medesimo calibro sono contenuti nella base ma non accessibili al pubblico. Tutto questo arsenale per non ingaggiare mai un combattimento con il nemico: l'unico atto di guerra avvenuto sul valico fu infatti la battaglia avvenuta nel 1799 tra l'armata russa guidata dal generale Aleksandr Vasilevic Suvorov e l'esercito napoleonico, evento commemorato oggi da una statua equestre ritraente il generale russo, opera di Dmitry Nikitovic Tugarinov del 1999, posizionata su uno sperone roccioso all'esterno del museo. Accanto alle camere dei cannoni, un corridoio conduce all'esterno su una terrazza panoramica: da qui, sopra le nuvole, è possibile ammirare un bello scorcio soleggiato sul Gotthardpass. Terminata la visita delle sale storiche, ripercorriamo a ritroso la discesa a bordo della Metro del Sasso, un inserviente ci attende al punto di arrivo e ci accompagna lungo un corridoio buio fino all'uscita sul lato est della base. Depositati nuovamente nella nebbia che ancora avvolge il valico su una stretta strada asfaltata, l'inserviente ritorna sui propri passi senza proferire parola e chiude alle nostre spalle una pesante porta di acciaio. Orientarsi nella foschia risulta più difficile del previsto ma dopo incerti tentativi ritroviamo il parcheggio e la nostra auto: la nebbia ha inzuppato d'acqua i nostri vestiti. Consumiamo in macchina il nostro pasto, il tempo di un Bratwurst acquistato lungo la strada presso un piccolo baracchino ambulante prima di abbandonare il Gotthardpass, ed è momento alfine di fare ritorno a casa.

E' stupefacente pensare come si potrebbe viaggiare per il Mondo una vita intera senza riuscire a visitare ogni luogo che lo componga e vedere ogni meraviglia che lo arricchisca. E' ancora più sorprendente accorgersi di come, molto spesso, conosciamo molto più i luoghi lontani senza addentrarci in quelli a noi più vicini, che altrettanto spesso rivelano preziose sorprese. Ed in fin dei conti, evitare di sottovalutare i luoghi nascosti dietro casa, i nostri luoghi, è ciò che rende un viaggatore più maturo e consapevole. A dirla tutta, ammetto che forse non lo avrei mai scoperto se non fossi stato obbligato dalle circostanze a limitare il mio orizzonte. Ciò che ci fa viaggiare lontano è la fantasia, la curiosità, la voglia di conoscere, la fame di diverso, la voglia di avventura. I passi che conduciamo non fanno altro che proiettarci sulla traiettoria, lontana o vicina, disegnata da tutto questo meraviglioso insieme a cui diamo il nome di viaggio. Vicino o lontano non ha importanza.