20 settembre 2023

ISTRIA SLOVENA - Olio su Tela

Ogni viaggio è fatto di tanti piccoli momenti, ognuno indipendente ed autonomo, perfetto e puro come una stella in un universo di astri. Ogni momento messo insieme agli altri compone un'opera magnifica, inimitabile nei tratti e nel carattere. A volte una bella melodia, come una sonata di violino. Altre volte invece una storia fatta di rime vivaci. Altre ancora compone un'immagine, un ritratto colmo di melodia ed intessuto di versi. Ecco, un dipinto ad olio in una cornice di ruvido legno, semplice come la scena che descrive. Sulla tela la figura di un piccolo peschereccio, lo scafo acceso dal colore, le onde a baciarne la chiglia. Un porticciolo altrettanto piccolo, un paese di pescatori. Ormeggi, nasse, reti ammucchiate. Quasi si percepisce il suono del legno delle barche attraccate che si toccano sospinte dal mare. Un dipinto su tela, un momento, un'impressione, una storia che racconta un intero viaggio. Sembra di essere davanti ad un quadro in una pinacoteca, ma siamo in viaggio. Ancora una volta.

L'Istria Slovena (in sloveno Slovenska Istra) è la parte più settentrionale della penisola istriana, una manciata di insediamenti raccolti intorno a cinque cittadine di maggiori dimensioni. A delimitarla a nord sono le Alpi Giulie, mentre ad est il suo limite è disegnato sopra i rilievi delle Api Dinariche. Verso sud l'Istria prosegue nella sua declinazione croata fino ad incontrare il Mare Adriatico, assumendo una forma che ricorda il dente acuminato di un dinosauro. L'Istria Slovena è solo una piccola porzione di questa già di per sè piccola regione, ma per gli sloveni ha un'importanza ed un significato particolare: è l'unico sbocco verso il mare che la Slovenia possieda. I 43km di costa che si affacciano verso ovest sul Mare Adriatico e più in là sull'Italia, a ricordare nell'immaginario due massaie dirimpettaie intente a far chiacchiere sporte alle finestre di due palazzi attigui, costituiscono un paesaggio alieno nel contesto dell'intero territorio sloveno, per vocazione composto prevalentemente di roccia, montagna e bosco. Eppure il mare si mischia al sangue che scorre nelle vene degli abitanti di questa regione come ancestrale retaggio culturale: ad occupare infatti storicamente queste terre fu il popolo degli istri, di probabile provenienza balcanica, di indole movimentata come le onde del mare in burrasca, passati agli annali come pirati di impareggiabile ferocia, gente abituata a dare confidenza all'acqua salata piuttosto che a scalare monti. Protetti dalle alte scogliere rocciose istriane, questi indomiti navigatori furono per lungo tempo indigesti ai popoli confinanti, tanto che solo dopo due impegnative campagne militari i romani riuscirono infine nel 177 a.C. a sottometterli. All'efficientissimo esercito romano furono necessari quasi 45 anni per far capitolare gli istri, e tra un episodio ed il successivo di questo lungo intermittente conflitto furono gli stessi romani a fondare una nuova colonia al fronte per facilitare le movimentazioni belliche: questo insediamento diventerà in seguito noto con il nome di Aquileia e la città che ne deriverà avrà secoli dopo un'importanza cruciale per la storia istriana. Di fronte alla disfatta imminente, la leggenda narra che il re degli istri Epulone decise di togliersi la vita trafiggendosi con una spada, mentre i sui circa 5.600 conterranei sopravvissuti vennero venduti nei mercati come schiavi. A tali eventi seguì un lungo periodo di dominazione romana sull'Istria durante il quale la regione conobbe comunque un significativo sviluppo. Con la caduta dell'Impero Romano d'Occidente del V secolo d.C., l'Istria passò quindi sotto il governo bizantino all'interno dei territori amministrati dalla città di Ravenna. A partire dalla seconda metà del VI secolo, questa regione cominciò a subire le incursioni dei popoli barbari, soprattutto longobardi, avari e slavi, gli ultimi dei quali ne occuparono progressivamente i territori costituendo da qui in avanti una presenza sempre più significativa. Nel 788 d.C. l'Istria venne conquistata dai franchi: questa nuova epoca di sottomissione proseguì fino all'XI secolo, maturando più avanti nel passaggio sotto il vessillo del Sacro Romano Impero, diretta continuazione di quello carolingio. Nell'arco di tutto questo periodo ad amministrare questa regione furono i patriarchi di Aquileia, antica autorità religiosa che ebbe mandato di governarne il territorio per conto dell'autorità centrale. Oggi la Slovenska Istra è la seconda regione slovena in ordine di importanza economica, grazie ad un settore produttivo fondato principalmente sul turismo, al quale si affiancano attività di antica e pregiata tradizione come la pesca e la produzione del sale, eredità inossidabile del legame che queste popolazioni hanno intrattenuto da sempre con il mare. La moderna conferma di questa antica e profonda affinità con le acque marittime risiede nel fatto che il porto di Capodistria, capoluogo dell'Istria Slovena, rappresenta uno degli scali internazionali più importanti per quanto concerne il Mare Adriatico. La rilevanza di questa regione slovena venne suggellata con atto ufficiale nel 2001, quando la denominazione Slovenska Istra venne approvata come entità topografica a tutti gli effetti dalle autorità slovene. E se un luogo è riportato su una cartina, allora lo si può raggiungere. Non ci lasciamo sfuggire l'invito e ci mettiamo in viaggio: percorriamo le quasi cinque ore di auto che ci separano dal confine italo-sloveno. Abbiamo scelto per maggiore comodità come campo base la città di Trieste, più precisamente il borgo triestino di Santa Croce, prossimo alla frontiera ed ancora su territorio italiano. Del resto, immessi sul percorso autostradale quasi non ci si accorge di oltrepassare la dogana e la via prosegue senza rallentamenti o deviazioni, solo alcuni cartelli stradali avvisano i viaggiatori del transito attraverso il confine. La circolazione sulle strade a percorrenza veloce in Slovenia richiede il pagamento di un pedaggio chiamato E-Vinjeta: si tratta di una marca elettronica che è possibile acquistare presso rivendite situate in vicinanza della frontiera, anche presso le comuni stazioni di servizio automobilistico. Non serve esporre alcun contrassegno sull'auto, i controlli vengono fatti indirettamente sulle targhe da sistemi di videosorveglianza disposti lungo le autostrade. Il prezzo dipende dal periodo di validità che si intende acquistare, nel nostro caso una settimana di circolazione garantita al costo di 16€. Siamo pronti per iniziare il nostro vagabondaggio attraverso l'Istria Slovena.

Il punto di partenza per iniziare a descrivere questo viaggio non può che essere Pirano: questa cittadina di circa 17.800 abitanti costituisce una delle immagini da cartolina più rappresentative dell'Istria Slovena. Affacciata con il suo piccolo porto sul Mare Adriatico, è una delle mete turistiche più frequentate dell'intero panorama sloveno, nonostante le dimensioni del suo centro abitato non vadano oltre un'estensione di appena 1km². Le origini della cittadina sarebbero molto antiche: secondo la tradizione, il sito sarebbe sorto nel periodo immediatamente successivo alla caduta dell'Impero Romano d'Occidente, con l'arrivo sul luogo di civili in fuga dalle invasioni barbariche che interessarono in quest'epoca l'Italia settentrionale, in particolare abitanti aquileiesi in cerca di riparo dalle incursioni condotte nel corso del V secolo d.C. dagli unni guidati da Attila. Tali origini sono comuni ad un'altra importantissima città che segnerà indelebilmente il corso della storia e stringerà un legame fortissimo con la stessa Pirano: questa città è Venezia. Infatti, dopo essere stata possedimento bavarese nel corso del X secolo, Pirano conobbe nei due secoli successivi un progressivo avvicinamento alla Serenissima, all'epoca nel pieno della propria ascesa sia economia sia politica. I proficui rapporti commerciali e diplomatici tra le due città maturarono in una formale alleanza diplomatica nel 1238: inizia da tale data un sodalizio che durerà fino al 1797, anno del tramonto veneziano, e che contribuirà a formare per Pirano un'identità culturale e sociale molto vicina a quella veneziana. Sarà questo profondo e fortissimo legame a disegnare le vie, i palazzi ed i monumenti piranesi, donando loro un'impronta particolare ed inconfondibile, portando questa piccola località ad essere un simbolo dell'intera regione ed addirittura di tutta la Slovenia. Dentro Pirano leggi Venezia. Nonostante ciò, la città istriana riuscì a mantenere sempre intatta la propria indipendenza, anche durante il periodo veneziano, e ne è testimonianza il fatto che fu dotata di uno statuto legislativo autonomo fin dal 1270: tale ordinamento prevedeva la presenza di un delegato veneziano a capo delle istituzioni, affiancato però da una sorta di consiglio parlamentare composto dai notabili più importanti della città, con diritto decisionale e di parola sulle decisioni da assumere. I conflitti che videro protagoniste le Repubbliche Marinare coinvolsero inevitabilmente anche Pirano, la quale venne assediata dai genovesi nel 1354 e nel 1379, quest'ultima incursione condotta dal celeberrimo condottiero Pietro Doria che tentò invano di conquistare la città dal mare a colpi di cannone. Il 22 febbraio 1812 il tratto di mare antistante Pirano fu teatro dell'unico scontro navale avvenuto in mare aperto su territorio sloveno: in tale occasione, due corazzate inglesi agli ordini del comandante John Talbot, in una battaglia durata più di sei ore ed avvolta in una fitta nebbia invernale, affondarono un brigantino e catturarono una nave francese facente parte di un convoglio di cinque bastimenti capitanati dal comandante Jean-Baptiste Barrè, lasciando in mare circa 400 morti francesi. Fu questo uno degli episodi che mise progressivamente termine all'influenza napoleonica sull'Istria protrattasi dal 1805. Con l'ascesa asburgica sull'Europa che sancì una crescente presa d'importanza da parte di Trieste come scalo portuale nel Mar Mediterraneo, Pirano conobbe un progressivo declino, proiettato al passaggio sotto il dominio austriaco sul finire del XVIII secolo. La ripresa della città dal punto di vista economico coincise con i primi decenni del XIX secolo, epoca in cui il porto piranese riacquisì importanza nonostante la permanenza di Trieste come principale approdo marittimo eletto strategicamente dagli Asburgo. Parzialmente evacuata durante lo svolgimento della I Guerra Mondiale, Pirano verrà assegnata dopo la conclusione del conflitto bellico all'Italia. Occupata dalla Germania nazista durante la II Guerra Mondiale, la città con il ritorno alla pace sarà ricompresa insieme a tutta l'Istria nella cosiddetta Zona B governata dagli jugoslavi, contraddistinta dalla Zona A a governo italiano: tale spartizione territoriale faceva riferimento all'accordo politico siglato a Londra nel 1954 da USA, Regno Unito, Italia e Jugoslavia per la suddivisione della regione triestina. A partire da tale ricorrenza, la popolazione istriana, fino da allora a grossa prevalenza italiana, andò incontro ad un profondo e rapido cambiamento etnico: la quasi totalità della cittadinanza autoctona migrò verso i più sicuri territori italiani, sostituita da una subentrante cittadinanza slava, per la maggior parte slovena ma anche croata e bosniaca, proveniente dall'entroterra. Pirano non fece eccezione a tale regola. Da qui in avanti si verrà a creare una profonda spaccatura nel tessuto sociale della città: costumi, tradizioni, ricorrenze religiose, credenze popolari, persino la lingue saranno stravolte e progressivamente dimenticate o sovvertite a seguito dell'esodo italiano da queste terre. Solo con la proclamazione dell'indipendenza slovena nel 1991, si imprimerà una spinta a livello nazionale indirizzata alla ripresa di tale memoria storica, recuperata purtroppo solo in piccola parte. In contraccambio, la società piranese e istriana in generale si svilupperà come una realtà multietnica, tollerante ed aperta, come testimonia il fatto che Pirano fu la prima località slovena e di tutte le ex repubbliche jugoslave ad eleggere nel 2010 un sindaco di colore, tale Peter Bossman, emigrato dal Ghana negli anni '70 del XX secolo.

Arrivati in città depositiamo la nostra auto in un piccolo parcheggio posizionato a lato della Ulica IX Korpusa. Ci troviamo sul pendio del colle Mogoron, bassa altura situata a sudest del centro storico, poco distanti dal cuore della cittadina: vogliamo evitare di incastrarci nelle strette vie di Pirano la cui percorrenza non sarebbe certo semplice per automobilisti non avvezzi. Accanto al posteggio incontriamo già la prima attrazione che Pirano offre: le Obzidje Piran sono le antiche mura difensive che proteggevano la città. La prima cinta difensiva attorno a Pirano è già citata in documenti storici risalenti al VII secolo e racchiudeva il primitivo centro abitato situato a ridosso della costa. Con la progressiva espansione della cittadina nel corso dei secoli successivi, via via si vennero a creare verso l'entroterra nuove porzioni urbane escluse dalla protezione muraria: fu così che si decise di erigere una seconda ed una terza cinta di mura dotate di torrioni difensivi, la più recente delle quali risale ad un periodo compreso tra il 1470 ed il 1533. Inizialmente predisposte a difesa dagli attacchi di numerosi aggressori stranieri, tra i quali vanno annoverate anche le bande di pirati, nel periodo più tardivo della loro esistenza queste fortificazioni conoscevano un solo principale nemico, gli ottomani acerrimi rivali dei veneziani sul mare. La parte meglio conservata delle Obzidje Piran sono proprio quelle che incontriamo dopo aver compiuto pochi passi dall'inizio della nostra visita: fanno parte delle costruzioni murarie più recenti anche se nelle loro vicinanze sorgeva già nel X secolo un piccolo rifugio utilizzato dalla popolazione come riparo in caso di aggressione. Si presentano davanti a noi imponenti, ben conservate, uno spezzone di antichità emerso come uno scoglio dalle acque della città moderna. Il sito concede anche la possibilità di salire sul camminamento delle mura per godere di una veduta privilegiata su tutta Pirano: impazienti di continuare la nostra visita decidiamo di posticipare questa occasione a fine giornata.

Proseguiamo lungo il ripido lastricato della Ulica IX Korpusa, la quale nonostante la fatica della discesa dopo il primo tratto concede le prime belle vedute sul mare. Coperta una breve distanza, si plana su una larga terrazza posizionata ad un'altezza di 36m s.l.m., al limite della scogliera a dominare il sottostante centro abitato. Da qui si gode di uno dei panorami più belli sull'intera Pirano, ma soprattutto qui sorge la Župnjiska Cerkev Svetega Jurija, la Chiesa Parrocchiale di San Giorgio, il principale luogo di culto religioso cattolico della città. Il tempio è votato al santo patrono di Pirano, il quale secondo la leggenda apparve miracolosamente alla popolazione nel 1343 intercedendo nella protezione degli abitanti dalla minaccia di un alto maremoto che stava per riversarsi sulla costa. Da allora la città ha iniziato ad onorare la memoria di San Giorgio celebrando la ricorrenza della festa patronale ogni 23 aprile: tale festività, abolita negli anni del governo jugoslavo socialista, è stata recuperata a conservazione della memoria storica di questi luoghi solo in epoca recentissima. Un'altra credenza popolare narra invece di come San Giorgio abbia sconfitto un feroce drago nei pressi della città, locale declinazione dell'agiografia ufficiale attribuita al santo.

Non si hanno notizie certe circa la data precisa della costruzione della Chiesa Parrocchiale di San Giorgio: si ritiene che essa sorga sul terreno in antichità occupato da un castrum militare romano. La prima attestazione inerente la presenza di un edificio religioso sul luogo risale a documenti storici dell'XI secolo. Fra il 1317 ed il 1345 venne realizzata una nuova costruzione in stile gotico a sostituzione di un precedente tempio in stile romanico. La chiesa gotica rimase sostanzialmente immutata nella forma e nell'aspetto fino al 1580, anno in cui il veneziano Agostino Valier, vescovo di Verona ed ispettore papale, durante la propria visita a Pirano constatò lo stato di profonda decadenza ed incuria dell'edificio, esortando quindi il vescovo di Capodistria Giovanni Ingenerio ed il podestà Girolamo Barozzi a rinnovarne la struttura. I lavori di restauro iniziarono nel 1592 sotto la direzione del capomastro Niccolò Petronio Caldana e si conclusero nel 1637 riaffidando alla popolazione il tempio in stile barocco che ancora oggi possiamo ammirare, nonostante i lavori di restauro condotti sull'edificio tra il 2002 ed il 2005 che non ne mutarono comunque l'aspetto. La facciata, sobria ed elegante, è opera di Bonfante Torre; la struttura è a navata unica. Attiguo alla chiesa svetta lo Zvonik Svetega Jurija, la torre campanaria, alta 47m, costruita sul modello del veneziano Campanile di San Marco, separata rispetto al copro principale della chiesa e posta lungo il suo versante posteriore dietro l'abside. Eretta tra il 1608 ed il 1609, sulla sua cima svetta una banderuola ritraente l'Arcangelo Michele. Oggetto tra il 2013 ed il 2015 di importanti restauri che videro tra le altre cose anche il posizionamento di due nuove campane provenienti da Berlino, la torre campanaria concede al visitatore una vista panoramica privilegiata sull'intera città dall'alto della sua sommità, ospitante quattro campane funzionanti e raggiungibile attraverso un percorso di 146 gradini. La sagoma del campanile, ben visibile da qualunque punto di Pirano, costituisce senza ombra di dubbio uno dei tratti distintivi del profilo della città. Accanto alla torre campanaria sorge il Krstilnica Svetega Janeza Kristnika, il battistero intitolato a San Giovanni Battista, a pianta ottagonale e costruito tra il 1637 ed il 1650.

Il piacere di visitare all'interno la Chiesa Parrocchiale di San Giorgio ci è precluso da una grata di metallo che impedisce ai visitatori l'ingresso all'interno del tempio: dobbiamo accontentarci di osservare la bellezza custodita in questo luogo attraverso l'inferriata, rimanendo sulla soglia. Possiamo comunque ammirare il bel soffitto a cassettoni e le sculture lignee policrome poste alle pareti laterali, tra le quali spicca una figura di San Giorgio a cavallo in lotta con il drago attribuita a Giovanni Maria Gasparini e datata XVIII secolo. Pregevoli anche i sette altari di cui la chiesa dispone, quello principale impreziosito da maestosi dipinti creati da Angelo de Coster (inizio XVIII secolo) e dal pittore triestino Giovanni Pagliarini (XIX secolo). Non potendo percorrere liberamente la navata della chiesa, ci è impossibile ammirare il Piran Krizani (Crocifisso di Pirano), collocato dal 2009 i
n una teca di vetro lungo la parete destra del presbiterio: datato XIV secolo e proveniente probabilmente dalla vicina Portorose, quest'opera scultorea lignea costituisce uno degli esempi più notevoli di arte gotica istriana. La Chiesa Parrocchiale di San Giorgio non è però solo arte, è anche archeologia, come confermano i molteplici ritrovamenti emersi dal suolo sottostante la pavimentazione della chiesa negli ultimi decenni, tra i quali una tomba medievale rinvenuta nel 1991 sotto il pavimento del tempio insieme ad oggetti antichi (monete, medaglie e grani del Rosario), oltre ai resti di strutture edilizie di epoca romana e dei precedenti periodi, romanico e gotico, attraversati dall'edificio. Il valore storico, artistico e spirituale di questo luogo si intreccia perfettamente con la pace e la quiete del contesto in cui è immerso: il sagrato della chiesa è costituito da un verdeggiante prato erboso delimitato da una cinta in arenaria bianca, la cui realizzazione risale al 1696: tale spiazzo servì in antichità da camposanto e tale circostanza spiega il motivo per il quale ancora oggi si scorgono i resti di alcune lapidi incastonate nello spessore del basso recinto. Il panorama da questa piattaforma è uno dei più belli che si possano cogliere a Pirano: da un lato il centro storico della città con la piazza Tartinijeva Trg, in lontananza e dall'alto simile nelle proporzioni alla miniatura di un gioco per bambini; dalla parte opposta l'immensità del Mare Adriatico con le sue calme e profonde tonalità di blu. E' assolutamente vietato fare ritorno a casa dopo aver visitato Pirano senza avere con sè uno scatto fotografico carpito da tale punto di osservazione.

Proseguiamo il nostro percorso lasciandoci alle spalle la Župnjiska Cerkev Svetega Jurija ed imboccando prima la Adamičeva Ulica, poi la via Pusterla dove incontriamo su un lato dei bei murales lungo le pareti che delimitano la strada, tra di essi la figura di un corsaro dallo sguardo truce simbolo della locale compagine sportiva di pallanuoto. Proseguiamo a piedi in discesa e devo ammettere che il percorso non si dimostra agevole: il fondo stradale è quasi sempre lastricato ed a volte parecchio sconnesso, procedere con il passeggino non risulta semplice. Giunti al termine della discesa sbuchiamo quasi senza accorgercene sulla Prešernovo Nabrežje, il lungomare della città, dove ci immergiamo in una giungla composta da passanti a passeggio, bagnanti distesi sul bordo degli scogli che separano la via dal mare, macchie di tavolini e sedie posizionate dalle numerosissime gelaterie e caffetterie al bordo della strada. E' questa la porzione più vitale della città, quella più frequentata dal turismo: le piccole dimensioni degli spazi la fanno assomigliare ad un brulicante formicaio in febbrile attività, nonostante una folla ovviamente ben lontana da quella delle grandi metropoli. Ci troviamo nel quartiere Punta, uno dei rioni storici di Pirano, quello da cui si sviluppò progressivamente il centro abitato a partire da un piccolo insediamento di pescatori. E' questo il quartiere che conserva ancora l'anima autentica di questa città, il suo carattere semplice e provinciale, il suo legame con il mare. Il nome deriva probabilmente dalla forma assunta da questa porzione di cittadina, una propaggine appuntita che si sporge verso il mare. Ed infatti, poco più avanti, la Prešernovo Nabrežje compie un'acuta curva a gomito piegandosi verso sud.

A dominare tale apice di terra, la punta estrema di Pirano rivolta verso il mare, sorge il Piranski Svetilnik, un piccolo faro posizionato a lato della via. La straordinarietà di questa struttura risiede nel fatto che è l'unico faro presente su tutto il territorio sloveno. Sulle sue origini non si hanno certezze ma si ritengono essere piuttosto antiche, forse risalenti all'epoca medievale, come confermerebbero alcuni rilievi archeologici condotti sul sito nel 2008 in occasione dei lavori di restauro che videro interessata la struttura. Il faro poggia sopra un bastione cilindrico delle antiche mura cittadine di epoca veneziana sul cui lato meridionale si scorgono scolpiti nella pietra due stemmi rappresentanti lo stendardo della famiglia Bembo, antico casato di podestà locali, e lo scudo crociato simbolo di Pirano, entrambi riportanti la data del 1617. Dopo essere stato più volte ristrutturato tra il XVI secolo ed il XVII secolo, il faro originario a pianta quadrata venne completamente distrutto nel 1849 in occasione di una battaglia che vide contrapposta Pirano alla flotta del Regno di Sardegna. Lo sostituì l'attuale struttura a pianta rotonda dotata di un'elegante corona neogotica in pietra bianca, la cui realizzazione venne ultimata nel 1855. Nel 1874 accanto al faro venne eretto un basso edificio a tetto spiovente destinato ad ospitare gli alloggi del guardiano, ruolo che la costruzione svolse continuativamente fino al 1976: il compito di tale funzionario era quello di accendere la grande lanterna a petrolio posizionata sulla cima della torre e finalizzata a segnalare ai naviganti la vicinanza della costa. Oggi il faro è ovviamente alimentato ad elettricità ed il suo funzionamento viene gestito dalla locale Comunità Autogestita della Nazionalità Italiana (CAN). Posto ad un'altezza di 12m s.l.m., il Piranski Svetilnik custodisce anche un'importantissima eredità storica appartenente alla città: infatti, il nome Pirano deriverebbe dalla parola greca pyr, vale a dire "fuoco", in riferimento proprio alla presenza presso questo luogo di un faro a segnalare ai naviganti per mezzo di una luce la prossimità alla terraferma.

Appoggiata al bastione da cui si innalza la struttura del faro, come un'anziana signora intenta a sostenersi al riparo di un muro ai bordi della via, sorge la Cerkev Marije Zdravja, la Chiesa della Madonna della SaluteQuesto piccolo tempio in stile barocco risale al XVIII secolo, anche se l'attuale struttura sarebbe sorta su una chiesa più antica dedicata a San Clemente protettore dei marinai e datata XIII secolo. L'attuale denominazione dell'edificio va invece fatta risalire al 1631, anno in cui la città fu colpita da una cruenta epidemia di peste al termine della quale la popolazione, in segno votivo, consegnò la piccola chiesa in offerta alla Madonna della Salute. Pirano peraltro non era purtroppo nuova a tale sciagura, avendo già conosciuto il flagello della peste in precedenza nel 1558, calamità che aveva ridotto addirittura di due terzi il numero dei suoi abitanti. Osservando la chiesa dall'esterno, la sua livrea appare scarna ed essenziale, senza particolari decorazione a sottolinearne i profili, le forme semplici ed essenziali. Anche in questo caso, come già avevamo sperimentato per la Chiesa Parrocchiale di San Giorgio, l'accesso nel tempio è interdetto da una grata metallica posizionata all'ingresso. E' possibile però osservare dalla soglia la struttura interna della navata unica che ne compone la struttura: le pareti appaiono consumate, alcune porzioni di intonaco cadute lasciano intravedere il fitto ricamo dei mattoni sottostanti, i marmi mostrano i segni della paziente ed inesorabile opera dell'usura. Ad intaccare lo scheletro di questo edificio è l'azione invisibile della salsedine marina, trasportata dal mare per secoli in ogni andito della chiesa e che nulla ha risparmiato, tranne il bel bassorilievo dell'altare maggiore, oggi opportunamente traslato e conservato presso il museo parrocchiale della vicina Župnjiska Cerkev Svetega Jurija. Lo spazio custodito dalla Chiesa della Madonna della Salute oggi non viene più utilizzato per celebrazioni religiose, bensì per eventi culturali e mostre artistiche, come quella che abbiamo incontrato noi nello spingere lo sguardo all'interno della chiesa: una curiosa lastra di vetro rettangolare ricoperta di fogli d'oro appariva appesa davanti all'altare, opera dal titolo "Imaginem" dell'artista sloveno Igor Andjelic, il quale con tale installazione proietta l'osservatore in una sorta di camera lucida attraverso un gioco di interazioni luminose. Andjelic è infatti fotografo per formazione. Nonostante le sue contenute dimensioni, la Cerkev Marije Zdravja gode di grande considerazione nell'impalcatura storica ed architettonica della città, come testimonia il fatto che lo stesso sperone roccioso sul quale sorge insieme al faro trae il proprio nome, vale a dire Rt Madona, proprio dalla presenza di questa piccola chiesa. Ci lasciamo alle spalle questa porzione di città non prima di aver ammirato la scultura di una sirena ricavata direttamente nello spessore di un blocco roccioso posizionato lungo la scogliera, sul bordo della Prešernovo Nabrežje, di fronte al faro: nonostante alcune ricerche, non sono stato in grado di ricavarne l'autore. 

Proseguiamo oltre mantenendoci sulla via pedonale litoranea: passeggiare in questa parte di città è veramente un piacere. Poco più avanti, prima di raggiungere il porto, deviamo il percorso abbandonando l'aperto camminamento costiero per immergerci sulla sinistra nel fitto delle strette vie cittadine. Coperto un brevissimo tragitto sbuchiamo in Prvomayjski Trg, Piazza Primo Maggio. Questo spazio costituiva in antichità lo svincolo principale della città, il luogo di raduno più importante, il punto di convergenza di tutte le vie cittadine, in altre parole il cuore di Pirano: tale retaggio antico giustifica il fatto che ancora oggi questo luogo sia conosciuto anche con l'appellativo di Stari Trg (Piazza Vecchia).

Nonostante tale importante funzione, le dimensioni di questa piazza appaiono piuttosto contenute, cinta lungo il perimetro da alti palazzi e sempre all'ombra degli edifici che la circondano, secondo una conformazione strutturale assunta tra il XVII secolo ed il XVIII secolo e tuttora mantenuta. Al centro si posiziona una cisterna in pietra per la raccolta dell'acqua piovana, infrastruttura realizzata a seguito della grave siccità che colpì Pirano nel 1775: il funzionamento di tali bacini di accumulo idrico prevedeva che l'acqua venisse convogliata dalle grondaie posizionate sui tetti degli edifici verso blocchi di pietra che fungevano da filtro, ed una volta depurata veniva immagazzinata nella grande cisterna posta proprio sotto il centro della piazza. Da qui, l'acqua era distribuita attraverso un sistema di pompaggio manuale i cui resti sono in parte sopravvissuti fino ad oggi. Al centro di Piazza Primo Maggio troneggia infatti la struttura di un pozzo in pietra, chiuso da una lastra metallica, posizionato al culmine di una piattaforma rialzata presidiata sui due lati della scalinata di accesso dalle statue allegoriche della Giustizie e della Vigilanza: la prima appare come la figura di una guerriera, con l'elmo sul capo e sorretto dal braccio uno scudo con incisi gli stemmi della città, della famiglia Marcello e della famiglia Bemba; la seconda invece sfoggia una figura femminile, fine ed elegante, con un blasone nella mano sinistra sopra il quale sono incise l'anno di costruzione del sistema di raccolta delle acque ed i nomi dei suoi artefici. Accanto alla piattaforma rialzata sorge, racchiusa tra due alti palazzi che la sovrastano in altezza, la piccola Cerkev Svetega Donata, una minuscola chiesetta eretta per volere della famiglia patrizia dei Del Senno agli inizi del XIII secolo: l'importanza di tale edificio risiede nel fatto che scavi archeologici eseguiti nel 1988 hanno rinvenuto sotto la sua base reperti archeologici risalenti al XVIII secolo a.C. e resti di strutture architettoniche del I secolo d.C., epoca in cui quest'area conobbe probabilmente il primo iniziale sviluppo urbano della propria storia. Tali rinvenimenti confermano sorprendentemente che il territorio dell'odierna cittadina fu abitato fin da tempi antichissimi. La Cerkev Svetega Donata fu oggetto di restauro negli anni '80 del XX secolo: i lavori sul tempio, sconsacrato già dal 1824, vennero condotti su progetto dell'architetto italo-sloveno Boris Podrecca e portarono l'edificio rinnovato ad ospitare le sale di una galleria d'arte, assumendo la forma attuale pur mantenendo la struttura originaria della facciata realizzata in stile barocco nel corso del XVII secolo. La sagoma di questa piccola chiesa completa l'aspetto peculiare della piazza, un poco vissuta nelle sembianze, un poco mondana nella vocazione. Oggi la 
Prvomayjski Trg ha perduto il proprio carattere di centralità a favore di un'altra importantissima piazza di Pirano: la Tartinijev Trg si trova a brevissima distanza e la raggiungiamo ritornando sui nostri passi proseguendo il nostro cammino nuovamente lungo la Prešernovo Nabrežje.

Quella che è oggi la piazza principale della città è dedicata alla memoria di Giuseppe Tartini, celeberrimo violinista e compositore, nativo proprio di Pirano. La vita di questo personaggio sembra uscire direttamente dalle pagine di un romanzo: avviato in giovane età alla carriera ecclesiastica, dimostrò fin da subito scarsa propensione a questa vocazione, e per questo si trasferì nel 1708, all'età di 16 anni, presso Padova, dove intraprese gli studi giurisprudenziali. Il suo cammino sarebbe stato quello di un apprezzato avvocato se non fosse che il giovanotto si dilettasse anche di scherma, disciplina nella quale non mancava di talento, e proprio tale attività lo condusse a conoscere Elisabetta Premazore, della quale si innamorò perdutamente: la fanciulla prendeva lezioni di scherma proprio da Tartini, pertanto è proprio il caso di dire che galeotta fu la spada...e chi la impugnò. Una romantica storia d'amore tra due giovani innocenti, tutto bellissimo, certo! Peccato che Elisabetta Premazore era nipote di Giorgio Cornaro, cardinale ed arcivescovo di Padova, il quale non prese bene il corteggiamento di Tartini verso la ragazza. Cornaro oppose una decisa ed irremovibile resistenza all'unione dei due innamorati; ciò nonostante, a seguito della morte del padre, Tartini decise d'impulso di sposare in gran segreto Elisabetta, all'oscuro da tutti ed in sprezzo ai divieti ricevuti: nel 1710 vennero celebrate le nozze, dopodichè marito e moglie furono costretti a fuggire. Si narra che Tartini, dopo aver abbandonato la novella sposa presso un convento a Padova, riuscì ad eludere la caccia del cardinal Cornaro e della famiglia di Elisabetta travestendosi da pellegrino e allontanandosi dalla città veneta fino ad arrivare a Roma. Nonostante la distanza guadagnata dal fuggitivo, nemmeno la città laziale gli era sicura, e cominciò pertanto un periodo di vagabondaggio che lo portò a spostarsi di città in città, fino a trovare un rifugio definitivo presso il convento dei monaci minoriti di Assisi, accolto dal frate guardiano Giovanni Battista Torre. Ed ecco l'incontro predestinato di Tartini con il violino: durante il suo soggiorno presso il monastero, fu lo stesso Torre ad assecondare ed incoraggiare l'interesse che Tartini cominciò a mostrare per questo strumento musicale. A partire da questo momento avrà inizio una di quelle storie leggendarie che narrano il rapporto quasi simbiotico tra essere umano e musica, un rapporto che genera magia e che non si spiega a parole ma solo a spartiti: Tartini fu un innovatore ed un abilissimo compositore, a lui si deve un nuovo modo di suonare il violino, un metodo rivoluzionario fondato sulla scoperta del cosiddetto terzo tono, ovvero il fenomeno della risonanza della terza nota dell'accordo quando vengono suonate le due note superiori, tecnica messa a punto dallo stesso Tartini ad Ancona nel 1714. Celebre fu la sua sonata per violino in sol minore dal titolo "Il Trillo del Diavolo", creata intorno al 1740. L'abile violinista divenne un nome noto nel panorama artistico continentale, si esibì più volte in contesti di prestigio presso istituzioni sia religiose sia laiche, fino a suonare la propria musica in occasione dell'incoronazione ufficiale di Carlo VI d'Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero e re di Boemia, a Praga nel 1723: l'artista si tratterrà nella città boema per i tre anni successivi. Eppure fu proprio il violino a svelare il nascondiglio di Tartini a chi non aveva mai smesso di cercarlo: dopo due anni di permanenza presso il convento minorita di Assisi, si racconta che durante una celebrazione religiosa in occasione della quale il violinista si stava esibendo in accompagnamento del coro, una improvvisa folata di vento sollevò il pesante tendaggio che lo nascondeva alla vista dei partecipanti, rivelandone la presenza e l'identità. Il destino di Tartini era ormai segnato, pensava lo attendesse il peggio, ma quando venne raggiunto dal cardinal Cornaro inaspettatamente da questi venne perdonato, approvando alfine la sua unione con la nipote Elisabetta Premazore: forse la musica sopraffina di Tartini, per anni spesa a favore dei monaci, aveva rabbonito il sentimento del cardinale. I due sposi furono finalmente riuniti e la fama di Tartini prese il volo. Divenne uno dei musicisti più apprezzati sul panorama artistico europeo e nel 1728, di ritorno a Padova per alcuni problemi di salute, fondò la Scuola delle Nazioni dove ebbe modo di formare valenti ed abilissimi musicisti, tra i quali Antonio Salieri che da Tartini prese lezioni di violino durante il suo periodo giovanile veneziano. La figura di Giuseppe Tartini attraversa i secoli ed arriva inalterata fino ad oggi: ne è conferma il fatto che il conservatorio di Trieste è dedicato proprio al suo nome. Morì a causa dello scorbuto e di una gangrena che lo colpì ad una gamba nel 1770, un anno dopo la morte della moglie. Fu sepolto insieme alla consorte a Padova, ma la vicenda di questo ardito musicista continuò ad alimentare la leggenda anche dopo la sua dipartita: diversi testimoni affermarono infatti, nei decenni successivi alla sua tumulazione, di aver veduto nei pressi della tomba del violinista la figura incorporea di un uomo vestito in abiti tradizionali settecenteschi intento a suonare appassionatamente il proprio violino nel buio della notte. Tale leggenda raggiunse l'apice in epoca moderna, quando nel 1997 la tomba di Tartini venne aperta per scoprire che il feretro che avrebbe dovuto contenerne i resti era in realtà vuoto, salvo alcuni residui ossei e la fede nuziale del defunto. Tale inspiegabile riscontro avvalorò l'ipotesi che il fantasma di Tartini si aggirasse di notte nei pressi della tomba suonando la propria melodiosa musica. In realtà nulla c'era di inspiegabile: si svelò infatti che, poco dopo la sepoltura, sulla tomba del violinista e della consorte venne versata una soluzione di acido solforico con il fine di ridurre i miasmi che ne provenivano abbondanti, come conseguenza del fatto che le tombe sono collocate sopra un terreno le cui caratteristiche altererebbero i fenomeni putrefattivi, allungando i tempi della decomposizione ed aumentando pertanto le esalazioni. La soluzione acida penetrò successivamente all'interno delle bare sciogliendo i corpi dei defunti. Fu proprio l'anello nuziale rinvenuto all'interno della tomba con i segni particolari osservati sul suo metallo a condurre gli studiosi a formulare tale ipotesi.

La rocambolesca ed avventurosa vita di questo virtuoso violinista ebbe inizio proprio da Pirano, più precisamente presso l'odierna Piazza Tartini, dove sorge ancora oggi la Tartinijeva Hiša, la casa natale di Giuseppe Tartini. Qui nacque il violinista e qui visse gli anni della sua infanzia: la sua famiglia di provenienza non doveva essere particolarmente abbiente, come confermerebbero le continue richieste di aiuto economico cui Tartini dovette far fronte per l'intero arco della propria esistenza. Del resto la generosità dell'artista fu indiscutibile, ad esempio non era raro che desse lezioni gratuite di violino a ragazzi e bambini che non avevano mezzi per pagarlo. L'esistenza della struttura della Tartinijeva Hiša è già testimoniata in documenti storici del XIV secolo, circostanza che la rende uno dei più antichi edifici attualmente esistenti in città. Subì lavori di ristrutturazione in stile neoclassico nel corso del XVIII secolo e del XIX secolo. L'ultimo restauro sulla struttura risale invece al 1991. Oggi vi è collocata un'esposizione dedicata alla vita di Giuseppe Tartini, comprendente anche il suo prezioso violino realizzato dal liutaio cremonese Nicolò Amati. Oltre a questo spazio museale, l'edificio è sede dal 1946 anche di una congregazione culturale italiana: oggi la presenza a Pirano di italiani si riduce a circa 700 abitanti, appena il 4% della popolazione complessiva, ma dalle origini e fino al periodo immediatamente successivo alla II Guerra Mondiale la città fu abitata prevalentemente da italiani. Tale circostanza va letta in ottica soprattutto della lunga unione storica di Pirano con Venezia, ma anche dell'inclusione della città all'interno dei confini italiani dopo il termine della I Guerra Mondiale. Oggigiorno questa presenza è solo una piccola eredità storica, ma in passato costituiva l'anima della cittadina: basti pensare che nel 1894 Pirano insorse contro il potere asburgico a seguito dell'imposizione di tabelle bilingue, italiane e slovene, presso le sale del locale tribunale, decisione che fu interpretata come un vero affronto da parte della popolazione. La sommossa fu accesissima e potè essere repressa solo con l'intervento militare austriaco e l'uso della forza.

La Tartinijeva Hiša è parte di questa eredità italiana posseduta dalla città: sorge sul fondo della piazza omonima, costruzione a dire il vero piuttosto anonima se non fosse per il celebre abitante che le dona il nome. Il patrimonio di Piazza Tartini va però ben oltre la sola presenza di questo edificio: la sua struttura è pittoresca e straordinaria, con il piccolo porto, il Pristanišče Piran, posizionato ad una sua estremità come se la piazza ne fosse parte, entrasse in contatto con esso, in un tocco simbolico e straordinario tra la città urbanizzata ed il mare indomito, tra effimero ed eterno. Il colpo d'occhio che avevamo già colto sulla piazza dall'alto della terrazza che ospita la Chiesa Parrocchiale di San Giorgio era stato magnifico, una delle immagini da cartolina immancabili tra i ricordi di Pirano, ma camminare su di essa suscita una sensazione tutta particolare, quasi come se la piazza fosse il centro di un abbraccio che Pirano offre a tutti i visitatori che vi si trovano ad attraversarla. Ed al culmine dell'abbraccio ecco il porto, l'essenza della città, una città di naviganti, una città di pescatori. Ed in effetti, fino agli inizi del XIX secolo, lo spazio oggi assegnato alla piazza era occupato da un mandracchio (vale a dire una piccola darsena) per barche da pesca, un'estensione dell'attuale porto. Nei decenni successivi, per volere delle autorità austriache, questa porzione di mare portuale venne interrata allo scopo di migliorarne la salubrità, dal momento che qui confluivano gli scarichi urbani che insieme all'abbondante traffico di imbarcazioni rendevano la zona particolarmente malsana e mefitica. Venne così a crearsi un'area adatta alla realizzazione di una nuova piazza: il primo aspetto assunto da Piazza Tartini fu certamente differente rispetto a quello attuale, il quale è frutto di trasformazioni e metamorfosi compiutesi nell'arco dei decenni.

Ad esempio, l'elemento di spicco che caratterizza oggi la piazza, il Tartinijev Spomenik, una statua ritraente Giuseppe Tartini nell'atto di impugnare archetto e violino, venne posizionato sulla piazza solo nel 1896, in occasione della celebrazione del 200° anniversario della nascita del musicista, il realtà con quattro anni di ritardo causati da lungaggini burocratiche, dal momento che Tartini nacque nel 1692. Il monumento è opera del veneziano Antonio del Zotto, mentre il piedistallo sul quale poggia la scultura venne realizzato dallo scalpellino triestino Antonio Tamburlini. Dal 1912 al 1953 la piazza fu il capolinea di una linea di tram elettrici che circolavano nel breve tragitto tra Pirano e Portorose, evoluzione di una precedente avveniristica quanto fallimentare linea di filobus. Durante gli anni di governo socialista jugoslavo, Piazza Tartini venne addirittura utilizzata come parcheggio per automobili, un vero scempio se si pensa alla bellezza oggi sfoggiata da questo luogo. Finalmente, ad inizio degli anni '90 del XX secolo, in occasione della ricorrenza dei 300 anni dalla nascita di Giuseppe Tartini, la piazza venne ampiamente ristrutturata ed a conferirle la tipica forma ellittica che tuttora detiene fu l'architetto sloveno Boris Podrecca, autore dei progetti. Ad un'estremità dell'ellissi che compone lo spazio, ecco posizionarsi proprio il Tartinijev Spomenik; dal lato opposto, quasi al confine tra la piazza ed il porto ed affacciati su quest'ultimo, sorgono invece due pennoni portabandiera le cui basi in pietra d'Istria ritraggono le effige del Leone di San Marco e di San Giorgio, retaggio di richiamo veneziano. A dominare dall'alto tutta la piazza, sullo sfondo, svetta il profilo dello Zvonik Svetega Jurija, il quale a guardarlo dal basso sembra un faro posizionato su un alto promontorio piuttosto che un campanile. Ci fermiamo un istante nello spazio ellittico della piazza e ci concediamo un po' di riposo seduti sulle panchine intervallate ai bassi lampioni, mentre Amelia e Lidia giocano correndo in lungo ed in largo nel vasto spazio concesso dal luogo: la piazza ora è infatti area pedonale chiusa al traffico automobilistico.

Immersi in questa quiete, non possiamo fare a meno di notare i magnifici edifici che caratterizzano il perimetro della piazza stessa, a partire dal Mestna Hiša, la sede del municipio. Si tratta di un edificio realizzato intorno al 1879 sopra una precedente struttura risalente al XIII secolo. A progettarne la struttura, caratterizzata da uno stile neoclassico con quattro alte colonne a dominarne la facciata, fu l'architetto Giovanni Righetti: al centro del colonnato spicca sempre la figura del Leone di San Marco, mentre al culmine della facciata troneggia lo scudo crociato emblema della città. Accanto all'edificio municipale sorge un altro simbolo della piazza e dell'intera Pirano, seppure di dimensioni più modeste ma non per questo di minor pregio: la Benečanka, altrimenti detta Casa Veneziana, è considerata una delle strutture più antiche affacciate su Piazza Tartini. La sua realizzazione risalirebbe al XV secolo e costituisce attualmente l'esempio più notevole di architettura gotico-veneziana di Pirano. A commissionarne la costruzione fu una delle famiglie più in vista della città, vale a dire quella dei Del Bello. Ad impreziosirne l'aspetto sono gli elementi architettonici finemente modellati, le ricche decorazioni in pietra ed il balcone gotico angolare. Pregevole anche la trifora elegantemente scolpita, presente al primo piano della facciata. Lungo quest'ultima, al centro della due finestre superiori, è riportata una targa con l'effige di un leone rampante che riporta l'iscrizione: "Lassa pur dir", un invito a lasciare che i pettegoli esercitino il proprio talento senza darsene cruccio. Le origini ed i motivi di tale messaggio sono oggi avvolti nel mistero, ma si narra che la targa venne apposta sul muro dell'edificio da un mercante veneziano che abitò la Benečanka, il quale fece costruire affacciato sull'antico mandracchio un palazzo da destinare in regalo ad una donna sua amata, incontrando per tali modi spregiudicatamente romantici la disapprovazione delle malelingue: il messaggio sarebbe così da interpretare come una sorta di motto liberatorio e di sentenza protettiva nei confronti della reputazione della fanciulla corteggiata. Insieme alla Casa Veneziana, a presidiare il fianco al lato opposto della Mestna Hiša, sorge un altro imponente edificio, il Sodna Palača: questa solenne e distinta costruzione oggi ospita la sede dei tribunali cittadini, ma si colloca nel punto in cui dall'inizio del XIV secolo e fino al XV secolo era posizionato un magazzino destinato allo stoccaggio del grano e della farina; successivamente, nel corso del XVI secolo, vi venne ubicato anche il monte di pietà della città. Il palazzo venne realizzato su progetto di Giuseppe Moso ed Enrico Nordio tra il 1885 ed il 1891. Posto all'ingresso della piazza sul lato rivolto verso il porto, è spesso il Sodna Palača ad accogliere per primo il visitatore arrivato in Tartinijev Trg.

Il patrimonio storico di Piazza Tartini è completato dalla Cerkev Svetega Petra, una piccola chiesetta in stile neoclassico posta accanto alla Tartinijeva Hiša: la sua realizzazione risale al 1818 ed a progettarne la struttura fu l'architetto Pietro Nobile, mentre il punto in cui sorge era precedentemente occupato da una più antica chiesa romanica datata XIII secolo. Anche qui l'accesso è sbarrato da una grata di metallo che consente di osservare l'interno dell'edificio solamente dalla soglia. Il resto di Tartinijev Trg sono tavolini di caffetterie, una folla discreta con i suoi rumori ed i suoi movimenti, ed una brezza gradevole proveniente dal mare. Non possiamo abbandonare però la piazza prima di aver visitato altri due punti cruciali che ne presidiano i due limiti opposti ai confini con il porto, l'uno affacciato all'altro come due cavalieri fermi sull'attenti a sorvegliare il trono regale della città. Sul lato più lontano si posiziona la sagoma del Pomorski Muzej Sergej Mašera: questo museo dedicato al mare è ospitato all'interno di un austero palazzo del XIX secolo, anticamente appartenuto alla famiglia Gabrielle che ne commissionò la costruzione. L'esposizione è intitolata alla memoria dell'ufficiale di marina sloveno che il 14 aprile 1941, in pieno svolgimento della II Guerra Mondiale, alla capitolazione dell'esercito jugoslavo di fronte alla potenza nazifascista, decise di rimanere a bordo della propria nave da guerra (il cacciatorpediniere Zagreb) insieme al compagno d'armi Milan Spasic, dopo aver evacuato il resto dell'equipaggio, con lo scopo di far esplodere l'imbarcazione per evitarne la cattura da parte del nemico. Sergej Mašera venne per questo nominato eroe nazionale dalle autorità slovene nel 1973. Il museo a lui intitolato, inaugurato nel 1954, raccoglie ed espone elementi del ricco patrimonio storico marittimo e marinaresco dell'intero litorale sloveno, custodendo oltre a numerosissimi reperti anche una biblioteca di ben 14.000 volumi. Peccato non poterne visitare le sale: il museo chiude i battenti alle ore 17:00 e siamo in ritardo di una decina di minuti. Siamo più fortunati con il secondo sito posto a presidiare l'ingresso di Piazza Tartini: sul lato opposto del porto, attraversato la corta via che corre lungo il molo, si trova l'Akvarij Piran, l'Acquario di Pirano: questa piccola esibizione di abitanti del mare, inaugurata nel 1964, non detiene certo proporzioni ragguardevoli, un paio di sale ed una manciata di vasche, ma costituisce una piacevole occasione di divertimento per chi viaggia con bambini. Ammetto che non siamo soliti frequentare ambienti in cui vengono messi in mostra animali in cattività, personalmente lo trovo triste e crudele, e gli stessi valori di rispetto della libertà delle creature spero rimangano impressi nella sensibilità anche di Lidia ed Amelia. Facciamo però un'eccezione a questi principi e decidiamo di visitare l'acquario. Del resto qui il sistema di conservazione delle creature custodite nelle vasche è decritto dall'acquario stesso come innovativo e moderno, realizzato su un sistema di ricambio delle acque che rifornisce continuamente gli ambienti di acqua marina, consentendo una più lunga e confortevole sopravvivenza degli animali. Magra consolazione, me ne rendo conto, ma meglio di niente. All'entrata paghiamo il biglietto d'ingresso a tariffa familiare di importo pari a 15€ e riceviamo le raccomandazioni dell'impiegata dietro il bancone che ci impone di osservare silenzio durante la nostra visita, richiesta subito disattesa dall'entusiasmo della piccola Lidia che urla di gioia appena vede i primi pesci muoversi nelle vasche. Non è richiesto più di una ventina di minuti per completare il giro dell'intero spazio espositivo, ma personalmente sarei rimasto ore ad osservare il movimento fluido ed ammaliante delle meduse. L'edificio del museo non offre solo animali in mostra, ma sorprendentemente conserva anche importanti sprazzi di storia e vissuto provenienti dalla città che lo circonda: infatti, una piccola porzione del pavimento dell'atrio dell'Akvarij Piran è composto da una lastra di vetro che lascia intravedere sul fondo i resti di un'antica costruzione, una chiesa intitolata a San Nicola patrono di pescatori e marinai, presente nel luogo dell'attuale museo fin dal X secolo, oggi ovviamente andata perduta e sostituita dal moderno edificio museale. Un gradevole diversivo posto inaspettatamente in un contesto artificiale fatto di pesci ed acqua. Questi resti archeologici vennero scoperti nel 2008 ed integrati nel percorso del museo, testimoniando il ricco e multiforme passato di questo luogo che circa un secolo fa', prima di essere adibito a spazio espositivo, venne utilizzato anche come prigione ed alloggio per naviganti in quarantena, funzione egregiamente svolta data la sua stretta vicinanza al porto.

Dopo aver ammirato cernie, polpi, gamberi, bavose, murene ed un piccolo squaletto il cui movimento tormentato verso la superficie dell'acqua devo ammettere avermi alquanto intristito, abbandoniamo i locali dell'acquario per ritornare all'esterno su Piazza Tartini. Da qui penetriamo nel fitto intreccio di strette stradine e vicoli angusti che compone il centro storico di Pirano, un vero labirinto, percorribile solo a piedi, in cui perdersi per assaporare la reale essenza della città. Ci troviamo ora nel quartiere Marčana, il secondo rione storico della città, fondato anticamente dalla gens Marcia, famiglia patrizia romana che abitò in un lontano passato quest'area. In appena 250m di percorso in salita sull'ormai noto fondo stradale lastricato e spesso disconnesso, raggiungiamo il Minoritski Samostan Svetega Frančiška, il Convento dei Frati Minoriti di San Francesco, posto a lato della via, rialzato sopra una stretta piattaforma circondata dalle facciate degli edifici e raggiungibile attraverso una corta scalinata. Il monastero venne fondato probabilmente intorno al 1301, anno in cui una comunità di frati francescani si trasferì sul luogo per erigere una nuova chiesa. Oggi è ancora possibile visitare il bellissimo chiostro del monastero, realizzato nelle fattezze attuali tra il 1704 ed il 1709 sotto la direzione di Zuane Sartori e la sorveglianza di frate Cristoforo Apollonio: l'ambiente appare luminoso e semplice, con il bel colonnato a delimitarne il perimetro ed il pozzo al centro dello spazio. In un punto del corridoio è esposta l'enorme radice di un albero secolare nello spessore della quale è ricavata una seduta, più di un un sedile, un trono. Un anonimo portale dona accesso ad una piccola sala laterale nella quale sono conservati reperti storici ed artistici, porzioni di bassorilievi e frammenti di sculture, senza un ordine preciso e senza un disegno espositivo, per la maggior parte appoggiati semplicemente a terra. Il chiostro del Convento dei Frati Minoriti di San Francesco è stato restaurato recentemente nel 1997 e spesso è oggigiorno protagonista di eventi culturali musicali in virtù di pregevoli caratteristiche acustiche, considerate tra le migliori in edifici storici presenti sull'intero territorio sloveno.

Una stretta apertura sul fondo del chiostro conduce all'interno della Cerkev Svetega Frančiška, la chiesa conventuale, realizzata su progetto di Jacopo da Pola, consacrata nel 1318. A navata unica, custodisce cinque altari laterali ed un altare principale, oltre ad un prezioso pulpito ligneo datato XVI secolo. La disposizione degli spazi interni risale a lavori di ristrutturazione operati nel XVII secolo. L'organo è del 1897. L'elemento scultoreo di maggior pregio è costituito dalla cappella rinascimentale situata lungo il lato nord, risalente probabilmente al 1502 e composta da motivi tipici dell'arte longobarda, da alcuni studiosi attribuita allo scultore Bernardino da Bissone: inizialmente tale opera faceva parte del primitivo altare maggiore, il quale venne però demolito nel corso del XVIII secolo con il conseguente spostamento del complesso scultoreo in una nuova cappella laterale progettata da Giovanni Righetti nel 1887. Oggi le pareti della chiesa costituiscono una vera galleria di preziosi dipinti provenienti dal XVII secolo e dal XVIII secolo, sebbene l'opera pittorica di maggiore importanza, una pala d'altare a soggetto mariano del 1518 attribuita a Vittore Carpaccio, fu custodita qui fino al 1940 per poi venire trafugata dagli invasori nazifascisti ed essere quindi traslata in Italia, oggi è esposta a Padova. Nel tempio sono inoltre attualmente conservate 32 tombe, le cui lapidi sono incastonate all'interno della pavimentazione, molte delle quali non contrassegnate da nomi e date. Una tra queste detiene un significato particolare: al centro della navata della chiesa si trova infatti anche il sepolcro della famiglia Tartini, seppure al suo interno non vi siano le spoglie del celebre musicista che invece, come già detto, è sepolto a Padova. L'ultima delle sepolture all'interno della chiesa risale al 1882. In effetti, il cimitero della Cerkev Svetega Frančiška, anticamente collocato sull'odierno sagrato della chiesa, lo stesso spiazzo lastricato su piattaforma rialzata che abbiamo attraversato in precedenza per entrare nel chiostro, fu per secoli oggetto di disputa tra la popolazione di Pirano: si tramanda infatti che gli abitanti della città ritenessero un privilegio il fatto di essere tumulati, una volta passati a miglior vita, all'interno di questo camposanto. Tale costume costituì una vera e propria tradizione per la quale i piranesi, se non tutti sicuramente i più abbienti tra di essi, erano addirittura disposti a pagare monete sonanti. Ed infatti, per ricevere il nullaosta a collocare la propria tomba di fronte alla Cerkev Svetega Frančiška occorreva riconoscere al canonico della vicina Chiesa Parrocchiale di San Giorgio una tassa pecuniaria, vera e propria bustarella d'altri tempi, in cambio di una benedizione ed un giro di campane ad accompagnare il rito funebre. Nel corso del XIV secolo, questa poco spirituale e poco terrena usanza fu oggetto di una estesa e sentita disputa tra il clero ed il popolo di Pirano, esasperato dalla conversione di un diritto in un prezzolato privilegio, tanto che fu addirittura necessario l'intervento del doge veneziano Pietro Gadrenigo per sedare la sommossa: la controversia si concluse a sfavore del prelato e la tassa richiesta per la sepoltura venne abolita. 

Oggi del cimitero posto anticamente sul sagrato non rimane più traccia, ma a dominare questo spazio permane la facciata semplice e discreta della chiesa conventuale le cui linee richiamano lo stile barocco, frutto di ristrutturazioni operate nel corso del XVIII secolo e del XIX secolo sulla precedente costruzione in stile gotico. La torre campanaria, posizionata posteriormente a ridosso dell'abside, venne edificata nel XIII secolo e ristrutturata nel 1715, epoca in cui vennero eseguiti lavori di rinnovamento anche sul monastero: è alta 30m e ospita tre campane che non suonano mai insieme, dal momento che a causa di un errore di realizzazione la campana centrale è più piccola di mezza tonnellata rispetto a quanto previsto, con conseguente alterazione di tono rispetto alle due campane laterali.
 L'ultimo restauro che coinvolse il campanile è recentissimo e risale al 2017. I monaci francescani amministrano tuttora la chiesa e l'attiguo monastero, opera che sarebbe proseguita ininterrotta da circa sette secoli se non fosse per una parentesi di 42 anni, tra il 1954 ed il 1996, in cui il sito venne nazionalizzato dalle autorità governative socialiste jugoslave: in tale periodo, gli spazi del monastero vennero utilizzati come archivio, scuola e persino come sede di un ritiro per anziani. Abbandoniamo anche il Minoritski Samostan Svetega Frančiška e ci apprestiamo a terminare la nostra visita di Pirano. Ci riavviamo verso il parcheggio in cui abbiamo abbandonato l'automobile ad inizio giornata, proseguendo attraverso le strette vie anguste della città. A pochi passi di distanza incrociamo a lato del camminamento la Cerkev Marije Snežne, la Chiesa di Santa Maria della Neve: citata già in documenti storici del 1404, questa piccola chiesetta si tramanda venne costruita su commissione di una ricca dama piranese di nome Engaldruda de Vanto. Il portale sbarrato ci impedisce di ammirare, all'interno di questo spazio, il bell'altare barocco del XVII secolo ed i magnifici dipinti su legno che addobbano le pareti del presbiterio: furono scoperti solo recentemente nel 1969 sotto uno strato di intonaco che li occultava alla vista, hanno come soggetto l'Annunciazione e la Crocifissione, risalgono rispettivamente al 1430 ed al 1450 circa, e costituiscono l'unico esempio di arte gotica su legno presente in tutta l'Istria Slovena. Continuiamo la nostra salita diretti nuovamente verso il colle Mogoron, non senza fatica ne raggiungiamo la cima e dobbiamo pertanto abbandonare l'idea di salire sulla sommità delle mura come programmato ad inizio visita, le nostre gambe non assistono il nostro entusiasmo. La bellissima visita di Pirano si conclude al termine di una giornata magnifica, ad attenderci un ultimo colpo di scena: una multa da 80€ affissa al tergicristalli della nostra automobile, ammenda per aver mancato di pagare la tariffa del parcheggio ad ore. Nulla, tantomeno questo, può però rovinare il ricordo di una città che ci ha regalato storia, arte e spensieratezza.

"Pirano è fatta di sale", così recita un antico detto istriano. Il motivo è presto detto: il commercio del sale è stato tradizionalmente una delle attività produttive più importanti per la città istriana. Infatti, l'economia piranese fu per secoli strettamente legata alla produzione locale di sale ed alla sua esportazione, condotta ovviamente per mezzo di una flotta mercantile composta da piccole imbarcazioni di facile manovrabilità. Il prodotto qui realizzato, di finissima qualità e pregevole fattura, era rinomato ed apprezzato non solo nei territori limitrofi ma anche in modo più esteso in tutto il continente europeo. Del resto, il sale fu nel corso della storia oggetto di accese dispute ed addirittura di contese militari, il suo valore va pensato non solo in termini di utilità culinaria, ma anche per la capacità di conservazione degli alimenti in un'epoca in cui la tecnologia non aveva ancora fornito all'uomo frigoriferi ed impianti di refrigerazione artificiale, oltre che per le sue qualità chimiche nella produzione di merci strategiche, tra le quali per esempio la polvere da sparo. Ancora negli anni della II Guerra Mondiale, il commercio di sale tra Pirano ed i vicini territori friulani risultava particolarmente fiorente; oggi invece il settore è molto ridimensionato, pur conservando la tradizionale eccellenza del prodotto finale. L'area intorno a Pirano ospita tuttora diverse saline ancora attive, la maggiore delle quali è sicuramente quella di Sečovlje, (in italiano Sicciole). Questa località, appena 580 abitanti, è situata circa 9km a sud di Pirano, leggermente staccata rispetto alla costa: il centro abitato vero e proprio è veramente molto piccolo, una manciata di strade. Di dimensioni considerevoli, a confronto, sono invece le saline attigue, disposte a ridosso del villaggio direttamente ad affacciarsi sulla costa marittima. Il complesso che le accoglie costituisce oggi un parco protetto, il Krajinski Park Sečovljske Soline, istituito ufficialmente nel 2001. Questo sito ospita attualmente le saline più grandi di questa regione con 6,5km² di estensione. Inoltre, insieme a quelle di Strunjan (in italiano Strugnano), situate poco più a nord, sono le saline più settentrionali del Mar Mediterraneo, le ultime sopravvissute sulla costa adriatica orientale. Non da ultimo, questi luoghi costituiscono anche l'ambiente umido di maggiore estensione di tutta la Slovenia con ben 750 ettari. A posteriori, posso oggi dire senza ombra di dubbio che è impossibile affermare di aver visitato l'Istria Slovena senza aver fatto tappa nel Krajinski Park Sečovljske Soline, sia per il significato storico che questo sito detiene sia per l'impronta culturale, sociale e paesaggistica che conferisce all'intera zona: insieme al sale, nelle saline viene raccolta la memoria di questi posti e delle persone che li abitano. Di buona lena ci mettiamo così in viaggio verso Sicciole, pieni di curiosità ed entusiasmo che non saranno disattesi da ciò che scopriremo. L'intero complesso del Krajinski Park Sečovljske Soline si divide in due settori. Siamo diretti a quello più meridionale che corrisponde al nome di Fontanigge: per raggiungerlo occorre percorrere l'Istria Slovena per tutta la sua estensione verso sud; appena prima della dogana slovena, a destra si diparte una stretta strada sterrata, segnalata da un minuscolo cartello al bordo della via che indica la direzione verso l'ingresso del parco. Da qui il tragitto è veramente breve ed in capo a circa 600m si raggiunge l'area parcheggio che concede l'accesso a Fontanigge. All'ingresso, una bassa casupola funge da biglietteria: acquistiamo l'entrata al sito (7€ per gli adulti, gratuito per bambini sotto i 6 anni di età) ed iniziamo la nostra visita. Nel costo del biglietto è compresa la possibilità di prendere a nolo delle biciclette per muoversi più velocemente all'interno dell'area. Un'occasione irrinunciabile se si è accompagnati da bambini, sia per questione di comodità sia per concedere il giusto divertimento anche ai più piccoli. Da una stretta e polverosa rimessa situata poco oltre la biglietteria troviamo quello che fa per noi: due biciclette cigolanti da adulti, una con seggiolino, ed una solida bicicletta da bambino che forse avrà visto tempi migliori ma che ancora sa far sibilare il vento. Uniche note da osservare: le biciclette sono numerose, alcune in buono stato, altre malridotte; i seggiolini per i più piccoli sono disponibili solo per sedute posteriori, non ci sono sedute anteriori; le bicilette per bambini sono destinate a bimbi già in età scolare, dal momento che i sellini non sono abbassabili sotto una certa soglia e rimangono piuttosto alti (Amelia a quasi 6 anni arrivava a toccare per terra con i piedi da ferma solo con le punte); ottima anche la scelta dei caschi. In generale un'offerta davvero apprezzata e veramente indovinata.

In sella alle nostre bici ed accompagnati da alcuni amici triestini che ci hanno raggiunto per compiere la visita insieme a noi, ci involiamo sul sentieri sterrato costeggiando le saline: il fondo della via è regolare e per nulla pericoloso, pertanto possiamo lasciar sfrecciare Amelia liberamente davanti a noi, mentre Lidia rimane seduta sul proprio seggiolino dimostrando di apprezzare davvero il diversivo ciclistico. Sulla sinistra scorre silenzioso il fiume Dragonja accompagnando le nostre pedalate: questo breve corso fluviale origina nella regione istriana slovena della Savrinija e termina in capo a 28km di tragitto, dopo aver attraversato Sicciole, nelle acque del Mare Adriatico, dividendosi alla foce in prossimità del villaggio in tre diramazioni che delimitano grossomodo i confini delle saline stesse. Nonostante la sua ridotta estensione è sorprendentemente uno dei fiumi più lunghi dell'intera penisola istriana. Sulla destra del sentiero ecco estendersi le vasche per la raccolta del sale.

Lo scenario che ci troviamo ad attraversare è davvero fantastico, quasi surreale: oggi Fontanigge non è più utilizzato come sito produttivo ma costituisce solo un monumento alla storia di questi luoghi. Le vasche, non più sfruttate per ricavare sale, appaiono abbandonate ma conservano ancora nei profili la struttura un tempo preziosa per la funzione che svolgevano. La magia di questi luoghi è frutto di un sapiente rimodellamento condotto sul paesaggio dalla mano dell'uomo, unito ad un sentore di rinascita e vitalità alimentato da una Natura che gradualmente si riprende quello che è proprio. Qui infatti trova rifugio un complesso ed inimitabile ecosistema composto da diverse varietà di piante alofite, capaci di sopravvivere nonostante l'alto grado di salinità di questi terreni, tra di essi l'assenzio marino dal quale si estrae un apprezzato liquore locale, il limonio dai bei fiori colorati, ed arbusti che non 
saprei definire con un nome preciso ma dotati di una magnifica varietà di tonalità purpuree. A condividere questi spazi sono inoltre un considerevole numero di specie di uccelli, si stima più di 300, che presso le saline sostano per nidificare o semplicemente per transitare diretti chissà dove. Tale incredibile ricchezza naturalistica attira in questi luoghi un numero considerevole di visitatori, soprattutto appassionati di osservazione di specie aviarie: al nostro passaggio ne incontriamo alcuni, il binocolo al collo e le orecchie tese al verso degli uccelli, probabilmente molestati dal rumoroso passaggio della nostra comitiva con bambini al seguito. In realtà ci spiegheranno poco dopo che l'avvistamento di uccelli nelle saline è diventato sempre più difficoltoso da quando poco oltre il confine con il sito è stato inaugurato un piccolo aeroporto per voli privati: in effetti non è difficile accorgersi che a cadenza regolare e con considerevole frequenza alcuni monoplani turistici decollano riempiendo di rumore l'atmosfera, costoso divertimento sfruttato da chi desidera ottenere dall'alto fotografie panoramiche della zona, forse anche da paracadutisti amatoriali, di certo tutti accomunati da una scarsa capacità critica e dal poco rispetto verso i luoghi che li circondano con le creature che li abitano. Un vero peccato, una nota stonata rispetto al resto del contesto. Nonostante questa nota di molesta modernità, le saline mantengono ancora un carattere fatto di tradizione e fatica. Qui il sale veniva estratto secondo un metodo antico di 700 anni, prezioso patrimonio di pratica sapienza: l'acqua veniva convogliata dal mare nei campi saliferi, composti da vasche di evaporazione e da vasche di cristallizzazione, attraverso un sistema di canali e chiuse che ne consentiva la distribuzione nei bacini per caduta o per mezzo di pompe idrauliche, i cui primi prototipi a motore furono portati dagli austriaci durante il periodo di governo asburgico. A Fontanigge, tali ausili, chiamati con il termine machine, sfruttavano l'energia eolica applicata su grandi vele di tessuto per azionare il sistema di pompaggio.

I vari bacini venivano realizzati completamente a mano, lavorando il terreno per formare bordi e barriere. Con l'alta marea, l'acqua marina veniva veicolava all'interno dei bacini, quindi veniva mano a mano fatta defluire da una vasca all'altra, infine con la bassa marea veniva riconvogliata al mare. In questo tragitto compiuto dall'acqua marina, il sale, a seguito del processo di evaporazione della parte liquida, si depositava e cristallizzava sul fondo delle vasche. Come recita un detto locale: "Il sale è il mare che non ha potuto fare ritorno al cielo". E qui interveniva la magia. Infatti, i terreni di queste saline detengono tutt'oggi una caratteristica più unica che rara: la loro superficie è rivestita da uno strato biominerale chiamato petola, spesso appena pochi millimetri, che isola lo strato di sale formatosi nelle vasche dai fanghi che rivestono il suolo umido; ciò consente di evitare lavorazioni di purificazione e raffinazione del sale che quindi viene già raccolto con un alto grado di purezza. Questo particolare sedimento di argilla solidificata misto a sostanze minerali ed a microrganismi è riscontrabile solo nelle saline presenti a Sicciole ed a Strugnano, nessun'altro luogo al Mondo detiene caratteristiche simili. A contribuire in modo decisivo al deposito sul terreno della petola è il fiume Dragonja con i propri sedimenti attraversando le saline. Il lavoro dei salinai era anche quello di coltivare e conservare questo strato di petola sui terreni, opera svolta soprattutto nei mesi invernali insieme all'ordinaria manutenzione dei bacini e dei bordi delle saline: per questo chiunque abbia familiarità con la preziosa arte dei salinai conosce bene il proverbio secondo cui "Il sale si fa in inverno". Da qui è facile immaginare come il sale prodotto in queste saline, il Piranski Sol, sia ancora oggi considerato uno dei più pregiati a livello internazionale, e così era anche in passato quando questo sale veniva ricercato da corti imperiali e salotti nobiliari di tutto il continente europeo. Questo prodotto d'eccellenza istriana slovena veniva prodotto da abili ed infaticabili salinai, inesauribili sotto il Sole battente e pazienti nell'attendere il sale, per la maggior parte gente italiana impiegata per generazioni in questo tipo di attività. Fino agli anni '60 del XX secolo, quando una violenta tempesta ne danneggiò pesantemente la struttura rendendone difficile il recupero, abitarono l'area di Fontanigge prendendosi cura delle saline: in questa sezione del Krajinski Park Sečovljske Soline sopravvivono i ruderi di un centinaio di edifici utilizzati in passato come abitazioni e magazzini dai lavoratori. Solo quattro di queste costruzioni sono sopravvissute alla rovina e sono raggruppate all'estremità di Fontanigge al confine con il mare, lungo il Canal Giassi, costituendo nel loro insieme il Muzej Solinarstva, il Museo delle Saline. A seguito di un'accurata opera di restauro, in questi che furono in passato locali adibiti ad uso abitativo ed all'immagazzinamento del sale sono oggi raccolti reperti storici e fotografici inerenti l'antica arte dei salinai. E proprio il museo è la destinazione finale della nostra bellissima pedalata.

Il tragitto è davvero breve, alcune centinaia di metri, facilmente percorribile anche dai bambini, soprattutto se compiuto in biciletta. Il sentiero svolta a destra e si inoltra tra il reticolo dei campi saliferi. Abbandoniamo le biciclette nelle rastrelliere posizionate accanto al museo e ci avviciniamo all'ingresso del primo dei quattro edifici che compongono l'esposizione. Prima di entrare al suo interno, incontriamo sulla soglia una cordiale guida turistica che ci avvisa del sopraggiungere di lì a poco di un pullman con numerosi turisti: la circolazione all'interno delle saline è vietata alle automobili, preclusa da una sbarra metallica posizionata all'ingresso accanto alla biglietteria, ma ai bus turistici l'accesso non è impedito, ed oserei dire purtroppo. E' sempre la simpatica guida che ci segnala polemicamente la presenza del piccolo aeroporto privato accanto alle saline. Non perdiamo tempo e ci immergiamo subito nel museo prima di essere raggiunti dalla folla. Nel primo edificio troviamo subito al piano terra l'ampio spazio di un antico magazzino destinato allo stoccaggio del sale. Alle pareti oggi sono esposti alcuni pannelli informativi che illustrano nome e funzione degli attrezzi comunemente usati dai salinai che qui lavoravano: tra di essi costituiscono un simbolo universale il gavero, vale a dire un'antica pala per raschiare il sale, ed i taperini, cioè zoccoli di legno usati per muoversi sulla superficie di sale dei bacini di cristallizzazione.

Nella stanza attigua, sempre al piano terra, un piccolo mucchio di sale offre una bella opportunità di gioco per i bambini che la scambiano per neve. Al piano superiore, percorsa una breve scalinata, ecco l'area abitativa: un ampio salone con il focolare utilizzato anche per cucinare; in uno spazio separato le camere da letto, modeste e dignitose. Ad una delle pareti è appesa una rosa dei venti, uno strumento utilizzato dai salinai per prevedere il grado di umidità atmosferica, dato fondamentale per gestire al meglio le saline: il metodo prevedeva di inserire al centro di una piattaforma contrassegnata il frutto di una pianta di erodio, sensibile alle variazioni di umidità e quindi in grado di muoversi in base ad esse.

Superato uno stretto ponticello si giunge ad un secondo edificio al cui interno si trovano esposti elementi fotografici inerenti la storia delle saline oltre ad alcuni giochi per i bambini, ben congegnati e davvero graditi per coinvolgere anche i più piccoli nella visita. Oltre questa seconda struttura il passo è breve per arrivare ad un terzo edificio al cui piano terra sono esposti pannelli informativi relativi al passato di questi luoghi ed un desco con disegni e colori riservati anche qui ai bambini. Al primo piano invece si trova un'interessante esposizione fotografica raffigurante scatti di vita e di lavoro nelle saline di una delle ultime famiglie che le hanno abitate.

Usciamo nuovamente all'esterno: siamo circondati dalle saline e dai suoi bacini. Accanto agli edifici il colpo d'occhio su un campo salinifero restaurato è davvero meraviglioso, con l'azzurro del cielo che si rispecchia nelle acque immobili dei bacini. Visitare questo spazio museale articolato in più punti è davvero piacevole ed interessante. Il progetto di realizzazione del Museo delle Saline risale agli anni '70 del XX secolo e porta la firma intellettuale di Miroslav Pahor, già direttore del Pomorski Muzej Sergej Mašera di Pirano. Come sito di prima apertura fu considerato Strugnano, ma quando il progetto passò tra le mani dell'etnologa slovena Zora Žagar, seguace di Pahor e precedentemente curatrice presso la stessa istituzione piranese, venne eletta Sicciole come luogo più adatto all'apertura di un museo dedicato alle saline: ciò fu deciso in virtù del preziosissimo patrimonio storico ed edilizio conservatosi nella sezione di Fontanigge in unione ad una facile accessibilità sia via mare sia via terra. Zora Žagar, scomparsa prematuramente nel 2007 all'età di 57 anni, fu l'anima del progetto, la sua opera nei processi di realizzazione del Museo delle Saline iniziò nel 1983 e fu fondamentale, in particolare per quanto concerne la ricerca etnologica e topografica delle saline di SiccioleIl primo edificio venne restaurato nel 1989, il campo salinifero attiguo fu rivitalizzato nel 1990, nel 1994 si ridiede vita al secondo degli edifici del museo, nel 2002 venne restaurata la terza costruzione e venne posizionato il breve ponte di legno che mette in comunicazione i due argini del Canal Giassi, infine nel 2011 venne sistemato il quarto ed ultimo edificio museale. Oggi il Muzej Solinarstva è tutelato come monumento culturale d'importanza nazionale.

Terminata la nostra visita al museo torniamo sui nostri passi fino al punto in cui avevamo abbandonato le biciclette, attraversando la comitiva di turisti asiatici che già affolla il primo caseggiato del museo. L'impiegato alla biglietteria ci aveva avvisato prima di iniziare l'itinerario attraverso le saline che non ci era consentito raggiungere la seconda sezione delle saline da Fontanigge direttamente in bicicletta, così rifacciamo il percorso a ritroso fino all'ingresso del sito. Depositiamo le bicilette nella rimessa e riprendiamo le automobili. Ci lasciamo alle spalle Fontanigge per dirigerci verso la porzione del Krajinski Park Sečovljske Soline ancora attiva dal punto di vista produttivo, situata poco più a nord rispetto a quella appena attraversata. Dopo un breve tragitto in automobile raggiungiamo così Lera e qui già dal parcheggio capiamo che il flusso di turisti è molto più considerevole. Ancora oggi in questo sito si producono circa 2.500 tonnellate di sale all'anno, o per meglio dire nel periodo della stagione di raccolta che va da giugno sino alla fine dell'estate. I metodi impiegati sono ancora quelli tradizionali vecchi di sette secoli e basati sulla coltivazione della petola che consente di ottenere una qualità di sale sopraffino. Ci avviciniamo al cancello di ingresso dopo aver parcheggiato le automobili: di fronte a noi si sviluppa una distesa senza fine di vasche e bacini, tutti in attività e saturi della feconda acqua marina che lascia in dote il sale. Un salinaio esperto gestisce da solo in media 25 vasche, raccogliendo circa tre tonnellate di sale al giorno, esercitando una manualità fatta di gesti arcaici e di strumenti antichi. Oltre al sito produttivo, a Lera è collocato anche un centro congressi per conferenze ed eventi a tema ma soprattutto uno spaccio per la rivendita del sale ed un centro termale: questo spiega la grande affluenza a questo sito in confronto alla vicina Fontanigge. Il Sole di mezzogiorno a picco e battente ci scoraggia dal visitare anche questa sezione del Krajinski Park Sečovljske Soline, pertanto non mi sento nella posizione di poter mettere a confronto le due distinte porzioni del parco: a pelle mi sento però di consigliare tra le due di visitare Fontanigge, per noi una vera e preziosa scoperta. Un ultimo consiglio: se vi dovete fermare nei paraggi per il pranzo, vivamente suggerito il ristorante Gostilna Mama Marička. Ottimo pesce, atmosfera gradevole...soprattutto se condivisa con ottimi amici.

Isola d'Istria (in sloveno Izola) è una cittadina di circa 9.000 abitanti situata 9km ad est di Pirano ed affacciata sul Mare Adriatico: se Pirano è un diamante grezzo, Isola è un piccolo brillante altrettanto lucente. Nonostante fosse abitata già in età romana grazie alla presenza del porto di Haliaetum poco a sud dell'attuale centro storico, la cittadina vera e propria venne fondata da emigrati aquileiesi nel VII secolo d.C. L'influsso veneziano fu importante per lo sviluppo e l'identità di questo luogo non meno che per altri luoghi vicini, ed infatti già dal IX secolo d.C. l'autorità di Venezia cominciò a ricoprire con la propria lunghissima ombra anche l'area intorno ad Isola, nonostante la cittadina non diverrà parte del territorio veneziano che nel 1267. Mantenendosi comunque autonoma dal capoluogo veneto, la località istriana conobbe in questo periodo un fiorente sviluppo economico, legato soprattutto al commercio marittimo ed allo sviluppo del locale porto. Forse a causa di tale potere commerciale e marittimo, forse invece per una sorta di idiosincrasia che spesso colpisce città cosi prossime, in questi anni divenne forte la rivalità con la vicina Pirano. E non deve essere stata cosa da poco se si pensa che le stesse autorità veneziane arrivarono addirittura a promulgare alcuni editti atti a limitare il più possibile i contatti tra le due città, tra di essi il divieto assoluto di portare con sè armi negli incontri diplomatici che vedevano coinvolti i loro emissari. Tale acerrima rivalità attraversò i secoli divenendo proverbiale predisposizione, fino ad arrivare ai giorni nostri sotto le sembianze di un sentito campanilismo smorzato dal tempo nella sua acuità. Nonostante tale innata ostilità, sono diversi gli aspetti della storia che hanno visto accomunate le due cittadine istriane, a cominciare dalla forte connotazione veneziana che caratterizza entrambe le località e che ancora oggi ne definisce i rispettivi aspetti. Da qui è facile continuare con il periodo condiviso di dominazione asburgica che vide Isola entrare tra i territori austriaci nel 1797: la cosa non venne presa di buon grado dalla popolazione, molto legata alla tradizione veneziana, che insorse contro le autorità locali uccidendo addirittura il podestà, reo di aver consegnato senza colpo ferire la città all''invasore straniero. Sotto governo austriaco, Isola conobbe un periodo di decadenza economica a seguito dell'ascesa di Trieste come porto principale della regione, altro destino spartito con la vicina Pirano. Infine, anche Isola come la vicina rivale conobbe la falce della peste che qui mietè vittime con una violenta epidemia nel corso del XVI secolo. Il dominio austriaco si protrasse fino alla fine del XIX secolo, salvo una breve parentesi storica compresa tra il 1805 ed il 1805 in cui la regione divenne temporaneamente una provincia francese. Questo breve periodo di governo transalpino vide però un evento fondamentale riferito all'identità di questa piccola località, protagonista di una metamorfosi a dir poco peculiare: furono infatti proprio i francesi a demolire le mura difensive di cui la città era fornita ed a riutilizzarne i detriti per colmare il breve canale marittimo che fino ad allora separava Isola dalla terraferma. Il centro abitato, nato e cresciuto su uno piccolo isolotto poco discosto dal continente (da qui il nome stesso della località), diveniva così terra costiera. Alla caduta del regime napoleonico, Isola ritornò nuovamente nel 1813 sotto il vessillo austriaco: è questo l'inizio di un periodo di tranquillità e sviluppo favorito soprattutto dalla scoperta nel 1820 di locali fonti termali che attirarono da tutto il continenti considerevoli flussi turistici. Il termine di questa fiorente e serena parentesi storica coincide con i due conflitti bellici mondiali, in occasione dei quali Isola venne prima assegnata ai territori italiani e poi occupata dalle forze militari naziste. Nel 1945 finalmente la città venne liberata da un'unità navale jugoslava che pose così fine al breve periodo di sottomissione tedesca iniziato due anni prima.

Oggi Isola è una cittadina vivace e piacevole, fedele alla propria storia e non ancora alterata nel carattere dai flussi del grande turismo di massa. Un luogo da scoprire, forse a tratti grezzo e dalla bellezza ancora indomita, ma proprio per questo ancor più prezioso e delicato. Un vero patrimonio da preservare e fatto di volti, suoni, odori, colori, prima ancora che di monumenti ed architetture. Un altro porto di pescatori, questa volta però ancora fermi sui propri moli come riparati in un universo non toccato e contaminato da ciò che si agita al di fuori di esso. Lanciati alla scoperta di questa piccola originale realtà, arriviamo ad Isola in una mattina soleggiata e subito, appena varcata la soglia, ne veniamo sorpresi: al principio della via litoranea che conduce verso il centro abitato, ecco rinchiusa in una teca di vetro la Lokomotiva P3, un locomotore ferroviario a vapore prodotto nel 1927 presso la località austriaca di Linz e messa in mostra ad Isola dal 2002. Questo modello di locomotiva venne progettato appositamente per essere utilizzato sul percorso di rotaie a scartamento ridotto esteso tra Trieste e la città croata di Parenzo, compito per il quale la locomotiva esposta comunque non fu mai impiegata. La cosiddetta Parenzana era una linea ferroviaria lunga appena 123km ma che deteneva un'importanza particolare per lo spostamento delle merci e delle persone dall'Italia verso la penisola istriana, all'epoca della sua realizzazione ancora un territorio difficilmente raggiungibile con i comuni mezzi di trasporto. La sua realizzazione venne intrapresa a partire dal 1901 e divenne la linea a scartamento ridotto di tipo bosniaco (vale a dire con distanza tra le rotaie di 760mm) più lunga mai costruita dall'Impero Austro-Ungarico. La vita di questa tratta ferroviaria fu però molto breve: dopo essere passata sotto amministrazione italiana nel 1921, venne fortemente colpita dalla crisi economica del 1929, la quale contrasse molto una circolazione di merci già di per sè non certo colossale, per chiudere definitivamente i battenti nel 1935. Della sua esistenza rimangono solo due locomotive modello P3, una conservata presso Milano, l'altra proprio ad Isola. Oggi il percorso della Parenzana è stato riqualificato a pista ciclabile. Superato questo gigante d'acciaio lungo 8,7m e del peso di quasi 29 tonnellate, ci avviamo verso il cuore della cittadina.

Abbandoniamo l'automobile a breve distanza dal centro storico e ci inoltriamo a piedi ad esplorarlo. Il primo luogo che incrociamo è Trg Padlih za Svobodo, altrimenti detta Piazza Caduti per la Libertà: è questo un raccolto spiazzo dominato dal verde di alti alberi e da un obelisco coronato sulla cima dalla figura metallica di una stella rossa a cinque punte. Si tratta di un monumento commemorativo eretto nel 1946 e riportante i nomi di 17 persone cadute per mano della crudele tirannia nazifascista che occupò questi luoghi durante la II Guerra Mondiale. Proseguiamo oltre l'ambiente calmo e silenzioso di questa piazza e compiuto un breve tragitto attraverso strette stradine arriviamo in Trg Etbina Kristana, un largo viale che ci accoglie con il vociante andirivieni di un mercato ortofrutticolo posizionato nella sua parte centrale, vivace antitesi della placida analoga vicina appena superata. Il luogo è intitolato al nome di Etbin Kristan, politico e letterato sloveno vissuto a cavallo tra il XIX secolo ed il XX secolo, ricordato soprattutto per la sua attività di giornalismo, anche sportivo in particolare ciclistico, e per la militanza politica di stampo socialdemocratico ispirata agli ideali di identità nazionale intesa come uniformità linguistica e culturale. Poco più in là, sullo sfondo della di Trg Etbina Kristana si intravede quella che è la seconda piazza più importante di Isola, Trg Republike, ed a delimitarla c'è il Mestna Palača, il Palazzo Municipale, realizzato nel 1253: qui in passato venivano tenute le aste pubbliche presiedute dal podestà per la vendita delle merci importate in città.

Prima di raggiungerla, una svolta a destra ci introduce in Ljubljanska Ulica, un'angusta via pedonale in cui a fare da padrona è l'arte: sono diversi infatti gli studi artistici che si aprono su di essa, alcuni dedicati alla pittura, altri alla scultura, tutti contraddistinti dai tratti moderni e contemporanei dei lavori esposti. Attraversare questa via è come osservare opere d'arte attraverso vetrine di una galleria a cielo aperto. Un luogo curioso, pieno di colori e dalle forme molteplici. A metà strada una piccola caffetteria espone alcuni tavolini ai bordi del camminamento, aumentando la poetica sensazione di essere immersi in una tela dai tratti variopinti. Poco più in là, la Ljubljanska Ulica si apre sulla Manziolijev Trg, vale a dire Piazza Manzioli, la piazza principale della città. A discapito di questo primato, il luogo detiene uno spazio stretto e corto, raccolto in una sorta di riservata intimità, contenuto e delimitato dagli edifici che lo circondano. A donare l'appellativo alla piazza è la figura di Tommaso Manzioli, podestà di Isola negli anni della seconda metà del XV secolo. A portare il suo nome è anche la Manziolijeva Hiša, un elegante palazzo in stile gotico veneziano affacciato sulla piazza omonima: si tratta di uno degli edifici storici più antichi della cittadina, realizzato intorno al 1470 per essere residenza della famiglia Manzioli. Attualmente il palazzo ospita, oltre ad una vivace enoteca al pianterreno, anche la sede istituzionale della Comunità Autogestita della Nazionalità Italiana, associazione culturale e sociale di bandiera italiana attiva a livello locale. Isola fu infatti sempre località abitata quasi esclusivamente da italiani fino all'esodo istriano susseguente all'assegnazione della regione alla Jugoslavia che tra il 1945 ed il 1956 portò complessivamente all'emigrazione di circa 300.000 persone verso l'Italia, destino spartito da Isola con la vicina Pirano. L'ufficiale annessione dell'Istria Slovena ai territori jugoslavi avverrà più avanti nel 1975, anno di definizione diplomatica del confine territoriale tra Italia e Jugoslavia. La presenza italiana ad Isola fu però un fattore determinante nella formazione dell'identità di questa cittadina come di tutto il territorio istriano. Tra i personaggi celebri nativi di Isola c'è infatti anche l'italiano Nino Benvenuti, esponente assoluto della boxe italiana, campione olimpico della disciplina nel 1960, campione mondiale della categoria pesi medi-leggeri dal 1965 al 1966, campione mondiale della categoria pesi medi dal 1967 al 1970.

Tornando al nostro viaggio, accanto alla Manziolijeva Hiša sorge un'altra istituzione architettonica di Isola: il Palača Lovisato rimarca nei tratti e nell'aspetto la struttura dell'edificio attiguo, ed infatti venne realizzato sempre su commissione della famiglia Manzioli. Ad abitarlo ed a donargli il nome fu però Domenico Lovisato, che vi nacque nel 1842. Di umili origini, il padre era un modesto calzolaio, costui diverrà quotatissimo paleontologo ed apprezzato geologo, celebre per i suoi studi condotti nella Terra del Fuoco che lo portarono alla scoperta di nuove catene montuose in una zona del Mondo fino ad allora solo parzialmente esplorata. Di carattere a dir poco impetuoso, fu in gioventù un convinto irredentista sostenitore del nazionalismo italiano contro le forze di occupazione asburgiche, tanto da venire arrestato dalle autorità austriache ben otto volte a causa delle proprie manifestazioni d'opposizione politica. Il canovaccio non mutò molto con il trascorrere degli anni ed in occasione dello scoppio della I Guerra Mondiale Lovisato chiese l'arruolamento volontario tra le truppe italiane: all'epoca gli anni all'anagrafe erano ben 73. L'aspetto attuale del Palača Lovisato risale al XVI secolo ed è frutto di lavori di restauro condotti nel 2003 che coinvolsero anche la vicina Manziolijeva Hiša.

Sul lato opposto, sorge a delimitare l'area della piazza la Cerkev Svete Marije Alietske, la Chiesa di Santa Maria d'Alieto: si tratta del luogo di culto religioso più antico della città, le sue origini risalgono all'XI secolo. Il suo aspetto attuale, scarno ed essenziale, recuperato da lavori di restauro condotti nel 2008, ricalca i canoni dello stile barocco ed è conseguenza di ristrutturazioni condotte nel 1884 sulla precedente struttura romanica. Il valore di questo edificio non si ritrova però nel suo patrimonio artistico, bensì è insito nella sua conformazione, l'unica con pianta a moduli ottagonali e con soffitto a volta presente in tutta l'Istria Slovena. L'alto campanile, alto 25m e disposto sul retro dell'edificio, affacciato proprio sulla Manziolijev Trg, venne costruito nel 1521. Il volume della Cerkev Svete Marije Alietske occupa lo spazio quasi noncurante degli edifici che la circondano, pienamente e senza lasciare avanzi, quasi aggredendo e stringendo la piazza verso il suo limite.

Dalla parte opposta ecco un altro luogo significativo della città, il Luka Izola, il porto, ancora una volta cuore ed anima di una comunità il cui forte legame con il mare attraversa i secoli rimanendo immutato nel significato e nella tradizione, il fulcro sopra il quale si muovono tutte le leve su cui si fonda la città. Ad Isola ancora oggi l'attività produttiva più importante rimane la pesca, ed infatti qui sorgono attualmente ben quattro stabilimenti industriali per la produzione di sardine in scatola. Al commercio ittico si affianca l'improbabile produzione di merletti, antica arte che ha poco da spartire con i pescatori ma che qui custodisce tradizioni antichissime. Un poco diga ed un poco ponte, la Chiesa di Santa Maria d'Alieto allo stesso tempo separa e crea continuità tra la piazza e la piccola area portuale in cui ondeggiano pacificamente ormeggiate corte imbarcazioni e minute barchette. Anche qui come a Pirano, l'ambiente tranquillo ed a dimensione d'uomo contribuisce a comporre un paesaggio che sembra tratto da un dipinto ad olio realista. Attraversiamo lo stretto corridoio di Manziolijev Trg ed all'estremità opposta incrociamo la Gostilna Perla, menzione d'onore per questo ristorante: piatti di pesce fritto gustosi e personale gentilissimo. Da qui il passo è breve ed in capo ad una corta passeggiata sbuchiamo infine su Veliki Trg, una bella via litoranea bordata di alti alberi, principalmente pini marittimi, che si allontana dal centro abitato verso l'estremità del promontorio che ospita Isola: qui si concentra il grosso della vita sociale della cittadina, fatta di persone a passeggio e di bagnanti che cercano frescura nelle acque marittime oppure intenti a cogliere il tepore solare distesi sulla stretta striscia ghiaiosa posizionata a lato del viale.

L'apice di quest'area vitale e movimentata è il Petelinji Rt, il punto più estremo dell'area urbana di Isola, l'ultima propaggine di terra prima che il mare si prenda la scena: qui si trova il Mestna Plaža Svetilnik Izola, un piccolo spiazzo con un spiaggia ghiaiosa fornita di facile accesso al mare, sedute lignee, corrimano metallici lungo la battigia ed una corta passerella di legno equipaggiata di scaletta per la discesa in acqua. A lato della spiaggia si estende un corto prato sopra il quale si posa la struttura di una bassa luce di segnalazione costiera, impropriamente chiamata faro dagli abitanti della città, abitudine che non trova giustificazione nelle ridotte dimensioni dell'infrastruttura ma che giustifica il nome assegnato al sito stesso (svetilnik in sloveno significa "faro"). L'immensità del Mare Adriatico fronteggia lo spiazzo e ciò che lo circonda. Nella parte rivolta verso l'entroterra trova invece alloggio uno stabilimento balneare che offre un servizio di noleggio lettini ed ombrelloni, oltre ad un bar ed un parco giochi per bambini comprensivo anche di tappeti elastici che non ci lasciamo ovviamente sfuggire di testare. Il luogo appare gradevole e lontano dalle dinamiche di folla tipiche dei posti estremamente turistici, l'impressione è piuttosto quella di essere circondati da abitanti della città in cerca di riposo e svago. E questo contribuisce a renderlo più autentico e sincero.

Confusi tra le persone del luogo intente a godersi la pace di questo ambiente, sfruttiamo anche noi qualche attimo di quiete prima di rimetterci in cammino, un'occasione anche per Amelia di levarsi scarpe e calzini e bagnare i piedi nell'acqua del mare. Ripresa la marcia ci inoltriamo nel Park ob Svetilinku, un piccolo boschetto di folti cespugli e pini che si allontana dalla spiaggia addentrandosi nuovamente verso lo spazio urbano. Il percorso in leggera pendenza culmina al principio di una scalinata in pietra, un poco sconnessa a tratti, in cima alla quale ci si viene a trovare sullo spiazzo che ospita la Župnijska Cerkev Svetega Mavra, la Chiesa Parrocchiale di San Mauro, il principale luogo di culto religioso di Isola. Edificata a partire dal 1547 e consacrata nel 1553, questa chiesa sostituì un tempio di dimensioni più piccole già presente sul sito nel 1356: a progettare l'edificio ed a dirigerne la realizzazione fu l'architetto veneziano Leonardo Mazzafuogo insieme all'assistente capodistriano Francesco da Cologna. L'aspetto attuale della chiesa è frutto di successive ristrutturazioni condotte nell'arco dei secoli: il risultato che arriva a noi oggi rimane comunque fedele ai canoni del principio, rispettando l'originale stile rinascimentale con l'aggiunta di alcuni elementi in stile barocco. Tale autenticità stilistica costituisce un valore aggiunto per questo edificio, sopravvissuto al trascorrere del tempo come una vecchia fotografia giunta da secoli di distanza. L'ultima opera di restauro risale al 1980 ed impiegò due anni per essere portata a termine. La Chiesa Parrocchiale di San Mauro si distingue già dalla facciata, caratterizzata da una decorazione cromatica a strisce orizzontali sulle tonalità del rosa e dell'arancione.

Gli interni in stile barocco si declinano su tre navate, dieci altari e numerosi notevoli dipinti, i più antichi risalenti al XV secolo, tra i quali si segnala un'opera con soggetto la Deposizione dalla Croce realizzata dall'artista veneto Palma il Giovane vissuto a cavallo tra il XVI ed il XVII secolo. Altro elemento pittorico degno di menzione è un ritratto di San Sebastiano composto da Irene di Spilimbergo, artista vissuta nel XVI secolo: figlia del conte Adriano di Spilimbergo, costei venne estromessa insieme alle sorelle dal patrimonio familiare a seguito della morte del padre e delle seconde nozze della madre Giulia da Ponte. Irene venne quindi accolta a Venezia dallo zio materno, Giovanni Paolo da Ponte, e qui iniziò un'istruzione artistica che la educò alla musica, alla danza, alla letteratura e soprattutto alla pittura, disciplina verso la quale la fanciulla dimostrò subito un vivo interesse ed un grande talento. Ciò la portò ad abbandonare le arti femminili, ricamo e merletti compresi, ed a frequentale la bottega di Tiziano Vecellio, capostipite dell'arte veneziana e parente di quello stesso Giovanni Paolo da Ponte che era anfitrione di Irene di Spilimbergo. La fanciulla acquisì una sopraffina maestria nel tratto e nell'uso del colore, frutto degli insegnamenti del maestro e di una predisposizione naturale che la resero ben presto un'apprezzata e rispettata artista. Fu lo stesso Tiziano a consigliare ad Irene di Spilimbergo di trarre ispirazione dai ritratti di Giovanni Bellini, la cui abilità nel tratteggiare le espressioni dei volti era all'epoca indiscussa. E proprio le espressioni impresse nei visi dei propri ritratti furono un segno distintivo dell'arte di Irene di Spilimbergo, come nel San Sebastiano custodito all'interno della Chiesa Parrocchiale di San Mauro di Isola. La stessa vita di questa ardita artista, libera ed anticonformista in un'epoca di divieti e possibilità precluse al gentil sesso, è un'opera d'arte: fu anche letterata e poetessa ma i suoi scritti andarono completamente perduti negli anni ed oggi non ne rimane traccia. Morì all'età di appena diciannove anni a seguito di una violenta ed improvvisa malattia, privando i posteri del patrimonio artistico che avrebbe potuto produrre in un'esistenza più duratura. Tornando alla chiesa, l'altare principale è dominato da un ritratto di San Mauro, opera di stampo veneziano. A San Mauro è intitolato anche il nome della chiesa stessa: fu uno dei discepoli più vicini a San Benedetto da Norcia, al quale succedette nella carica di abate presso il monastero benedettino di Subiaco. Della sua vita non si hanno molte notizie, ma si tramandano episodi miracolosi che lo videro protagonista, come quando salvò un giovane condiscepolo di nome Placido dall'annegamento camminando sulle acque del lago nel quale il malcapitato era caduto accidentalmente. San Mauro è anche patrono di Isola: si tramanda che il santo intervenne nel 1380 in soccorso degli abitanti della città che avevano cercato riparo all'interno della chiesa dall'imminente aggressione delle milizie genovesi, giunte nei pressi della costa via mare. A seguito delle preghiere, una fitta nebbia calò sul tratto di mare antistante la città, confondendo la flotta genovese che nel tentativo di raggiungere la terraferma seguì il volo di una colomba bianca. La colomba, partita proprio dal tetto della chiesa in cui erano rifugiati gli abitanti, trasse in inganno il nemico e condusse le navi genovesi in mare aperto prima di fare ritorno al tempio con un ramo di ulivo stretto nel becco. Gli abitanti di Isola furono quindi salvi e la vicenda venne attribuita alla miracolosa intercessione di San Mauro. Tale episodio è indelebilmente impresso nella storia della città, tanto da comparire anche nello stemma cittadino in cui compare proprio una colomba bianca con un ramo di ulivo serrato nel becco. Prima di abbandonare l'interno della Chiesa Parrocchiale di San Mauro, indugiamo un istante ad ammirarne dal fondo la bella navata centrale e l'organo collocato su un soppalco sopra il portale principale, opera di Gaetano Callido del 1796.

All'esterno siamo nuovamente sul piazzale che ospita la chiesa, Trg Svetega Mavra, occupato per gran parte da un'area parcheggio destinata alle automobili: siamo comunque su una bassa collina che costituisce anche il punto più alto della città. Da qui è facile accorgersi che forse la più particolare peculiarità della Župnijska Cerkev Svetega Mavra risiede nel suo campanile, separato rispetto al corpo principale dell'edificio e stranamente collocato a ridosso della facciata, proprio di fronte ad essa, quasi a volerne oscurare l'immagine tentando di prendersi prepotentemente tutta la scena. In una manciata di passi, dal portale della chiesa si raggiunge l'ingresso della torre campanaria, alta 30m e realizzata in stile gotico nel 1585, restaurata l'ultima volta nel 1889. I profili ricalcano molto quelli del Campanile di San Marco di Venezia, ulteriore richiamo al legame che la città mantenne con il capoluogo veneto per circa 500 anni. L'accesso al campanile è libero e senza alcun costo: percorrendo i 99 gradini della ripida scala che sale vorticosamente verso la cima, è possibile arrivare al culmine della struttura per godere di un magnifico paesaggio su tutta Isola, in compagnia delle tre campane che popolano la sommità della torre sospese sopra le nostre teste. Da qui Isola appare come un prato di tegole rosse.

Atterrati nuovamente alla base del campanile, abbandoniamo Trg Svetega Mavra per addentrarci tra le strette vie del centro storico di Isola, fatto di vicoli ed angoli a comporre una specie di labirinto urbano in cui è sicuramente più facile muoversi a piedi piuttosto che in automobile. Passeggiare su queste stradine, speso dal fondo lastricato alquanto sconnesso, e perdersi nel loro intricato tracciato è un'esperienza da non mancare se si vuole visitare fino in fondo la città, un'altra caratteristica che accomuna Isola alla vicina Pirano. Poi, quasi per caso, coperti appena 150m, sbuchiamo su uno stretto passaggio che digrada più in basso su corti gradini e piccole piattaforme.

Qui, a lato della via, ecco stagliarsi la figura del Besenghijeva Palača, vale a dire Palazzo Besenghi degli Ugi. Si tratta di uno degli edifici storici più importanti di Isola, costruito tra il 1775 ed il 1781 su progetto di Filippo Dongetti e commissionato dalla famiglia Besenghi, da cui il nome dell'edificio stesso. E' considerato ad oggi il più prezioso esempio di architettura tardo-barocca di tutta la costa istriana slovena. La struttura si articola su tre piani ed è contraddistinta da elaborate ed eleganti inferiate in ferro battuto finemente decorate e posizionate sulla fila di finestre al piano terra. Da notare anche gli ornamenti a stucchi che impreziosiscono le cornici delle fenestrature su tutti i livelli. Alla base di in angolo si intravede la scultura di un piccolo leone, opera risalente al XIII secolo, incastonata nello spessore della parete come a volerne sostenere il peso. Oggi il Palazzo Besenghi degli Ughi ospita la sede di una scuola musicale, ma per secoli fu residenza della famiglia che ne commissionò la costruzione: tra gli esponenti più illustri del casato c'è Pasquale Giuseppe Besenghi degli Ughi, letterato e patriota vissuto a cavallo tra il XVIII secolo ed il XIX secolo. Di lui si ricorda l'indole romantica e lo spirito liberale, caratteristiche che sembrano contrastare con la scelta di seguire fin dalla gioventù gli studi giurisprudenziale, finalizzati poi al trasferimento presso Trieste dove svolse incarichi burocratici. La sua produzione letteraria produsse saggi a tema politico e componimenti poetici tutti accomunati da uno stile passionale e critico. Tale temperamento provocò anche il sequestro degli scritti e la censura degli stessi durante un periodo di permanenza presso Venezia: la causa era individuata in una serie di allusioni ed accuse personali che lo scrittore rivolse ad alcuni esponenti della vita pubblica veneziana, riferimenti evidentemente poco apprezzati dai diretti interessati. Morì a Trieste nel 1849, all'età di 52 anni, malato di colera. Ci lasciamo alle spalle anche il Besenghijeva Palača e la sua posizione appartata, quasi nascosta tra i vicoli del centro storico: per chi volesse trovarlo, lo si incontra in Gregorčičeva Ulica al civico 79. Qui si conclude la nostra visita di Isola d'Istria: un luogo piccolo e modesto, ma dal carattere grezzo e dal fascino autentico.

La via che conduce al piccolo villaggio di Cristoglie corre attraverso un paesaggio composto da basse colline boscose: è la prima volta nel corso del nostro viaggio che incontriamo l'entroterra istriano dopo i primi giorni spesi a conoscere il litorale. Superato il primo tratto di percorso autostradale, ci inoltriamo in uno scenario verde e rigoglioso, la sfumatura più selvaggia di questa meravigliosa multiforme regione: dai porti di pescatori raggiungiamo ora le montagne ed i misteri che sempre nascondono. Ci troviamo nella Dolina Reke Rižana, una valle fluviale un tempo conosciuta per le numerose segherie e per i 34 mulini che sorgevano lungo le sponde del fiume Rižana, l'artefice con il proprio decorso della valle stessaNon impieghiamo che una mezz'ora, appena una trentina di chilometri, per raggiungere la nostra meta lungo strade tranquille e svincoli poco trafficati: ad affiancarci è proprio il fiume, lungo complessivamente appena 14km, il quale ci accompagna fino alla propria sorgente posta nelle profondità carsiche del villaggio verso cui siamo diretti. Dopo un ultimo saliscendi su bassi rilievi, penetriamo infine nell'abitato di Cristoglie (Hrastovlje in sloveno), tranquillo e sornione, a tratti forse anche un po' spettrale: strade deserte, silenzio incorrotto, una manciata di bassi caseggiati alle finestre dei quali ti aspetti da un momento all'altro di intravedere qualcuno appartato a spiarti. A fornire un senso di vissuto alla località stanno invece i vigneti posti a tratti ai lati della via: la produzione di vino è una delle attività produttive principali di questa zona.

Cristoglie è un villaggio di appena 150 abitanti, uno di quei luoghi che non si fatica ad attraversare da un'estremo all'altro passeggiando a piedi, e peraltro senza grossa fatica. Eppure, a discapito delle sue piccole dimensioni, il tesoro che è capace di custodire è grande e di notevole importanza, quasi come una preziosissima moneta antica nascosta all'interno del più minuscolo dei salvadanai. All'estremità meridionale del centro abitato, sulla cima di una bassa collinetta, appena una gobba di terra, si colloca infatti la Cerkev Svete Trojice, la Chiesa della Santissima Trinità.

La raggiungiamo abbandonando l'automobile in un parcheggio situato ai margini del villaggio. Percorriamo una corta e facile salita ai lati della quale si estendono alcuni vigneti. Il culmine della collina sopra la quale sorge la chiesa è spigoloso ed aspro, coperto di rocce sporgenti che rendono insicura la marcia. Sullo sfondo di questo punto di ascesa si staglia il profilo ricoperto di vegetazione del Črni Vrh, basso rilievo di appena 296m di altezza sul versante del quale sorge proprio l'abitato di Cristoglie. Pochi passi ancora conducono all'ingresso della chiesa: ad accoglierci in prima battuta non sono portali decorati o facciate solenni, bensì un muro di cinta solido e spesso, un elemento di fortificazione posto a protezione del tempio. Tale struttura difensiva testimonia ancora oggi una delle antiche funzioni di questo luogo, svolta a favore della popolazione locale in tempi passati: all'interno di questo fortino infatti si rifugiavano gli abitanti dei vicini villaggi in cerca di riparo dagli assalti di invasori stranieri, principalmente turchi, speranza e salvezza per molte anime non solo dal punto di vista mistico e religioso ma anche terreno e militare. La chiesa era infatti l'unico edificio in muratura nel raggio di parecchi chilometri. Occorre fare un esercizio di fantasia e pensare che questa regione era in passato come oggi punteggiata da tanti piccoli villaggi, abitati soprattutto da contadini, il cui destino li vedeva spesso in balia di conflitti tra signori e dispute tra nazioni, un tributo sacrificale all'altare della storia. Sorta probabilmente su un antichissimo castelliere protostorico, Cristoglie, il cui nome deriverebbe dalla locuzione latina Christi via ad indicare che probabilmente la località era tappa di pellegrinaggio verso la Terra Santa, fu possedimento feudale di aristocratici germanici fino al 1028, anno in cui questi territori vennero ceduti dall'imperatore del Sacro Romano Impero Corrado II di Franconia ai patriarchi di Aquileia. Successivamente, intorno all'anno 1200, il villaggio venne incluso nelle proprietà del vescovado di Trieste, il quale lo concesse in feudo, nel corso dei decenni, a diverse famiglie locali. Divenuta in seguito enclave del Sacro Romano Impero, Cristoglie passò nel corso del XVI secolo tra i possedimenti del nobile casato Neuhaus, originario della città slovena di Kranji situata nella parte settentrionale del paese. I Neuhaus mantennero il villaggio fino al 1589, anno in cui fu il medico capodistriano Leandro Zarotti, già stabilitosi presso Venezia, ad assumerne la proprietà, si tramanda versando un'ingente somma di monete d'oro. Oltre a prestare la propria opera curativa a favore delle persone che abitavano i villaggi di questa zona, costui si prese onere di tutelare la Chiesa della Santissima Trinità, preservandone la struttura e restaurandola in alcune parti, tra le quali anche le mura di cinta, opera ricordata da un'iscrizione in latino posta oggi all'ingresso del sito. La realizzazione delle mura difensive, costituite da pietra calcarea, è postuma rispetto alla chiesa e risale proprio agli inizi del XVI secolo, quindi a poco prima dell'arrivo di Zarotti, ma nonostante lo scarso tempo trascorso dalla loro costruzione già dopo suppergiù un secolo era evidente la necessità impellente di prestarvi opere di profonda ristrutturazione, onere assolto proprio dal medico capodistriano. In passato, a difesa del sito, di fronte alle mura era presente anche un fossato, oggi scomparso. Nonostante un netto distacco tra questa infrastruttura esplicitamente militaresca ed il suo contenuto, un richiamo religioso è ritrovabile anche qui a collegare due entità altrimenti inconciliabili: le mura sono alte 8m, la superficie che circoscrivono è larga 16m e profonda 32m, secondo uno schema a multipli di otto che sottolinea il legame con l'eterno, l'infinito, di cui questo numero è simbolo. Superata la porta di accesso delle mura, chiusa all'occorrenza da una grata metallica ed affiancata da uno dei due bastioni circolari che completano la cinta fortilizia, si accede ad uno spiazzo erboso al centro del quale sorge la chiesa, la quale riempie completamente la scena occupano quasi interamente lo spazio disponibile.

La Chiesa della Santissima Trinità venne eretta originariamente tra il XII secolo ed il XIII secolo, sebbene la sua consacrazione venga indicata in documenti storici intorno al 1475, forse a seguito di lavori di rinnovamento o ricostruzione su strutture precedenti. Lo stile che la caratterizza è quello romanico, freddo e duro, privo di fronzoli e lustrini, a richiamare un poco il clima da caserma istituito dalla cinta muraria che la circonda: le pareti esterne sono in pietra viva ed il tetto è costituito da lastre di ardesia. Le dimensioni della chiesa sono piuttosto contenute: la struttura è lunga appena 11,7m e larga solo 6m. La bassa facciata sembra interrotta nel suo svolgimento dalla mole del campanile massiccio e squadrato, alto 18m, con la sua sagoma murata ed il piccolo orologio ad ingentilirne l'aspetto: il contesto agricolo in cui è calato questo monumento, fatto di verdi colline e vigneti, si riconosce anche nel vissuto della torre campanaria, la quale venne utilizzata in passato e per lungo tempo come granaio. Tale vocazione si intravedere ammirandola ancora oggi, scorgendo in alto sulla sua cima, in una rientranza vicina alla nicchia che ospita le campane, un nido di api in febbrile attività di raccolta. Al centro della facciata, la cui osservazione rimanda con la fantasia a racconti biblici di capanne e mangiatoie, sta il portale di accesso e sopra di esso un timpano triangolare insieme ad un semplice rosone circolare. Prima di entrare nella chiesa indugiamo sul modesto banchetto, posto a lato del portale, destinato all'esposizione di liquori disponibili all'acquisto, soprattutto Malvasia, prodotto tipico dei vitigni locali.

L'interno dell'edificio è disposto su tre navate, suddivise da un basso colonnato composto da elementi con profili diversi, scolpiti come pezzi unici a richiamare le forme irregolari ed imperfette di solidi tronchi d'albero. Ad accoglierci è una gentile signora di mezza età, bonaria e sorridente, che si propone di illustrare ai pochi (per fortuna!) visitatori che giungono a scoprire questo luogo ed i segreti, i simboli, i messaggi ancora vivi al suo interno. Ed in effetti questi messaggi sono disposti ovunque tra le navate, senza interruzione o soluzioni di continuità: ciò che la chiesa cela dentro la propria struttura arcigna e fredda è un impressionante ciclo di affreschi, fatto di ritratti, colori e decorazioni che raccontano da secoli una storia, sempre la stessa, sempiterna e intramontabile. Anzi, forse sarebbe meglio dire che accedere alla Chiesa della Santissima Trinità di Cristoglie è come fare un salto dentro questa storia, immergersi all'interno di essa, balzare di scatto lontano dal presente per atterrare in una realtà antica di secoli: entrare oggi in questo tempio del resto non è diverso dall'esserci entrati 500 anni fa'; questo posto è in grado di accomunare l'essere umano moderno al contadino medievale. Il patrimonio di pitture murali disposte lungo le pareti è inestimabile nel valore e vivo nella personalità, sembra quasi avere una voce e dominare chiunque entri ad ammirarlo, fedele a quello sguardo severo ma accogliente e comprensivo che il divino sa dirigere sui propri discepoli. Tutto ciò devo dire essere ulteriormente impreziosito dal modo in cui la comunità del vicino villaggio illustra ai visitatori il sito: la gentile guida si fa incontro a chiunque varchi la soglia della chiesa, abbandonando il piccolo banco posizionato a lato dell'ingresso sul quale sono esposti libri e cartoline, offrendosi dietro pagamento di un'esigua somma pecuniaria (5€ a persona, gratuito per bambini sotto i 6 anni di età) di narrare dettagliatamente in diverse lingue, anche in italiano, quello che le pareti della chiesa hanno da offrire. Unica raccomandazione, è severamente vietato scattare fotografie agli affreschi per evitare di comprometterne l'integrità, motivo per cui purtroppo non avremo con noi immagini delle meravigliose pitture murarie una volta terminata la visita. Che il racconto abbia quindi inizio ancora una volta, in ascolto della nostra guida seguiamo i dipinti lungo la superficie delle pareti delle navate come parole lungo le righe di una pagina scritta. La volta dell'abside, stretta e corta, quasi raccolta intorno all'altare ligneo datato XVII secolo come a volerlo avvolgere in un intimo abbraccio, è affrescata con l'immagine della Trinità. Più in basso, la parete semicircolare riporta i ritratti dei 12 Apostoli, le cui figure sembrano voler presidiare lo spazio celebrativo conferendogli ulteriore solennità. La volta a botte della navata centrale mette in mostra scene dipinte inerenti il tema narrativo della Creazione insieme al mito di Adamo ed Eva; il settimo giorno eletto da Dio come momento di riposo al termine dell'opera è raffigurato lungo la parete occidentale, proprio sopra il portale di accesso. Ad essere immortalate lungo la parete della navata laterale rivolta a nord sono invece le scene dell'Annunciazione ed il Viaggio dei Magi verso Betlemme, definite in immagini maestose, articolate e dinamiche. La navata laterale disposta a meridione è invece impreziosita dagli affreschi narranti la Passione di Cristo: interessante notare che una delle scene qui raffigurate mostra Gesù risorto disceso negli inferi nell'atto di scardinare le porte dell'inferno e scacciare un diavolo terrorizzato per liberare le anime condannate alla perdizione eterna, prime fra tutte quelle di Adamo ed Eva qui ritratti con le stesse sembianze dei dipinti presenti lungo la volta principale. Sulla superficie muraria di questa navata, sotto le figure già citate, si dispone la porzione di affreschi più particolare, quella che rende questa chiesa celebre anche oltre i confini sloveni nonostante le sue modeste dimensioni. In una scena lunga e sottile, senza interruzioni, univoca nel suo svolgimento, è raffigurata la Danza Macabra. Undici personaggi, tutti di costumi ed estrazione sociale differenti, ciascuno accompagnato per mano dalla spettrale sagoma di uno scheletro. Ognuno di essi ritratto nell'atto di camminare nella medesima direzione, vale a dire verso un sepolcro tenuto aperto sull'ignoto da uno scheletro seduto sul proprio trono, impersonificazione del concetto della morte. Sotto il baratro giacciono incrociate una pala ed una zappa, strumenti di richiamo contadino come il contesto in cui è calata questa chiesa, probabilmente gli attrezzi utilizzati dalla Morte per scavare il sepolcro dentro cui accogliere le anime trapassate, collegamento pratico e materiale con la realtà di chi, abituato al lavoro nei campi, secoli fa' si ritrovava ad osservare questa scena. Un bambino che abbandona la culla, nudo ed ignaro; uno storpio con una gamba di legno, sorretto ad una stampella, la corona del Rosario stretta in una mano; un uomo d'armi, sicuro e spavaldo nell'incedere, con la spada fissa al fianco; un mercante, disperato nell'espressione, come estremo tentativo infila una mano nella bisaccia alla ricerca forse di qualche moneta con cui comprare il favore del proprio scarno accompagnatore; un ricco borghese in abiti eleganti incapace di arrendersi all'inesorabile destino della morte, teso all'indietro nel tentativo di sottrarsi ad esso, con una mano afferra il braccio dello scheletro che lo accompagna nel vano tentativo di frenarne il passo. E poi ancora un monaco, triste e rassegnato, con il breviario sottobraccio; un vescovo vestito di mitra e sontuoso mantello dorato sulle spalle, riluttante a seguire lo scheletro che lo trascina per mano e gli sorregge il bastone pastorale; un cardinale in abiti purpurei, piuttosto sereno nell'espressione del volto e nella postura; una regina la cui vistosa corona non basta a mitigare l'afflizione del volto per la fine incombente; un re, le spalle coperte dalla mantellina di ermellino, la corona sul capo reclinato da un lato in un atteggiamento di sconsolazione e tristezza; infine il papa, la prima figura del corteo, quella più vicina al sepolcro, il triregno sulla testa ed una mano alzata come in un gesto di rifiuto all'obbligo di penetrare nel baratro indicato dalla Morte sedutale di fronte. Questo particolare corteo funebre comprende nella sua interezza tutte le classi sociali dell'epoca in cui l'affresco venne realizzato: un monito per tutti, nessuno escluso, a realizzate la caducità della vita e l'inesorabilità della morte, indipendentemente da ricchezza e potere, in una Danza Macabra che accomuna tutti gli uomini senza distinzioni o discriminazioni. Tale rappresentazione pittorica, tema tipico dell'arte tardomedievale, costituisce una forte spaccatura con il resto delle scene dipinte all'interno della Chiesa della Santissima Trinità: qui cade il concetto di morte interpretato come espressione della volontà divina, tutto diventa estremamente terreno, materiale, non scevro da una sorta di ironia lugubre. La raffigurazione della morte è quella nuda e cruda di uno spettro scheletrito, spaventoso ed inquietante, disegnato in maniera esplicita secondo le conoscenze anatomiche del tempo, imprecisa nella forma vuota del bacino e nella struttura troppo numerosa del costato. La morte appare quindi laicizzata, ingaggiata in un rapporto esclusivo ed individuale con l'essere umano, semplice e privo di scappatoie, spogliato dei significati morali e trascendentali dettati dalle religioni. Lo scopo non è quello di togliere speranza e prospettiva, bensì quello di creare un rapporto più familiare e confidenziale con la morte, soprattutto a seguito di eventi traumatici e catastrofici come quelli che investirono queste popolazioni durante l'epidemia di peste che flagellò la regione istriana e l'Europa intera nel corso del 1348. A sostegno di ciò, ritroviamo anche nelle absidiole minori i ritratti di San Sebastiano, San Rocco e San Fabiano, santi protettori dalla peste, a conferma che la malattia della carne rappresentava una vera, costante e minacciosa entità per gli uomini e le donne dell'epoca. Occorre peraltro pensare che la popolazione dell'epoca era composta da persone analfabete, incapaci di leggere la parola scritta e di maneggiare penna ed inchiostro, privilegi riservati a personalità educate quali aristocratici e soprattutto monaci, pertanto questi dipinti costituiscono il tentativo di comunicare una storia, dei valori, una dottrina religiosa oppure solamente morale, a persone di umili origini.

L'affresco della Danza Macabra di Cristoglie rappresenta oggi il ciclo pittorico più celebre di tutta l'Istria Slovena, un esemplare di appena una decina di opere artistiche a tema similare distribuite in tutto il Mondo, l'apice dell'inestimabile patrimonio pittorico custodito all'interno della Cerkev Svete Trojice. Terminata la rassegna concessa della gentile guida locale, prolunghiamo la nostra visita della chiesa sostando al centro della navata centrale: a circondarci sono le tonalità di giallo, rosso e verde che decorano le pareti, siamo immersi nei dipinti che rendono questo luogo unico ed inimitabile. A comporre gli affreschi fu Janez da Castua, artista istriano che li realizzò in stile tardogotico: la sua firma venne ritrovata sotto gli affreschi raffiguranti il Viaggio dei Magi lungo la navata settentrionale, rilievo oggi però perduto con il crollo di parte dell'intonaco murario. A commissionare l'opera fu tale Tomic Vrhovic, parroco del villaggio di Covedo, nei pressi di Capodistria, sotto la cui parrocchia era posta Cristoglie. Le pitture vennero completate nel 1490 ma per secoli furono poi coperte sotto uno spesso strato di calce, nascosti alla vista, probabilmente a seguito di un'epidemia di peste nel tentativo di sanificare il luogo. Nel 1951 gli affreschi vennero riscoperti da Jože Pohlen, artista sloveno formatosi in Italia ed attivo soprattutto nella creazione di piccole sculture plastiche: fu lui poi ad avviare un lento e delicato lavoro di restauro che durò per ben 10 anni ma che riuscì infine a riportare alla luce questo preziosissimo patrimonio artistico. Nuovi lavori di cura e manutenzione vennero condotti sulla chiesa e sulle pitture murarie tra il 1970 ed il 1985. Il grado di conservazione degli affreschi che giunge a noi oggi è sorprendentemente integro, perduto in poche circoscritte porzioni ma pressochè completo nella sua interezza, frutto di un accurato lavoro di recupero e conservazione. Il risultato di tale enorme impegno nella preservazione di tale patrimonio monumentale ha condotto nel 2006 ad inserire la Cerkev Svete Trojice di Cristoglie all'interno del patrimonio tutelato dall'UNESCO. Un ultimo istante prima di abbandonare l'interno della chiesa per citare la curiosa scritta vergata in strani caratteri posta sotto l'affresco della Danza Macabra: le lettere che la compongono provengono dall'alfabeto glagolitico, il più antico idioma slavo attualmente conosciuto. Si ritiene che a crearlo nel corso del IX secolo fu San Cirillo, monaco missionario di origini greche, con lo scopo di tradurre e rendere comprensibili i testi sacri alle popolazioni del luogo. Una teoria alternativa farebbe risalire questi caratteri ad antiche rune slave di origine precristiana: tale ipotesi appare però meno plausibile, dal momento che l'alfabeto glagolitico possiede 40 caratteri dei quali 25 mostrano buona somiglianza con i grafemi del corsivo medievale greco. San Cirillo sarà grande evangelizzatore, insieme al fratello San Metodio: in occasione di una visita a Roma, i due furono anche artefici dell'approvazione da parte papa Niccolò I delle traduzioni del testo biblico in lingua slava, a patto però che la lettura di tale versione venisse sempre preceduta dalla citazione in latino. La scritta in glagolitco rinvenuta lungo la parete della Chiesa della Santissima Trinità di Cristoglie indica la data in cui avvenne la posa della pavimentazione del tempio: era il 1517 e ad eseguire i lavori fu Anton Damidun. La pavimentazione venne poi sostituita più avanti, tra il XVI secolo ed il XVII secolo, da una copertura con lastre di pietra. Termina la nostra visita della Cerkev Svete Trojice, un luogo piccolo e nascosto, quasi segreto, arricchito da un'arte preziosa e da una storia ancora viva, e questo fa di esso un posto veramente magico.

Un rapido cenno riguardante Lipizza (in sloveno Lipica), piccola località slovena situata ad appena un paio di chilometri dal confine con l'Italia, circa 15km a nord del limite settentrionale del territorio istriano. Il luogo non è conosciuto tanto per il proprio centro abitato, appena 93 abitanti, quanto per la lunga e pregiata tradizione legata all'allevamento di cavalli. Qui infatti si colloca la Kobilarna Lipica, una delle scuderie equine più rinomate ed apprezzate dell'intero continente europeo: la sua origine è antichissima e risale al 1580, anno in cui l'arciduca Carlo II Francesco d'Austria acquistò un appezzamento di terreni dai vescovi di Trieste per avviare un raffinato allevamento di cavalli. L'intento era quello di creare una razza equina capace di generare esemplari adatti al traino delle carrozze ed alla cavalcata. In tale periodo il cavallo rappresentava infatti un fondamentale bene strategico, utile negli spostamenti, nei lavori di fatica e nelle azioni militari, oltre che simbolo di aristocratico benessere nelle sue varie declinazioni di razza. Carlo II Francesco d'Austria acquisì quindi sia il piccolo villaggio, all'epoca appena una manciata di casupole, sia i terreni circostanti comprensivi di una residenza estiva utilizzata dai vescovi triestini e delle attigue stalle, entrambe le infrastrutture in stato di abbandono al momento della compravendita. Il sito venne scelto per la lontananza dal clima mite del mare, circostanza che doveva rendere i cavalli più resistenti alle basse temperature; inoltre il terreno di origine carsica, accidentato ed irregolare, su cui si posizionava il complesso avrebbe esercitato gli zoccoli dell'animale ad essere più solidi e robusti. A suggerire già nel 1576 l'acquisto di questa tenuta furono il vescovo triestino Nicolò Coret e Franc Jurko: quest'ultimo era il curatore dell'allevamento diocesano di cavalli carsici appartenenti al vescovado e diventerà il primo amministratore della scuderia asburgica presso Lipizza. L'investimento di Carlo II Francesco d'Austria porterà ad una profonda ristrutturazione della residenza abitativa e ad una radicale sistemazione delle stalle: nasce così il primo nucleo del Kobilarna Lipica. La tradizione equestre asburgica era molto legata a cavalli di razza spagnola e per tale motivo i primi esemplari a Lipizza vennero ottenuti incrociando tre stalloni di tale razza con fattrici italiane ed andaluse. Successivamente vennero condotti sul posto altri sei stalloni di razza spagnola per ampliare la scuderia. Nel 1594 la proprietà verrà estesa con l'acquisto di nuovi terreni, quelli sui quali attualmente si collocano i campi da golf attigui alle scuderie. I successori di Carlo II Francesco d'Austria, vale a dire suo figlio l'imperatore Ferdinando II d'Asburgo ed il pronipote l'imperatore Leopoldo I d'Asburgo, contribuirono tra il 1619 ed il 1705 ad ampliare la tenuta con la costruzione di nuovi edifici. Ulteriori opere edilizie vennero aggiunte tra il 1705 ed il 1711 su commissione dell'imperatore Giuseppe I d'Asburgo: in tale occasione vennero costruite nuove stalle, una residenza per gli allevatori ed una chiesa, ai quali si aggiunsero importanti lavori di manutenzione sui prati ed i boschi circostanti. Un nuovo grande impulso all'allevamento di Lipizza venne impartito da Francesco Stefano di Lorena, consorte dell'imperatrice Maria Teresa d'Asburgo, il quale tra il 1740 ed il 1780 contribuì ad un'ulteriore selezione sulla razza.

A seguito di tale fiorente periodo di sviluppo, sul finire del XVIII secolo la Kobilarna Lipica fu protagonista di diversi episodi negativi che ne misero a repentaglio l'esistenza: siamo in periodo di conflitto tra Austria e Francia, e nel 1796 i pascoli e la scuderia vennero occupati dalle truppe asburgiche che ne fecero il proprio accampamento militare; l'anno seguente l'armata francese attraversò la Carinzia preparandosi allo scontro e per la prima volta si rese necessario trasferire l'intera mandria di cavalli (quasi 300 capi) in Ungheria, a 40 giorni di cammino e più di 450km di distanza. Gli animali fecero ritorno al punto d'origine dopo soli pochi mesi. Andò molto peggio nel 1802, quando le truppe francesi guidate da Napoleone invasero la regione danneggiando pesantemente ed in parte radendo al suolo il complesso delle scuderie di Lipizza. Nello stesso anno un violento terremoto distrusse una grande parte delle stalle uccidendo molti degli esemplari più pregiati. Ciò che rimase dell'allevamento fu costretto nuovamente a trasferirsi già nel 1805 presso una tenuta ungherese, sempre a causa dell'imperversare del conflitto austro-francese, per poi fare ritorno a Lipizza verso la metà del 1806. La località divenne possedimento francese nel 1809 ed i cavalli, in tutto 286 esemplari, furono ancora trasferiti in Ungheria dove rimasero fino al 1815: con l'occupazione francese presso Lipizza vennero irrimediabilmente perduti i documenti originali relativi alla genealogia equestre della razza. Nel 1811 Napoleone donò i territori di Lipizza al maresciallo Auguste Marmont, nominato governatore della Dalmazia: in tale periodo su questa regione si operò una pesante opera di disboscamento. La tenuta rimase francese fino al 1813, anno in cui Napoleone Bonaparte, a seguito della sconfitta militare presso Lipsia, fu costretto alla ritirata lasciando territorio agli austriaci che riconquistarono così Lipizza. Segue una parentesi di stabilità sotto vessillo asburgico. Nel corso del XIX secolo fu l'imperatore Francesco Giuseppe I d'Asburgo-Lorena ad impartire un nuova direzione all'allevamento immettendo sangue di cavalli arabi nella linea riproduttiva degli esemplari lipizzani: tale importantissimo passaggio condusse alla formazione dei primi esemplari di Cavallo Lipizzano corrispondenti a quelli attuali. In questo periodo, più precisamente tra il 1852 ed il 1856, furono inoltre effettuati lavori di espansione sulla tenuta di Lipizza, con la costruzione di nuove stalle, magazzini, un laboratorio per il maniscalco ed una residenza per il veterinario, oltre ad un nuovo pozzo fornito di abbeveratoio. Nel 1894 il Kobilarna Lipica contava cinque stalloni, quattro puledri, 81 cavalli e due fattrici di razza. Con l'avvento della I Guerra Mondiale una nuova minaccia incombe sull'allevamento: ancora una volta nel 1915 i cavalli vengono trasferiti in parte presso Vienna ed in parte su territorio ceco. Con il termine del conflitto, la tenuta di Lipizza, a cui fecero ritorno solo 109 esemplari, venne assegnata ai territori italiani: dopo 339 anni si conclude così l'amministrazione asburgica del Kobilarna Lipica. Il periodo di possesso italiano si protrasse fino allo scoppio della II Guerra Mondiale; poi, nel 1943, la località venne occupata dall'esercito nazista che provvide a trasferire buona parte della mandria (in tutto 179 cavalli), insieme ai libri genealogici dell'allevamento, in una località ceca prossima al confine tedesco. Dopo la fine della guerra, il territorio sopra il quale si trovavano i cavalli, devastato ed inospitale, fu ricompreso nell'area sottoposta a controllo russo, ma con un'inattesa operazione militare statunitense proposta dal colonello Charles Reed ed approvata dal generale George Patton i cavalli furono liberati e ricondotti su suolo austriaco. Nel frattempo le truppe alleate avevano occupato la tenuta di Lipizza trasformandola in una base per autocarri: il maneggio coperto venne tramutato in una mescita, mentre una delle scuderia fu trasformata in una sala cinema. Nel 1947, con il ritiro degli Alleati, Lipizza divenne territorio jugoslavo: solo 11 dei cavalli precedentemente trafugati dai nazisti fecero ritorno all'allevamento d'origine; i libri genealogici vennero affidati invece alle autorità italiane. Negli anni '50 del XX secolo la scuderia si arricchì di nuovi esemplari e nel 1952 fu inaugurata all'interno del Kobilarna Lipica la scuola d'equitazione. Nella decade successiva la tenuta fu aperta al pubblico assumendo da qui in avanti un carattere più turistico e riducendo di conseguenza il numero di esemplari equini allevati. Nel 1963 la scuderia contava appena 59 cavalli, nulla di più distante dai numeri e dagli intenti delle origini. Dal 1972 in poi l'aspetto della tenuta mutò grandemente con la costruzione di nuove stalle e maneggi. Negli anni successivi la carenza di sovvenzioni e contributi statali portò il sito ad uno stato di degrado mai conosciuto prima. Eppure, nel 1984 la prima squadra olimpica jugoslava di equitazione proveniva proprio da Lipizza: fu Alojz Lah, classe 1958, a capitanate la squadra composta da Stojan Moderc e Dušan Mavec, tutti nativi lipizzani. Il 1991 è l'anno dei conflitti per l'indipendenza slovena ed in tale epoca l'allevamento subì ulteriori ristrettezze finanziarie e contrazioni nell'organico: nonostante questo Lipizza ospitò nel 1993 i campionati europei di dressage. Finalmente nel 1996 Il Kobilarna Lipica viene rilevato dall'autorità statale slovena e proclamato monumento nazionale: sarà questo un nuovo inizio per l'istituzione, una rinascita che ovviamente non potrà riportare l'allevamento ai fasti dell'epoca asburgica ma che assesterà il terreno finanziario sopra il quale fino ad allora si mantenne a fatica, consentendo alla scuderia di sopravvivere. Un nuovo fondamentale riconoscimento viene concesso al Kobilarna Lipica nel 2002, quando un organo di giudizio internazionale riconosce Lipizza come legittima detentrice dei libri genealogici della razza equina lipizzana, fino ad allora in mani italiane. Una storia davvero infinita quella di questo nobile allevamento di cavalli, simile nel suo svolgimento alla trama di una telenovela dai toni drammatici, ricca di colpi di scena e capovolgimenti repentini di fronte.

Il Kobilarna Lipica non si può dire essere oggi tale e quale a quello delle origini, ma nonostante ciò è comunque attualmente la più grande scuderia specializzata nell'allevamento del Cavallo Lipizzano esistente al Mondo, contando attualmente circa 300 esemplari, oltre che la più antica presente su territorio europeo. L'estensione dei terreni sopra i quali pascolano liberamente i cavalli e su cui si situa il complesso delle scuderie oggigiorno ammonta suppergiù a 300 ettari. Qui ancora si esercita una sapienza antica e complessa, quella che impegna l'uomo nella cura dell'animale, fatta di dedizione e costanza: tale conoscenza è preziosa ed autentica, riconosciuta come patrimonio immateriale dell'UNESCO a partire dal 2022. Ancora oggi a Lipizza trova casa un tesoro inestimabile, frutto di grande lavoro e passione: giungiamo a visitare il luogo proprio alla scoperta di tale ricchezza. Attraversiamo in automobile strette stradine compresse tra prati di erba verdissima e boschi di tigli: proprio il nome Lipizza deriverebbe dal termine sloveno lipa che si traduce appunto con "tiglio". Più precisamente, la tradizione tramanda che sul luogo dell'attuale allevamento sorgesse nel XIV secolo una cantina vinicola nei pressi della quale si trovava un piccolo albero di tiglio: da questa antica conformazione deriverebbe l'attuale nome della località.

Arrivando nelle vicinanze dell'ingresso al Kobilarna Lipica incontriamo basse staccionate di legno dipinte di bianco ed al loro interno ecco pascolare liberi alcuni esemplari di Cavallo Lipizzano: il loro manto è tipicamente variegato nel colore tra il bianco ed il grigio, sebbene i puledri nascano con una livrea mora o baia e si imbianchino gradualmente nell'arco dei primi 10 anni di vita; il collo, saldo e possente, è ornato da una criniera fitta e scura; la groppa muscolosa e ben arrotondata ha fatto di tali esemplari l'accompagnamento ottimale per la cavalcata o il traino delle carrozze, caratteristica che valse a questa razza equina grande considerazione anche nell'impiego militare; la coda ha attaccatura alta con crini sottilissimi e lunghi; le gambe agili e sottili, unite a zoccoli solidi e spessi, rendono questo cavallo tanto scattante quanto resistente. Uno spettacolo di perfezione e bellezza dietro la cui architettura c'è la mano infallibile della Natura, ma che l'uomo ha saputo esaltare e comprendere. Non possiamo fare a meno di fermarci ai bordi dello steccato per ammirare questo meraviglioso animale, con somma gioia di Amelia che rimane incantata ad osservarli tentando timidamente di toccarne il muso e di Lidia che al settimo cielo emette grida di gioia nel guardarli, mettendo così in fuga la mandria con disappunto degli altri osservatori appostati come noi a godere dello spettacolo. Il resto è poca cosa. Abbandonata l'automobile in un largo parcheggio, penetriamo nello spazio occupato dalle scuderie: l'ambiente non trae certo giovamento dall'albergo con attiguo casinò posizionato poco oltre l'accesso, elementi che contribuiscono a rendere il sito un po' più volgare, quasi licenzioso, una nota stonata in relazione ad un luogo così ricco di storia e tradizione. La struttura alberghiera, ad ogni modo, fu costruita solo in epoca recente, vale a dire nel 1971, durante il periodo di massima difficoltà economica attraversato dall'allevamento. Dietro l'albergo, ecco un enorme spazio dedicato a campi da golf, altra infrastruttura che non contribuisce a mitigare la prima triviale impressione del visitatore che accede all'area. Sul lato opposto si estende invece un corto prato sopra il quale si posiziona un parco giochi per bambini: elemento questo abbastanza apprezzato. Ogni tanto un piccolo calesse trainato da cavalli di razza lipizzana percorre i viali trasportando i visitatori in un giro panoramico dell'area. Poco più avanti ecco l'accesso alle scuderie vere e proprie. Peccato che i cancelli siano chiusi: non ho ancora capito se lo sbarramento sia stato dovuto al nostro arrivo in orario troppo tardo oppure a fattori di natura differente. Fatto sta che ci dobbiamo accontentare di osservare il maneggio e le stalle attraverso le inferriate della cancellata. Non importa, ciò che Lipizza ha di meglio da offrire lo si trova saldamente innalzato su quattro zampe fornite di zoccoli, silenzioso ed elegante, ignaro di chi visita il casinò o frequenta i campi da golf, un animale che questi luoghi ha il diritto di chiamarli casa da quasi 500 anni.

Il Park Škocjanske Jame è da sempre per me un sogno nel cassetto, una delle mete da visitare assolutamente almeno una volta nella vita. Nonostante però la vicinanza a questo sito, posto ad appena 10km dal confine italo-sloveno, mai mi era ancora capitato di raggiungerlo e scoprirlo. Il proposito di visitarlo si è venuto a creare nella mia mente anni fa' quasi per caso, sfogliando le pagine di una rivista di viaggi oppure curiosando sul web in cerca di posti meravigliosi da conquistare: una volta posato lo sguardo sugli scatti mozzafiato ritraenti questo magnifico complesso di caverne, l'idea di ammirarle dal vivo non ha mai abbandonato la mia testa. Il Parco delle Grotte di San Canziano è un posto magico, unico al Mondo, uno scenario degno del più coinvolgente film d'avventura, un vero privilegio per chi abbia l'opportunità di esplorarlo. Arrivarci non è complicato, dal momento che si trova in pieno Carso (in sloveno Kras), regione spartita tra Italia, Slovenia e Croazia corrispondente ad un altopiano roccioso di composizione calcarea particolarmente soggetto all'azione erosiva esercitata dalle acque, caratteristica che rende questo paesaggio facilmente modellabile in profili e percorsi multiformi. Tale fenomeno, chiamato carsismo, nel corso di millenni ha generato in quest'area un vastissimo sistema di grotte e doline, un vero e proprio universo sotterraneo, spesso occultato alla vista ed insospettabile, di cui il Parco delle Grotte di San Canziano è solo una minuscola parte. Esplorare questi scenari significa spingersi oltre una delle poche frontiere sopravvissute intatte tra umano ed ignoto sul pianeta, un'esperienza che suscita la sensazione di impersonare un audace esploratore alla scoperta di luoghi nascosti, ancora in parte ostili nella loro natura selvaggia ed indomita.

Raggiungiamo il Park Škocjanske Jame con una certa tremarella nelle gambe e gli occhi che brillano dall'emozione: siamo quattro bambini sulla soglia di un bellissimo parco giochi. L'accesso al complesso delle grotte si trova nei pressi del piccolo centro abitato di Mattauno (in sloveno Matavun), appena una manciata di case e tre strade messe in croce, a circa 500m di distanza dal minuscolo villaggio di Škocjan, località di una sessantina di abitanti che dona il nome alle grotte stesse. Ad accoglierci è un vasto parcheggio asfaltato al termine di una stretta via carrabile che dall'uscita dell'autostrada si addentra in un'aperta zona boscosa, la quale comincia già ad accompagnarsi al dolce saliscendi dei primi rilievi carsici. Abbandonata l'automobile, attraversiamo lo spiazzo del parcheggio e raggiungiamo senza soluzione di continuità il punto di raccolta per le visite alle grotte: qui, ospitata in una struttura dall'aspetto recente, una specie di piccola corte con un'aia centrale, si trova ovviamente la biglietteria, alcune panchine coperte da un porticato, sullo sfondo lo spazio di una piccola caffetteria con tavoli e sedute. Di fronte alla biglietteria, sopra un piedistallo, è posizionato su supporto metallico il rilievo stilizzato in miniatura relativo al decorso delle grotte ed all'area circostante. Il costo del biglietto è di 22€, bambini sotto i sei anni accesso gratuito. Attendiamo l'inizio della visita preparando il nostro equipaggiamento: scarponi comodi, zaino leggero, giacca pesante ed impermeabile. Nonostante il clima esterno estivo, l'ambiente delle grotte si preannuncia fresco ed umido. I gruppi di visitatori non sono mai molto ampi, composti all'incirca da una decina di persone, ed i turni partono con cadenza oraria fino a metà del pomeriggio. L'organizzazione è efficiente e ben strutturata, del resto il Parco delle Grotte di San Canziano è uno dei monumenti sloveni più conosciuti e frequentati, visitato da circa 95.000 persone ogni anno, oltre che uno dei siti carsici più studiati al Mondo. Dichiarate nel 1981 area naturale protetta su tutti i 413 ettari della loro estensione, le grotte dal 1986 sono inserite anche nella lista del patrimonio UNESCO, l'unico dei monumenti carsici sloveni a beneficiare di tale riconoscimento. L'istituzione del parco regionale sul territorio occupato dal complesso delle grotte risale invece al 1996. Iniziata la visita, le guide conducono i visitatori attraverso un primo percorso di circa 500m in superficie: abbandonato il punto di raccolta, si cammina per alcuni minuti oltrepassando il parcheggio, attraversando la strada carrabile ed imboccando un sentiero sterrato che comincia a scendere lungo il versante di una conca alberata chiamata Udornica Globočak, fino a raggiungerne il fondo. Qui si posiziona la porta di accesso alle grotte, una struttura cementizia dotata di una corta pensilina appoggiata alla parete rocciosa. Prima di addentrarci nel sottosuolo, le guide forniscono in perfetto inglese tutte le regole da osservare per evitare di recare danno al delicato ecosistema delle grotte. Per prima cosa è assolutamente vietato toccare le concrezioni calcaree che formano stalattiti e stalagmiti nelle varie sale: il processo di formazione di queste magnifiche strutture, vere e proprie sculture create da Madre Natura, impiega tempi lunghissimi per svilupparsi ed il contatto con superfici aliene, come le dita dell'uomo, ne arresta irrimediabilmente l'accrescimento. E' inoltre proibito scattare fotografie dal momento che le rocce che compongono le caverne sono abituate al buio e l'esposizione alla luce, anche quella istantanea del flash fotografico, ne altera irreversibilmente alcune caratteristiche, soprattutto il colore. Va aggiunto altresì che l'ambiente creato dalle caverne risulta sorprendentemente popolato da un insieme di organismi viventi dalle sorprendenti capacità di adattamento, alcuni molto rari o in via di estinzioni, tra i quali per esempio la Salamandra delle Caverne, alcuni coleotteri ipogei e numerose specie di invertebrati. Tali forme di vita, estremamente delicate e riservate nel comportamento, costituiscono in simbiosi con le caverne un habitat speciale ed unico nel suo genere, dotato di equilibri del tutto differenti da quelli a noi noti oltre che da una resilienza sorprendente, basti pensare al fatto che gli esseri viventi che le compongono sopravvivono senza bisogno di luce solare. Un ambiente dentro al quale siamo ospiti e che va quindi tutelato e rispettato. La fauna del Parco delle Grotte di San Canziano è stata nel recente passato anche oggetto di uno stravagante mistero: nel 1880 su materiale calcareo proveniente da questo sito venne scoperta una specie di gamberetto cieco classificato come Cambarus Typhlobius, mai più ritrovato nell'area in occasione di ricerche successive. Si ritiene oggi che in realtà il campione analizzato provenisse dagli USA e che ci sia stato un errore nella sua etichettatura, motivo per il quale l'organismo non venne più rinvenuto nell'ambiente carsico. Per il resto il camminamento turistico delle grotte si snoda su un sentiero obbligato, liscio e realizzato in cemento, senza svincoli o bivi, circostanza che rende davvero difficile smarrirsi durante la visita, ma la raccomandazione finale della guida è comunque quella di rimanere vicini al gruppo e non attardarsi troppo distanziandosi da esso. L'interno delle grotte è peraltro dotato di illuminazione elettrica fin dal 1959 ed attualmente tutto il percorso turistico beneficia della luce artificiale. Ricevute le dovute istruzioni inizia l'esplorazione vera e propria del complesso di grotte: Lidia è sistemata comoda nel suo marsupio, si addormenterà poco dopo aver cominciato la passeggiata sotterranea; Amelia invece cammina come al solito autonoma al nostro fianco. Superata la soglia, il tragitto iniziale si snoda su uno stretto tunnel artificiale, lungo circa 120m e scavato nella roccia nel 1933. Il primo ambiente che si incontra è quello della Tiha Jama, la Grotta del Silenzio, nome conferitogli in virtù della calma che vi regna in assoluta assenza di rumori. Siamo infatti in uno dei pochi punti del complesso nel quale non si percepiscono i suoni generati dall'acqua fluviale. Non molto ampio, con il soffitto a portata di braccio, disseminato di numerose formazioni stalagmitiche e stalattitiche, la scoperta di questo ambiente risale al 1904 e si deve a quattro esploratori locali che lo raggiunsero scalando i 60m di parete rocciosa dell'attigua Müllerjeva Dvorana, situata più in basso e scoperta già nel 1851 da Adolf Schmidl. Proprio a quest'ultimo si devono una serie di importanti esplorazioni compiute sul sito tra il 1851 ed il 1852, accompagnate da una squadra di minatori provenienti da Idrija e capeggiata da Ivan Rudolf, arrestate purtroppo ad appena mezzo chilometro di distanza dalla partenza da un'improvvisa piena del fiume che trascinò via gli attrezzi e danneggiò le imbarcazioni. Torniamo alla Tiha Jama: siamo in una caverna laterale del canyon sotterraneo scavato dal fiume. Ci concediamo qualche istante per ammirare le belle stalattiti e stalagmiti presenti in questa sala, formatesi attraverso un lento processo di deposizione di sedimenti calcarei portati dall'acqua che goccia a goccia per secoli casca imperterrita sempre sullo stesso punto della superficie petrosa del suolo. Ci rimettiamo quindi in cammino non prima di aver appreso che nonostante le chiare raccomandazioni pronunciate dalle guide prima dell'inizio della visita, alcune di queste formazioni calcaree sono state recentemente danneggiate dal comportamento poco rispettoso di alcuni turisti che toccandole ne hanno arrestato la crescita, in alcuni casi addirittura rompendole. La sala successiva è una sezione secondaria della Tiha Jama chiamata Paradiž, nome attribuitole dai primi esploratori che arrivando a questi ambienti ritenevano di raggiungere l'apice dell'esplorazione di questo complesso di grotte. Si sbagliavano, dal momento che ancora oggi, a distanza di numerosi decenni dalle prime spedizioni esplorative, continua il lavoro di ricognizione e ricerca scientifica nelle profondità del Parco delle Grotte di San Canziano: a conferma di ciò, ancora nel 1991 due speleologi e sommozzatori sloveni, Janko Brajnik e Samo Morel, scoprirono nuove ed ampie gallerie occupate da fiumi secondari e laghi sotterranei. Nella sala Paradiž lo spazio si apre maggiormente ed ospita altre stupende stalattiti e stalagmiti. La guida che ci accompagna indugia un istante ad indicarci una piccola conca scavata nella roccia calcarea, delle dimensioni di una ciotola, dai contorni regolari e geometrici: si tratta in effetti di un elemento creato dall'uomo scalpellando la pietra ben malleabile con il fine di creare un recipiente atto a raccogliere acqua dall'umidità presente nelle caverne. Ciò richiama alla mente le immagini dei primi esploratori di questi ambienti sotterranei, il cui coraggio li spingeva ad esplorare il sottosuolo con strumenti rudimentali, percorrendo passaggi stretti ed impervi, completamente al buio, rimanendoci magari per giorni, spesso mettendo a repentaglio la propria vita sotto la spinta del mero desiderio di conoscenza, senza però alcuna certezza di riuscita e di ritorno. In tali condizioni, avere un punto certo presso il quale poter trovare un po' d'acqua poteva essere di vitale importanza, sicuramente di grande conforto. Proprio la ricerca di nuove fonti per l'approvvigionamento idrico, soprattutto destinate alla città di Trieste, fu uno dei primi moventi, nel corso del XIX secolo, a spingere gli speleologi ad esplorare le profondità di questa regione. Il sentiero comincia a scendere verso il basso in maniera più decisa, in lontananza si comincia a percepire il rumore prodotto dallo scrosciare dell'acqua fluviale. Una brevissima distanza conduce all'interno della Velika Dvorana, letteralmente Sala Grande, così chiamata per le sue dimensioni decisamente più ampie rispetto alle sale precedenti. Non è comunque l'ambiente più grande dislocato sul percorso di queste grotte, superato dalla Martelova Dvorana, scoperta nel 1890, lunga ben 308m, larga fino a 123m ed alta 146m, una delle grotte sotterranee più grandi d'Europa con 2.200 km³ di volume: questa gigantesca sala è situata nella porzione più occidentale del complesso delle grotte, purtroppo non accessibile al pubblico turistico. Tornando alla Velika Dvorana, che si sa comunque difendere in termini di grandezza con i circa 30m di altezza della sua volta, occorre parlare anche di un altro primato: all'interno di questo vasto spazio trova dimora infatti l'Orjak, termine che tradotto dalla lingua slovena significa "gigante", una delle stalagmiti più grandi del pianeta, alta all'incirca 15m, dimensioni che si stima abbiano richiesto oltre 250.000 anni per essere raggiunte. Poco più avanti, un'altra formazione calcarea posizionata a lato del sentiero richiama la forma di un organo, caratteristica che gli vale il soprannome di Orgle: alcuni sostengo che oltre ad averne le fattezze ne possieda anche il suono quando l'aria ne attraversa la superficie. Ci troviamo attualmente grossomodo sotto il parcheggio presso il quale abbiamo lasciato l'automobile approdando poche decine di minuti prima al Park Škocjanske Jame. Camminare attraverso la Velika Dvorana è una vera meraviglia: le dimensioni di questa sala dall'altissima volta rocciosa, impreziosita da numerose sculture calcaree ciascuna con una forma differente a conferire quasi una propria precisa identità, suscitano stupore ed euforia. Ma non è nulla in confronto a quello che ci attende più avanti. Superata la Velika Dvorana il percorso conduce ad una specie di terrazzamento sopra il quale il sentiero scende zigzagando verso il basso. Le pareti rocciose formano qui una sorta di cornice al centro della quale si mostra in tutto il suo maestoso splendore la vastità della Šumeča Jama, l'ambiente più noto dell'intero sistema, una vera cartolina del Park Škocjanske Jame. Si tratta di una gola sotterranea lunga 3,5km, larga fino a 60m ed alta oltre 100m, suddivisa in tre grandi sale attigue e comunicanti che da dove ci veniamo a trovare noi in avanti sono la Müllerjeva Dvorana, la Svetinova Dvorana e la Rudolfova Dvorana. Un vero spettacolo da ammirare ed osservare per interminabili minuti, è impossibile non rimanere a bocca aperta davanti ad uno scenario come questo. Sul fondo della gola scorre il fiume Reka, l'artefice di tutto questo complesso di grotte: sorge ai piedi del monte Snežnik, nella parte centro-meridionale della Slovenia al confine con la Croazia, e percorre 55km prima di raggiungere la regione del Carso. Qui comincia ad approfondire il proprio alveo non solo erodendo la roccia calcarea ma anche corrodendola e sciogliendola. Nei pressi del villaggio di Škocjan penetra nel sottosuolo per formare la valle cieca più vasta di tutta la Slovenia, percorrendo i successivi 34km occultato alla vista al di sotto della superficie terrestre. Riemerge infine poco prima di gettarsi nelle acque marine del Golfo di Trieste, presso la cittadina italiana di San Giovanni di Duino, percorrendo in superficie gli ultimi 2km di percorso. Nel compiere tale cammino, il Reka va a costituire il fiume sotterraneo più esteso dell'intero territorio sloveno, formando con la propria azione di rimodellamento carsico l'intero sistema di caverne che compone il Park Škocjanske Jame. Tale processo ha richiesto millenni per compiersi ed oggi è autore di un'opera incredibile, un'ambientazione degna della più avvincente scena tratta dalla trama del romanzo "Il Signore degli Anelli", un palcoscenico dal quale si è completamente avvolti, dentro il quale si rimane immersi. La Šumeča Jama è l'apoteosi di tale spettacolo: le sue dimensioni ciclopiche mozzano veramente il fiato, una caverna di proporzioni enormi, avvolta nel buio, la cui profondità è difficile da cogliere interamente con lo sguardo, le pareti rocciose alte ed irregolari a suscitare la vertigine in chi vi si trova al cospetto. Solamente la striscia disegnata dal sentiero, che si perde in lontananza nella sequenza regolare delle luci elettriche e che sembra aggrapparsi alla roccia come un tenace lungo serpente, interrompe la solennità selvaggia di questo santuario naturale. Sul fondo della vallata sotterranea scorre il fiume, impetuoso e rumoroso, se ne percepisce la potenza indomita: il Reka è un'entità viva, quasi sacra, come testimonia il suo nome che dallo sloveno si traduce con "fiume", dal momento che è l'unico corso fluviale di portata considerevole che attraversi questa regione. Vitalità confermata anche dal fatto che sono ben 26 le cascate che il Reka alimenta all'interno dell'intero sistema di grotte. In alcuni passaggi il corso fluviale scorre piuttosto veloce superando numerose strettoie; inoltre l'angustia del sifone con il quale il fiume termina il proprio decorso sotterraneo favorisce, in caso di portate aumentate come quelle conseguenti a rovesci intensi e prolungati, violente inondazioni causate dall'accumulo delle acque nel sottosuolo: la più grande di queste venne documentata nel 1826 e registrò un innalzamento del livello del fiume di ben 128m, l'ultima invece risale al 1965 ed elevò le acque di 108m. Ci inoltriamo nella Šumeča Jama seguendo il tracciato del sentiero turistico e ne ammiriamo tutto l'immenso spazio aperto davanti al nostro sguardo. Sulla destra scorgiamo i residui di un antico sentiero, gli scalini scavati nella pietra viva ancora visibili tra le pieghe della roccia, abbandonato nel 1943 ed originariamente dotato di un corrimano di corda oggi andato perduto: in tutta l'estensione delle grotte esistono 12km di vecchie piste non più battute ed attualmente abbandonate a favore del più sicuro odierno camminamento turistico. Poco più avanti la via piega sulla sinistra e prosegue su passerelle con bordi metallici: siamo circa 100m più in alto rispetto al letto del fiume. Raggiungiamo così il Cerkvenikov Most, il ponte sospeso realizzato nel 2003 ad un'altezza di 47m sopra il Reka, uno dei punti più pittoreschi dell'intero Parco delle Grotte di San Canziano: è intitolato al nome di Jozef Cerkvenik, scalpellino locale, abitante del vicino villaggio, autore (insieme ad altri suoi pari) dei lavori di scavo e fissaggio degli appigli utili alla creazione dei primi sentieri turistici all'interno delle grotte. Siamo nel 1884, epoca in cui la gestione del complesso era detenuta da un'associazione alpinistica di nazionalità tedesca ed austriaca situata presso Trieste. Il Cerkvenikov Most sostituì un ponte precedente, datato 1933, i cui resti sono ancora visibili sullo sfondo e 20m più in alto rispetto al passaggio attuale. Più a lato è possibile ancora scorgere anche i resti degli appigli di un'antica via ferrata, stretta e ripida, che mette i brividi al solo pensiero che qualcuno possa averla percorsa. Nell'attraversare il ponte suscita una certa impressione sapere che l'inondazione del 1965 portò le acque del fiume a superarne il livello, sommergendo di ben 20m il camminamento turistico tutto intorno e depositando lungo gli argini fluviali numerosi tronchi d'albero trascinati chissà come all'interno della caverna. Superiamo l'attraversamento del Cerkvenikov Most e continuiamo la marcia lungo il sentiero. Più avanti il Reka prosegue la propria corsa in una porzione di grotte non aperta al turismo, verso la Martelova Dvorana ed il Mrtvo Jezero (il Lago Morto): quest'ultimo è il punto più basso del complesso attualmente conosciuto con 212m di profondità, raggiunto nel 1890 a seguito delle spedizioni speleologiche condotte dal ceco Anton Hanke insieme al triestino Josip Marinitsch ed allo sloveno Friedrich Müller. Ci soffermiamo qualche istante presso alcuni punti panoramici con viste mozzafiato sulla Šumeča Jama. Il tempo che impieghiamo a portare a termine il cammino è veramente troppo breve, e non sarebbe mai abbastanza per ammirare tutta la bellezza di questo stupendo ambiente. Una piccola grande fortuna conclude la nostra visita: siamo l'ultimo gruppo della giornata ad attraversare le grotte e terminato il passaggio della Šumeča Jama tutte le luci elettriche si spengono, il canale sotterraneo rimane completamente immerso nel buio più totale, unico punto di repere il rumore delle acque scroscianti, ecco le caverne nel loro aspetto più originale e sincero, per me un vero privilegio da gustare con un'estrema e rapida occhiata.

La nostra passeggiata si conclude a termine di suppergiù 3km di percorso disseminato di circa 500 scalini, una piccola parte in confronto ai complessivi 6,2km di estensione dell'intero sistema sotterraneo del Park Škocjanske Jame. Ad ogni modo la visita è facilmente fattibile senza pericoli anche con bambini al seguito. Il punto di arrivo del percorso turistico ci riconduce a contatto con i raggi del Sole. L'ultima sala che ci accoglie è la Schmidlova Dvorana, alta ed ampia, nella cui profondità già penetra la luce solare. All'imbocco di questa grotta, lungo la superficie di una parete rocciosa laterale, stanno alcune targhe commemorative dedicate alle pregresse spedizioni speleologiche che sfidarono le profondità sotterranee di questo sito. La storia di tali coraggiose imprese inizia da lontano, nel XVII secolo, epoca in cui il naturalista sloveno Janez Vajkard Valvasor descrisse per la prima volta l'inghiottitoio ed il primo tratto di tragitto nel sottosuolo del fiume Reka. Era il 1689. Circa un secolo prima, nel 1599, l'italiano Ferrante Imperato aveva provato sul posto a seguire il decorso fluviale utilizzando natanti e galleggianti di legno: questo è ritenuto il primo tentativo di tracciamento di acque sotterranee documentato nella storia dell'uomo. Le origini delle grotte sono però ben più antiche e precedono di molto la presenza dell'essere umano sul pianeta. Per comprenderle dobbiamo affacciarci sull'ingresso della Schmidlova Dvorana: qui, di fronte alla sguardo, si schiude l'ampio spazio aperto della Velika Dolina, inondata di luce che dall'alto la riempie come fosse un ampio recipiente. Occorre a questo punto precisare che per dolina si intende una conca chiusa tipica dei territori carsici, formatasi secondo un meccanismo che prevede una lenta azione di erosione e dissoluzione delle rocce calcaree: la parola deriva proprio dalla lingua slovena e nella sua accezione originale indicherebbe semplicemente una valle, ma visto lo stretto legame tra il carsismo e questa regione della Slovenia il vocabolo è stato assunto universalmente in tutte le lingue del Mondo per indicare una depressione di origine carsica. La genesi di questa grande cavità delimitata da pereti rocciose risale ad un periodo compreso tra 120.000 anni fa' ed 11.000 anni fa': fu in quest'epoca che crollò la volta della parte di canale sotterraneo prossima all'inghiottitoio del fiume, creando con questo evento di smisurata potenza due doline di crollo, la Velika Dolina profonda 163m ed ampia circa 300m, e la Mala Dolina più piccola e profonda appena (si fa per dire) 120m. Quest'ultima è infatti attigua alla prima e comunicante con essa per mezzo di un ponte naturale ricavato nella roccia, porzione di volta sopravvissuta al crollo, chiamato Mali Naravni Most. A millenni di distanza, proprio dalla Velika Dolina partirono la maggior parte delle esplorazioni sotterranee di epoca moderna condotte dai primissimi pionieri che volta per volta conquistarono sempre maggiori porzioni di questo vasto sistema di grotte. A cominciare da Jakob Svetina, costruttore triestino di pozzi, il quale nel 1840 per primo si addentrò per una profondità di 150m in una strettoia rocciosa che si dipartiva dalla Velika Dolina. In precedenza, nel 1815, fu il triestino Josef Eggenhöfner a raggiungere a nuoto l'apertura della Velika Dolina attraverso il decorso del Reka, contribuendo così alla conoscenza degli ingressi verso le grotte sotterranee.

Dalla Schimdlova Dvorana il percorso prosegue riemergendo in superficie: da qui è possibile intraprendere tre direzioni differenti indicate su un pannello espositivo posizionato al limite della grotta e contrassegnate da tre colori diversi: l'itinerario verde è il più breve, richiede circa 15 minuti di percorrenza e solo un centinaio di gradini in salita, l'unico che consente il ritorno al punto di partenza utilizzando un ascensore elettrico; l'itinerario giallo è leggermente più impegnativo, con 600m di distanza da percorrere, circa 400 gradini in salita ed una durata di mezz'ora; infine l'itinerario rosso è il più lungo e faticoso, con 2,5km di camminata, 700 gradini in salita, può impiegare fino ad un'ora e mezza per essere compiuto. Optiamo per il percorso intermedio, quello contraddistinto dal colore giallo: come sostenevano anche i latini "In medio stat virtus". Del resto ci avventureremmo anche sull'itinerario rosso, ma Amelia è già stata bravissima ad attraversare in competa autonomia le grotte e Lidia si è appena svegliata dal suo riposino pomeridiano consumato un po' scomoda nel marsupio. Seguiamo le indicazioni ed iniziamo la risalita: il sentiero piega verso sinistra uscendo definitivamente allo scoperto della luce del giorno, costeggiando la parete rocciosa. A brevissima distanza dalla partenza incontriamo l'ampio ingresso di una nuova grotta: si tratta della Tominčeva Jama, intitolata alla memoria di Matej Tominc, consigliere provinciale che nel 1815 condusse i lavori di realizzazione di un nuovo sentiero che dalla Velika Dolina aprivano la via proprio verso la caverna laterale che oggi porta il suo nome. Lo stesso Tominc nel 1819 fece fabbricare, secondo alcune teorie solo riparare, le scalette che collegavano le due doline attigue. A partire da questo momento si fa risalire l'apertura del sito al turismo comune, come conferma la creazione del libro delle firme dei visitatori che viene redatto per la prima volta proprio a seguito di questi lavori.

All'ingresso della 
Tominčeva Jama si posiziona una sorta di scultura dalle forme simili a quelle di una fontana, più in là tutto vene inghiottito dall'oscurità di questa larga grotta. Lo spazio impenetrabile alla vista della caverna venne usato in epoca preistorica dagli uomini primordiali come rifugio, circostanza testimoniata dal rinvenimento al suo interno di scheletri sistemati in una composizione logica ed ordinata insieme a resti di suppellettili, probabilmente un sito di sepoltura. Tale rinvenimento fece di questo luogo la necropoli più antica mai scoperta sul territorio del Carso. L'area su cui sorge oggi il Park Škocjanske Jame era in effetti luogo frequentato dai nostri antenati preistorici: non è difficile immaginare come migliaia di anni fa' questa regione, ricca di ripari sotterranei ed ampie cavità rocciose, potesse offrire buone opportunità di rifugio dalle minacce esterne, rovesci del clima e bestie feroci, oltre che un efficiente ed abbondante approvvigionamento di acqua. Inoltre le profondità del sottosuolo rivestivano un grande simbolismo mistico per l'uomo delle origini, costituendo una sorta di collegamento tra la realtà terrena e l'ignoto, l'insondabile, l'inarrivabile, quindi il divino. Sono infatti numerosi i reperti che collocherebbero nei pressi di quest'area molteplici siti celebrativi ed aree funerarie, come presso la Mušja Jama, situata sotto il villaggio di Škocjan, dove a 50m di profondità vennero rinvenuti i resti di 600 oggetti in metallo risalenti ad un periodo compreso tra il XII secolo a.C. e l'VIII secolo a.C., oltre a fossili di ossa animali che confermerebbero l'usanza antichissima di eseguire sacrifici alla deità ancora 4.000 anni fa'. Dalla grande eterogeneità dei ritrovamenti effettuati si ipotizza che questo luogo fosse frequentato da uomini provenienti da civiltà diverse, come quella italica, alpina, balcanica e greca, circostanza che dona ulteriore importanza a questi luoghi dal punto di vista sociale, religioso e mistico: gli insediamenti preistorici sul territorio occupato oggi dal Park Škocjanske Jame dovevano essere da questo punto di vista uno dei punti più importanti di questa regione. Tali usanze e credenze connesse alle profondità inesplorate della Terra troveranno seguito anche in culture successive e più avanzate rispetto a quella preistorica, come in quella ellenica, basti pensare al regno sotterraneo del dio Ade, all'omerica discesa negli inferi di Ulisse ed alla mitica fucina vulcanica del dio Efesto.

Superata anche 
Tominčeva Jama, il sentiero procede per un breve tratto in piano circoscrivendo il margine della Velika Dolina ed offrendo su di essa molteplici magnifiche vedute. Lo sguardo da qui percorre facilmente lo spazio che separa le due estremità della dolina e sul lato opposto si sofferma su una stretta feritoia che attraversa la parete rocciosa dall'alto verso il basso, una sottile fessura nella pietra attraverso la quale trova passaggio il Reka formando una piccola cascata. Sulla cima un piccolo ponte artificiale consente il passaggio tra le due estremità della fenditura. Il camminamento si insinua quindi lungo il confine tra la Velika Dolina e la Mala Dolina per cominciare ben presto a salire su ripide scalinate. L'impresa si dimostra più faticosa del previsto ma infine raggiungiamo l'apice del percorso: un ultimo sguardo al cammino che ci siamo lasciati alle spalle e proseguiamo su una pista sterrata che supera un punto ristoro fornito di abbeveratoi e ritorna infine al comprensorio dal quale eravamo partiti, quello con la biglietteria e la piccola caffetteria. Qui ci sediamo per ristorarci con una bibita ed un gelato, premio innegabile ad Amelia che ha camminato l'intero percorso senza alcun aiuto. Termina così la nostra visita al Park Škocjanske Jame: un luogo inseguito da tempo con la fantasia e l'immaginazione, alfine raggiunto e conquistato, esplorato nelle sue forme immutate da millenni eppure vive ed in continua evoluzione. E risalendo in automobile per fare ritorno ai nostri alloggi, posso finalmente pensare che i sogni a volte si possono avverare.